Palestra del feedback: un atelier intensivo dedicato alla condivisione

Palestra del feedback: un atelier intensivo dedicato alla condivisione


Un progetto a cura di shared training torino, Workspace Ricerca X e Lavanderia a Vapore; partecipano Beatrice Bresolin, Lucia Di Pietro, Lucrezia Palandri, Lorenzo De Simone, Lorenzo Giansante, Doriana Crema, Chiara Ameglio, Angela Fumarola, Marco Betti, Paola Granato


La palestra del feedback – ospitata dalla Lavanderia a Vapore dal 19 al 24 settembre, coinvolgendo un gruppo eterogeneo di artisti e curatori – è uno spazio improntato alla sperimentazione di metodologie di lettura e di feedback relative a materiali creativi ancora incompiuti. La pratica del feedback è un approccio fondante nei processi relazionali, collettivi e creativi nonché un tassello imprescindibile di ogni percorso di accompagnamento artistico. L’allenamento incoraggiato da STT e Workspace Ricerca X propone dunque offrire, ricevere e moderare feedback, muovendo dall’idea secondo cui il lavoro comune parta da posizioni diverse e si sviluppi equamente su tre differenti piani: espressione, ricezione e moderazione del feedback stesso.

Re-enactment e ri-presentificazioni. Per un chiarimento del concetto, tra prassi e teoria

Re-enactment e ri-presentificazioni. Per un chiarimento del concetto, tra prassi e teoria

Fulcro del progetto Swans Never Die, il concetto di re-enactment non appare tuttavia di facile accesso. Per provare a chiarirne i contorni, un collage di “definizioni” tratte da esperienze dirette di pratica coreografica e da riflessioni teoriche a firma di rinomati studiosi.

Fondamentale nei più recenti sviluppi dei Performance and Visual Studies, il termine re-enactment – baricentro concettuale del progetto Swans Never Die – merita un doveroso chiarimento. È per prima la coreografa Silvia Gribaudi, reduce dalla residenza Peso Piuma – Collective con il BTT, a provare a spiegare questa complessa nozione, letteralmente vissuta sul proprio corpo di artista:

Lavorare all’interno del progetto Swans Never Die ha sollecitato in me, innanzitutto, una riflessione su come tradurre in azione presente una memoria. Mi ha inoltre indotta a concentrarmi sulla relazione tra coreografa, performer e spettatore attivo, in particolare in direzione dell’incontro e di come quest’ultimo ri-generi la danza. Mi affascina la dimensione del processo creativo, tale da condurre l’opera al punto in cui non appartiene né alla coreografa né al performer, né tanto meno a chi la riceve. Al tempo stesso, però, essa appartiene a tutte e tutti. I ruoli si intrecciano, mescolando reciproche intuizioni, reciproci sguardi. Le parti si fondono, potenziandosi a vicenda. Di chi è allora l’opera? Nella Morte del cigno si trattava di un dialogo aperto tra Fokine, il coreografo, e Anna Pavlova, che aveva instillato nel solo, in quanto interprete, la sua espressione unica. Con Balletto Teatro di Torino ci siamo tuffati in questo processo, in quello spazio di relazione in cui le dinamiche non conducono a ruoli predeterminati, bensì dischiudono un reale incontro, che determina rotture e ricomposizioni di codici. Un dialogo empatico finalizzato alla costruzione di patti relazionali tra chi compie l’azione e chi la riceve, ri-trasformandola, per poi restituirla in un ciclo infinito di azioni e reazioni. Peso Piuma – Collective è stata dunque la ricerca di un’osmosi che portasse a una vibrazione vitale, che permettesse una continua trasformazione, offrendo così l’opportunità – a chiunque la praticasse – di esistere nel tempo. Inafferrabile e indefinibile, ma completamente vivo!


Nel «Dancing Museums Glossary», le studiose Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich, alla voce dedicata al re-enactment, annotano:

Even though reenactment defines a very distinct phenomenon that we usually refer to as re-performance, re-make or re-creation, in dance, it certainly offers a different approach to past dances in comparison to the established practice of historical reconstruction. As suggested by Mark Franko in his introduction to The Oxford Handbook of Dance and Reenactment (2018), whereas reconstruction always reveals dance as already historical, reenactment treats the past dance as something that exists in the present. Therefore, it troubles our sense of what we perceive as distant in time, forgotten or lost. In other words, reenactments shift the focus from remaining true to a past source to its appropriation in the present, and in contrast to historical reconstructions, they reject the idea of accurate renderings of a past work from an anti-positivist theoretical perspective. In Performing Remains: Art and War in Times of Theatrical Reenactment (2011), Rebecca Schneider suggests we re-think the ontological status of performance as what remains rather than what vanishes without leaving any trace. Some reenactments for contemporary audiences stage dance works that never lost their place in cultural memory, while others make available for the first time dance pieces that oblivion, marginalisation or censorship have limited in their journey through time and space. These different kinds of reenactment share the rethinking of methods for approaching the past, and the dramaturgical and conceptual framework that removes claims of authenticity. Dance reenactments also reject the linearity of the traditional narratives of dance history, its chronologies and genealogies, which have been taken for granted. For these reasons, they are precious tools for reflecting upon the structures of knowledge that emerge within old and new historical accounts, and for re-thinking how the blurring of reality and historical fiction can be productive.

Volendo azzardare, il campo semantico di pertinenza del re-enactment (all’occorrenza coniugabile nelle sue forme to re-enactre-enacting) non risulterebbe troppo dissimile da quello descritto delle “ripresentificazioni”, su cui si è ampiamente espressa la critica woolfiana: con tale espressione si allude al processo attraverso il quale il soggetto recupera dal proprio passato, riportandole nel presente, esperienze ormai defunte e le esplora tramite l’ausilio dei sensi. Si tratta dunque di una memoria che torna nuovamente presente, non tanto in forme di ripensamento o rievocazione (à la madelaine di Proust), quanto piuttosto nella capacità di avvertire l’istante trascorso – a livello percettivo e corporeo – ancora attuale. Una declinazione – si potrebbe asserire – di tipo sensoriale della cosiddetta “memoria involontaria” di Henri Bergson. Nel tentativo di rintracciare un adeguato traducente italiano per il sostantivo, Alessandro Pontremoli – nella nota al testo di André Lepecki, Il corpo come archivio – scriveva:

Il termine è difficilmente traducibile a motivo della sua pregnanza semantica e di esso non dà adeguatamente ragione il termine italiano rievocazione (verbo: rievocare), perché troppo compromesso con fenomeni performativi molto distanti da quello in oggetto, come ad esempio le rievocazioni storiche di molte città italiane. Si [sceglie] comunque la strada di una possibile traduzione, necessaria per una concettualizzazione, anche nella nostra lingua, di alcune fenomenologie coreiche e dei corrispondenti strumenti critici e teorici, seguendo le indicazioni etimologiche e le precisazioni antropologiche proposte da Edward C. Warburton nel saggio Of Meanings and Movements. Re-Languaging Embodiment in Dance Phenomenology and Cognition, «Dance Research Journal», 43, 2011, 2, pp. 65-83: «Enaction is a word derived from the verb to enact: “to start doing”, “to perform” or “to act”» (p. 69). L’espressione italiana che ci [sembra] tener conto del maggior numero di fattori di significato è ri-messa-in-azione (forma verbale: ri-mettere-in-azione). Anche se poco elegante dal punto di vista formale, essa presenta una certa efficacia nel rendere quanto l’autore del saggio intendeva teorizzare e descrivere.

Matteo Tamborrino


Bibliografia essenziale e parziale (in ordine cronologico)

  • Susanne Franco, Marina Nordera, Introduzione, e Annalisa Sacchi, Il privilegio di essere ricordata. Su alcune strategie di coreutica memoriale, entrambi in Eadd. (a cura di), Ricordanze. Memorie in movimento e coreografie della storia, UTET Università, Torino 2010;
  • Rebecca Schneider, Performing Remains: Art and War in Times of Theatrical Reenactment, Routledge, London-New York 2011;
  • Marcella Lista, Play Dead: Dance, Museums, and the “Time-Based Arts”, «Dance Research Journal», XLVI, 3 (2014), pp. 6–23;
  • André Lepecki, Il corpo come archivio. Volontà di ri-mettere-in-azione e vita postuma delle danze, trad. it. Alessandro Pontremoli, V, 1 (2016), pp. 30-52: <https://journals.openedition.org/mimesis/1109>;
  • Claire Bishop, Black Box, White Cube, Gray Zone: Dance Exhibitions and Audience Attention, «TDR: The Drama Review», LXII, 2 (2018), pp. 22–42;
  • Marko Franko (ed.), The Oxford Handbook of Dance and Reenactment, Oxford University Press, New York 2018;
  • Alessandro Pontremoli, Coreografare Bach. Le Variazioni Goldberg di Steve Paxton e Virgilio Sieni tra percezione e memoria, in Simona Brunetti, Armando Petrini, Elena Randi (a cura di), «Vi metto fra le mani il testo affinché ne possiate diventare voi gli autori». Scritti per Franco Perrelli, Edizioni di pagina, Bari 2022, pp. 354-355.
Teatro e spazio pubblico: un connubio che diventa convegno

Teatro e spazio pubblico: un connubio che diventa convegno

Il teatro quale atavica manifestazione del rapporto tra fatto creativo, luogo fisico e società: è da questo assunto che ha preso avvio, il 9 settembre scorso, il Convegno Internazionale “Teatro e spazio pubblico”, organizzato dalla Libera Università e dal Teatro Stabile di Bolzano con il patrocinio dell’AIS – Associazione Italiana di Sociologia, in collaborazione con l’ISA – International Sociological Association e RC27 Sociology of Arts. A coordinare i lavori, Ilaria Riccioni, ricercatrice e docente di Sociologia generale alla LUB, nonché autrice – fra gli altri – del volume Teatro e Società: il caso dello Stabile di Bolzano, recentemente edito per i tipi di Carocci (Roma, 2020). 

A ben guardare, l’allitterante trinomio scena-spazio-società è un tipico connubio di lunga durata. Nell’Atene del V-IV secolo a.C., il teatro rappresentava l’anello di congiunzione tra speculazione filosofica, praticata lungo la via del Peripatos, e maestosità dell’Acropoli. A livello geografico, il teatro di Dioniso – sede di agoni e tetralogie – era situato ai piedi del Partenone, tempio dedicato a Zeus e successivamente consacrato ad Atena, la protettrice della polis partorita dal capo del padre, nota ai più come paladina della sapienza. La conoscenza, dunque, è il traguardo di un lento percorso gnoseologico ed emotivo, che ha origine nel teatro, nell’esperienza rituale collettiva, e che, passando per la catarsi, l’inflazionata purificazione delle/dalle passioni, raggiunge la comunità, quella politeia che, riunitasi nel theatron e grazie alla visione delle più indicibili nuance del proprio agire, prende coscienza di sé, del proprio edipico “errare”.

Ora, come segnalava Riccioni nella call for papers del Convegno, «nella società contemporanea interconnessa e virtuale il teatro mantiene la propria funzione, grazie alla sua qualità di arte dinamica che riproduce l’esperienza del qui ed ora. Ancora di più, nell’era del consolidamento dell’uso del digitale nella vita quotidiana, il teatro può vivere una stagione di rinnovata vitalità e di estremo interesse in termini sociali, giacché offre uno spazio di creatività. Lo spettatore diventa così compartecipe della costruzione del significato collettivo dell’evento e al tempo stesso ne viene trasformato attraverso la relazione diretta. Secondo Ferrarotti l’arte e la società si incontrano in un complesso abbraccio e, a seconda della stretta, quest’ultimo può diventare mortale o salvifico». 

La tre giorni bolzanina si è perciò proposta di indagare, grazie all’intervento di ospiti italiani e stranieri, le molteplici declinazioni dell’attività teatrale in contesti sociali, approfondendo – tramite nove macro-temi (teatro e società, teatro e spazio pubblico, teatro e sociologia, teatro e social media, performance e spazi urbani, teatro e benessere, nuove prospettive semantiche nelle performance e processi di inclusione sociale) – una fitta rete di sottili problematiche, dalla funzione del corpo all’interno di uno spazio condiviso alla teatralità come opportunità di sviluppo dell’immaginario, passando per i processi pedagogici e le esperienze di comunità. E ancora, le ibridazioni linguistiche, il welfare territoriale, la relazione con l’altro, la politica culturale, le azioni agit-prop.

Tra la Sala Grande del Teatro Comunale e le aule della LUB si sono così alternati ben quaranta relatori, ciascuno portando all’attenzione della platea motivi e figure di notevole interesse: soltanto per citare qualche nome, l’Estate Romana di Nicolini, al centro dell’intervento del Prof. Guarino (Università Roma Tre); le pratiche performative per l’inclusione dei migranti a Milano, su cui ha riferito la Dott.ssa Guerinoni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano); o ancora gli sconfinamenti dallo spazio pubblico urbano nella cornice dei festival teatrali, proposti dalla Dott.ssa Pratelli (Università di Pisa). Accanto ai case-study non sono mancate riflessioni teoriche di più vasto respiro, come l’affondo su teatro e tecnologia del Prof. Amendola (Università di Salerno) o l’idea di teatro come spazio di liminalità pubblica nell’era digitale avanzata dal Prof. Deriu (Università di Teramo). Molti inoltre i contributi d’Oltralpe, firmati da esimi studiosi provenienti da Londra, Gottinga e Zagabria, dal Texas e perfino dal Cile. A completamento delle iniziative, le presentazioni di Teatro Stabile di Bolzano. 70. La storia, gli spettacoli (Electa, 2021), volume di Massimo Bertoldi con intervento di Marco Bernardi, e della già citata monografia di Riccioni. L’occasione convegnistica pare in effetti germinata proprio dall’indagine condotta dalla ricercatrice in seno all’ente teatrale cittadino: un’esplorazione corredata da interviste agli spettatori, alla scoperta delle diversità culturali (e linguistiche) del territorio.

Naturalmente, nel capoluogo altoatesino, sede di Tanz Bozen, non poteva mancare la danza, protagonista di due relazioni: la prima, a cura del dottorando Andrea Zardi (Università di Torino), incentrata sulle cosiddette “drammaturgie del distanziamento”, ossia i rapporti tra arte coreica e spazio pubblico nell’età post-pandemica; la seconda, opera di chi scrive, sceglieva invece come focus la Casa della Danza di Collegno e le sue progettualità. Appare tuttavia doverosa, prima della sintetica descrizione dei contenuti dell’intervento (di prossima pubblicazione), una breve premessa.

Come ricorda Cruciani, a partire da Grotowski «lo spazio scenico […] diventa un dispositivo che struttura la relazione sulla scena e, attraverso la scena, con gli spettatori». Negli ultimi settant’anni, in effetti, una precisa funzione drammaturgica dello spazio va progressivamente affermandosi, definendo la spazialità quale parte integrante di una più vasta e composita scrittura scenica. Contestualmente – spiega De Marinis – tale spazio è sempre più vissuto come un luogo di partecipazione, come una realtà in cui l’agognata relazione tra attori e pubblico diventa possibile, anzi reale. Ovviamente lo spazio teatrale di cui qui si parla è inteso in senso lato, non coincidendo necessariamente o semplicemente con il luogo della messinscena. Può infatti sconfinare in altri ambienti e contesti, risemantizzandoli a livello storico e donando loro nuova linfa. Il teatro invade perciò la realtà urbana, i suoi monumenti, le sue vestigia (sebbene il binomio teatro/città, come ben sapeva Zorzi, non sia certo una costruzione dei “nostri tempi”). Questa teatralità diffusa – va da sé – non solo si sovrappone alle mere architetture (gli “spazi fisici”), ma interagisce con comunità e gruppi (gli “spazi umani”), facendosi marca di inclusione. Per dirla con Badiou, il teatro «is an art of the collective». 

Ora, il processo di risemantizzazione storica e di rigenerazione relazionale risulta tanto più vivido – come insegna Pontremoli in Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità (UTET, 2015) – se ad essere coinvolto è un “luogo del disagio”, per esempio un ex-ospedale psichiatrico, dove la parola un tempo segregata e il corpo anticamente coatto possono finalmente aprirsi e liberarsi nello spazio. Tutto ciò rende la Lavanderia a Vapore – in virtù del suo passato di coercizione e della sua attuale essenza di luogo abitato, di punto di riferimento pubblico per artisti e comunità – un caso particolarmente rappresentativo. 

Venendo all’intervento, dal titolo Lavanderia a Vapore, da manicomio a Casa della Danza. Un’esperienza contemporanea di relazione fra spazio teatrale e comunità territoriali, dopo un breve recap sulla storia del luogo, ala del famigerato manicomio di Collegno, e una rapida postilla terminologica sulla nozione di “comunità”, esso si concentrava sull’attuale mission del Centro di residenza e sul suo regime di governance condivisa. L’attenzione era poi posta su uno dei tre obiettivi-chiave della Lavanderia: PARTECIPARE. Al di là delle specificità del complesso architettonico e delle sue traumatiche radici, appare infatti cruciale qui il rapporto con la cittadinanza, coinvolta in numerosi progetti. Si passavano a questo punto in rassegna tre esempi di coinvolgimento attivo delle comunità locali: Media Dance, programma di innovazione didattica rivolto a studenti e docenti; Dance Well Dancers, percorso artistico e filosofico teso a superare le differenze imposte dalla malattia, in direzione della costituzione di una comunità di pratica mista e inclusiva; e infine la residenza, strumento attraverso il quale gli artisti possono relazionarsi con specifici gruppi sociali, nutrendo la propria ricerca.

Matteo Tamborrino, dottorando in Storia del teatro presso l’Università di Pisa e cultore della materia in Discipline dello spettacolo all’Università di Torino

Volti, pensieri e corpi. Quando le pratiche di filosofia incontrano la danza.

Volti, pensieri e corpi. Quando le pratiche di filosofia incontrano la danza.

Sono due anni che collaboriamo con la Lavanderia a Vapore e abbiamo avuto già il piacere, nel 2019, di far parte del progetto Media Dance con Blume. Siamo andati sia nelle classi sia a teatro, intrecciando la pratica di filosofia, la philosophy for children/community, alla danza. Ci si chiederà cosa siano queste attività e come s’intreccino con i progetti della Lavanderia a Vapore e come, a differenza dello scorso anno, sia stato possibile proseguire questi incontri anche a distanza, on line, senza perdere il senso iniziale di questa esperienza racchiuso innanzitutto nell’idea che il dialogo filosofico possa entrare in relazione con quello della danza. Riteniamo che queste due pratiche, caratterizzate da un clima relazionale fatto di ascolti e confronti, siano un’occasione irrinunciabile per una scuola intesa anche come spazio e tempo di ricerca, riflessione e sviluppo di un pensiero critico e autonomo.

Facciamo una breve premessa intorno alle pratiche a cui stiamo facendo riferimento. Le pratiche di filosofia sono un insieme di esperienze di pensiero filosofico, ispirate alla pratica della philosophy for children/community attività che nasce nei primi anni ’70 grazie al lavoro di Matthew Lipman, docente di Filosofia e Logica presso la Columbia University di New York e Ann Margareth Sharp docente di pedagogia. Tale proposta, ampiamente affermatasi negli anni sempre più in molti paesi del mondo, muove dal presupposto che la filosofia detenga un valore formativo ed educativo. La pratica di filosofia non si prefigge l’insegnamento della filosofia e non va quindi intesa come trasmissione di sapere, ma si pone come attività in grado di favorire lo sviluppo di abilità generali di ragionamento (critica), di relazione sociale (cura) e di concettualizzazione (creativa). La Philosophy for children/community auspica una pluralità di trasformazioni e ritiene di estrema rilevanza il dialogo, l’argomentazione il confronto di idee in un clima solidale e sensibile improntato all’idea di comunità di ricerca. Con questa disposizione al dialogo attraverso la domanda, la riflessione e l’argomentazione, abbiamo incontrato le/gli insegnanti e i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato alle residenze della Lavanderia a Vapore. In particolare abbiamo affiancato la residenza Versus coordinata da Barbara Altissimo all’IIS Galileo Ferraris di Torino, un percorso teatrale che ha approfondito il tema della violenza di genere. Abbiamo poi collaborato alla residenza The risico shooting, coordinata da Alain El Sakhawi, presso l’IT Albe Steiner di Torino, un lavoro che ha preso forma a partire dal progetto MAPS – migrating Artists Project, progetto transmediale di cooperazione fra cinque paesi europei, che sviluppa il tema del potere della digitalizzazione. 

Ogni incontro di philosophy for children/community si è sviluppato come una situazione rivolta ad approfondire, ampliare e sollecitare alcuni dei temi che sono alla base dei percorsi più specificatamente legati alla danza a e alla coreografia e parallelamente a sostenere e facilitare un processo di sperimentazione di metodologie di pratica di filosofia con le/gli insegnanti. Quest’ultimo elemento è emerso con forza come desiderio per aprire spazi di dialogo ulteriore e modalità in grado di valorizzare i soggetti nella loro espressione creativa e riflessiva. L’esperienza della pandemia che stiamo vivendo ci ha chiesto di sviluppare queste attività in un contesto digitale che è divenuto occasione anch’esso per esplorare una dimensione corporea differente in cui il volto, la parola-voce il corpo hanno espresso nuovi modi da portare al centro del nostro sguardo interrogativo. Tali spazi di pratiche di filosofia, profondamente attenti all’ascolto e all’approfondimento di alcune interrogazioni emerse dal ragionamento e dal dialogo con studenti e insegnanti, hanno valorizzato una presa di parola capace di incontrare più linguaggi e modi di pensiero. Danza e filosofia, in questa prospettiva dialogica e in un contesto di comunità di ricerca, possono rappresentare un’occasione di crescita e in cui il pensare filosofico è una facoltà di cominciamento umana e comune che si sviluppa attraverso il bisogno di pensiero di ognuno.

Chi si occupa di filosofia solitamente studia scrive ed eventualmente parla dialoga discute. Lo fa con passione puntualità e serietà. Il filosofo, o la filosofa, pensano e impegnano a fondo la mente. Se parliamo di mente, quasi inevitabilmente, per converso, entra in scena il corpo. ‘Qual è il corpo della filosofia?’ o forse ‘Come entra in gioco il corpo nelle i-stanze filosofiche?’ Il primo movimento è quello di uscire non solo dalle abituali i-stanze filosofiche, ma anche dalle stanze, aule, residenze abituali della filosofia ovvero ove siamo soliti incontrarla (università, biblioteche aule dei licei, scuole prestigiose delle città). Si tratta di immaginare esperienze filosofiche laddove non pensiamo possano esserci o forse si tratta di ritrovare la filosofia riconoscerla laddove è sempre stata, ma abbiamo smesso di cercarla, vederla, apprezzarla. Il corpo della pratica filosofica va ritrovato altrove. In fondo, a ben guardare, le esperienze educative, e in qualche modo anche quelle didattiche, ci spingono ad un ripetuto ed incessante incontro con l’altro. I ruoli di educatore e di insegnante ci “costringono” a fare i conti con l’altro e ad elaborare, in conseguenza di ciò, diverse risposte. Diverse nel senso che non è pensabile porsi in modo uguale nei confronti di tutti e, così facendo, è un po’ come se questa differenza, questa alterità, inizialmente collocata innanzi a noi, s’insinuasse dentro di noi, divenisse un po’ alla volta una possibilità del nostro agire, una risorsa. Tuttavia l’entrata in scena dell’altro talvolta assume i contorni dell’irruzione minacciosa della differenza, specie in un contesto omologante come talvolta può essere quello della scuola. Non certo solo della scuola, che predilige, come afferma Nanni, “il riferimento a paradigmi di identificazione scarsamente differenziati, selettivi o gerarchizzati, non rispettosi della pluralità dei soggetti e delle culture1.” L’elemento della diversità può dare origine a conflitti, può mettere in crisi il funzionamento del sistema educativo. I ragazzi difficili delle periferie, i figli di migranti, i disabili rischiano di non venire compresi e accolti in una scuola “non pensata né strutturata per un’educazione alla diversità, ma sostanzialmente come un’istituzione educativa centralizzata dove i valori dell’identità e dell’uguaglianza, che pure sono irrinunciabili, ma che rischiano di essere gestiti in modo educativo non corretto, come una sorta di reductio ad unum delle diversità2.” Una strada possibile potrebbe consistere nel far tesoro dell’invito di Levinas, nell’immaginare, cioè una scuola pensata per l’altro e a partire dall’altro, nel cogliere il diverso come portatore di valore, come avente diritto. In che modo ciò si mostra praticabile? Come si può concretamente ripensare l’educazione partendo dall’altro? Innanzi tutto, in questa prospettiva, non dovremmo intendere la figura dell’educatore come colui che “tira fuori” le componenti migliori dell’educando destinato, in questo modo, ad una posizione marginale. L’educatore dovrà, piuttosto, comprendere l’altro a partire dalla sua storia, dal suo ambiente, dalle sue abitudini. Siamo di fronte, come giustamente rileva Curci, “ad una presa di distanza dalla lezione di Socrate, per cui ogni insegnamento è già nell’anima e al maestro non resta che l’esercizio della maieutica per tirare fuori la conoscenza che dorme nell’inconsapevole allievo. Al contrario per Levinas è l’altro che ci tira fuori dall’ego e ci sollecita3.” In questa logica, nell’intervento educativo e nel ruolo dell’insegnamento abbiamo l’opportunità, attraverso l’incontro con una pluralità di soggetti diversi, differenti, stranieri, di ri-scoprire parti della nostra stessa individualità, di ridefinire nuovamente la nostra identità. Un cammino. 

Le esperienze che abbiamo avuto il piacere di vivere nei progetti promossi dalla Lavanderia a Vapore ci hanno messo radicalmente in discussione. La danza, il teatro ci hanno permesso di gettare la maschera e ci hanno persino costretto a proficue oscillazioni alla ricerca di altro da ciò che eravamo che eravamo soliti pensare. Il teatro aiuta a prevedere il corpo docente e forse anche a trasformare il corpo filosofante. Eppure anche l’esercizio del pensiero si insinua nei movimenti e nelle rappresentazioni degli attori, li muta, dà voce, li trasforma, li potenzia, colora e motiva. Ecco, anche il pensiero entra in scena, inaspettato, e si fa corpo consapevole commosso, mosso ancor più. Si oscilla, tutti insieme, ci si muove, le figure si intrecciano. La filosofia entra in scena e, colpo di teatro, va a teatro. 

1 Nanni A., Educare alla convivialità, Emi, Bologna 1994, pp. 104-105.
2 Ibidem.
3 Curci S., Pedagogia del volto, Emi, Bologna 2002, p. 70.

Pierpaolo Casarin e Silvia Bevilacqua, Propositi di filosofia