4 Feb 2022

Paesaggi sonori e field recording in DanzArTe. Due testimonianze

DanzArTe pone l’accento non solo sulla sonificazione dei movimenti dei partecipanti, ma anche sullo sfondo acustico che fa loro da cornice, da “ambiente”. A questo fulcro di interesse se ne collega direttamente un altro, il cosiddetto field recording: la pratica, ai più nota come fonografia, allude a qualsiasi registrazione prodotta al di fuori di uno studio e più precisamente in natura. Ad approfondire questi nuclei tematici – in relazione a DanzArTe – sono Andrea Cera, sound designer, e Andrea Greco, musicoterapeuta e laureando magistrale in Digital Humanities all’Università di Genova, entrambi coinvolti nel progetto.

Il dialogo con Andrea Cera permette di chiarire il modo in cui siano stati realizzati i vari sfondi sonori.

Ci sono tre motivi che ci hanno spinti a creare degli sfondi sonori. In primo luogo, le sonificazioni dei movimenti hanno bisogno di una scena sonora controllata su cui stagliarsi. Essendo suoni esili, a bassa intrusività, dall’andamento imprevedibile (giacché legati al comportamento delle persone che partecipano all’esperienza), hanno bisogno di appoggiarsi su un piano sonoro stabile. In secondo luogo, tali sfondi servono per delimitare l’esperienza di DanzArTe rispetto al tempo e allo spazio della quotidianità, creando un’atmosfera diversa – ma non straniante – rispetto a quella che caratterizza l’ambiente sonoro di tutti i giorni. È come se ci fosse una finestra socchiusa da cui penetra il suono di un giardino. In ultima istanza, gli sfondi sonori aiutano a suggerire uno stato emozionale positivo e rilassato, mascherando possibili suoni irritanti provenienti dal panorama urbano circostante.

Ricerche nel quadro della psicoacustica e dell’environmental design hanno evidenziato (un esempio in [1]) come i suoni di natura siano particolarmente adatti a tali scopi, avendo la capacità di ricreare la salienza di situazioni piacevoli senza dover competere in potenza con suoni disturbanti anche ad alto volume. Quali suoni di natura selezionare per il progetto DanzArTe, in cui l’aspetto visuale riposa su opere di Luca Cambiaso, artista del XVI secolo?

Le opere utilizzate, scelte per la loro pertinenza ai movimenti impliciti e all’aspetto posturale delle figure rappresentate, non forniscono sufficienti informazioni ambientali per permettere un approccio vicino alla cosiddetta “archeologia del paesaggio sonoro” (una disciplina – quest’ultima – che mira a ricostruire il suono di epoche passate, a partire da rappresentazioni di vedute e paesaggi, come nel lavoro di Mylène Pardoën [2]). I quadri di Cambiaso suggeriscono invece un ambiente sonoro scarno, essenziale, sobrio. Abbiamo pertanto cominciato esplorando suoni di natura generici, provenienti da librerie sonore. Ma l’accostamento non funzionava, a causa dell’eccessiva differenza tra l’estetica misurata delle opere pittoriche e la rappresentatività esagerata, quasi caricaturale, da cartolina, dei suoni di natura presenti nelle collezioni commerciali (foreste amazzoniche, panorami caratterizzati da versi di animali esotici, scene iper-realistiche). Nella fase successiva abbiamo quindi cercato di de-contestualizzare questi suoni di natura, mirando a riprodurre l’ascolto immaginario, trasfigurato, che sembrava fissarsi nelle opere pittoriche selezionate. Eliminare la storia, eliminare le tracce dell’attività umana, creare una geografia sonora astratta. Siamo allora ripartiti, cercando i nostri materiali in zone di natura il cui suono odierno potrebbe somigliare a quello ascoltato a suo tempo – nel XVI secolo – dal Cambiaso. Zone della Liguria dove la civiltà moderna non si è ancora insediata, come la Riserva dell’Adelasia.

Note
[1] Cfr. Joo Young Hong, Zhen-Ting Ong, Bhan Lam, Kenneth Ooi, Woon-Seng Gan, Jian Kang, Jing Feng and Sze-Tiong Tan, Effects of Adding Natural Sounds to Urban Noises on the Perceived Loudness of Noise and Soundscape Quality, in «Science of The Total Environment», Volume 711, 2020.
[2] Si veda la pagina https://www.cnrs.fr/fr/personne/mylene-pardoen.

È ora il turno di Andrea Greco, pronto a raccontare alcune tappe della sua ricerca a caccia di suoni nelle vallate liguri. Un’indagine lontana dalle voci ipertrofiche della contemporaneità e attenta piuttosto a raccogliere i lievi sussurri di una natura ancora protetta dall’industrializzazione.

Questo progetto, che farà parte della mia tesi di laurea, mi ha dato la possibilità di cimentarmi per la prima volta con la pratica del field recording, un’occasione che mi ha insegnato a vedere la mia terra in modo diverso, anzi, a “sentirla”. Può sembrare un gioco di parole funzionale a creare magia, ma non lo è: solo sul campo, infatti, si comprendono le gioie e le difficoltà insite nella ricerca sonora dell’ambiente. Sono partito equipaggiato con ciò che avevo a disposizione: una macchina fotografica (Canon EOS 6D) e un microfono shotgun (Rode VideoMic pro) che già utilizzavo per la produzione di contenuti per i social media. Così ho perlustrato alcune zone naturali della mia città, Savona, da Vado Ligure a Varazze, toccando luoghi di rilievo come la pineta Bottini di Celle Ligure o il parco naturale dell’Adelasia con i suoi faggi monumentali. La Liguria, pur essendo una sottile striscia di terra, presenta una ricca biodiversità che permette di spostarsi tra paesaggi differenti in tempi relativamente brevi: al mattino sei sulla spiaggia ad ascoltare il mare e nel pomeriggio puoi percorrere sentieri boschivi immersi in una nebbia che dona al luogo l’atmosfera di un film fantastico vecchio stile. Ovviamente ci sono alcune difficoltà: in estate, per esempio, le registrazioni sono rese più difficoltose dal turismo; in inverno invece i disagi sono dettati dal calo delle temperature (per le registrazioni è richiesto infatti il massimo silenzio possibile: ciò significa restare immobili per diversi minuti alla mercé del freddo). Con il field recording l’ascolto diventa un esercizio attivo e si scoprono tutti quei dettagli che normalmente vengono dati per scontati. Pensi: “Dai, oggi si va in campagna… ne approfitto e faccio due riprese del vento. Facile e veloce”. Ma è capitato più di una volta di non trovare un filo d’aria – fenomeno raro per chi viva in riva al mare come me, dove il vento è praticamente una costante. In presenza del vento, viceversa, capitava che il materiale della registrazione fosse contaminato da voci umane in lontananza, oppure dal rombo delle moto e delle automobili di passaggio sui tornanti collinari. In un angolo verde nei pressi di Giusvalla, dove una cascatella artificiale crea un piccolo stagno, a tratti il verso delle cicale e lo scorrere dell’acqua venivano accompagnati dal rumore di elicotteri e aeroplani. Sembrava di essere capitati proprio sotto a una porzione di cielo dedicata alle rotte di volo. Ammetto di essere stato accompagnato dalla frustrazione nel mio percorso di ricerca sonora e ho imparato quanto il “fattore umano” sia onnipresente, nelle sue mille forme, anche in luoghi che si immaginano isolati. In città poi (per le riprese sonore delle onde marine) questo è un problema estremamente rilevante, che mi ha costretto spesso a mettermi all’opera in piena notte, in attesa che la città dormisse. Alcune delle registrazioni hanno quindi subìto un processo di taglio di brevi porzioni: quanto bastava per eliminare le intrusioni umane da quel mondo che si fa impronta sonora del paesaggio ligure. Un’impronta, quella naturale, che muta in un tempo lento, non compatibile con il nostro – frenetico – ma che, in virtù di ciò, collega trasversalmente le vite del presente e del passato. Allora diventa facile credere che la voce del mare o gli odierni pettegolezzi, portati di selva in selva dai quattro venti, non siano troppo dissimili da quelli che il Cambiaso poteva udire percorrendo i sentieri della sua Genova.

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