14 Feb 2023

Epifania Utopica

Michele Pecorino, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, ha visto per noi al Teatro Municipale di Casale Monferrato, lo scorso 25 gennaio, la prima nazionale di U(r)topias, concept e coreografia della greca Patricia Apergi per la Aerites Dance Company.


La parola U(r)topias deriva dal greco e significa “non luogo”. Il prefisso “Ur” – ‘antico, primitivo, prototipo’ – simboleggia il percorso per la definizione di una nuova utopia, che rivisita la nostra storia. Che tipo di utopie dobbiamo inventare e costruire nel XXI secolo? U(r)topias sono l’immaginario e i luoghi ideali dove una società e comunità può rintracciare uno stile di vita perfetto, imparando dai fatti della storia e rileggendola. Questo concetto è connesso con l’idea coreografica di una caduta, quella che Patricia Apergi ama anzi definire l’”utopia della caduta”. La sua ricerca si basa sul momento in cui una persona perde il controllo. Il finale è prevedibile per gravità. Ma che cosa accadrebbe se cercassimo di cambiarlo? Se affrontassimo questo movimento in modo non logico? È una maniera per suggerire a una nuova rivoluzione, una nuova resistenza o un nuovo modo di cadere e fallire che potrebbe simboleggiare una grande vittoria.

concept e coreografia Patricia Apergi
drammaturgia Roberto Fratini Serafide
musica Dimitris Kamarotos
set design Dimitis Nasiakos
light design Nikos Vlasopoulos
costumi Irene Georgakila
assistente coreografia Emmanouela Sakellari
danzatori Sevasti Zafeira, Fuerza Negra, Giannis Economidis, Kostas Phoenix, Sofia Pouchtou, Haris Chatziandreou, Ilias Chatzigeorgiou
produzione Techni choros theatre company, Aerites Dance Company
distribuzione Plan B – Creative Agency for Performing Arts Hamburg
*The piece was funded by the Greek Ministry of Culture and Sports

Il suono riecheggia veloce, quasi come una rapida scossa. L’azione che prima appariva lenta, non fa che rivelarsi in tutto il suo repentino capovolgimento. Un evolversi improvviso che lo spettatore non si sarebbe aspettato con così tanta rapidità.

In tal modo inizia U(r)topias, l’ultimo lavoro della coreografa greca Patricia Apergi, che vede la sua prima nazionale italiana, presso il teatro comunale di Casale Monferrato.

Tutto ha inizio quando, in sala, le luci sono ancora accese. Qualcuno, come di consueto, sta ancora scattando le ultime foto da aggiungere alle centinaia già presenti nei propri dispositivi. Da qualche altra parte, tra le poltrone color porpora, qualcun altro si mette in posa alla ricerca dell’ennesimo scatto che possa dirsi degno di apparire sui personali canali social. Mentre tutto ciò avviene, accompagnato dalle aspre consonanze di un chiacchiericcio di sottofondo, sul palco fanno la loro comparsa sette danzatori.

L’azione si evolve in una rapida caduta. I corpi rovinano inevitabilmente sulle tavole del palcoscenico. Proprio sul proscenio. Quasi a contatto con quel pubblico in balia di sconosciuti processi cognitivi. Nessuno di essi si abbandona, però,  ad un completo rilassarsi dei muscoli. La tensione attanaglia quei corpi, li rende rigidi, statici o meglio statuari. Nella mente un balenare continuo di infinite immagini, poi un attimo di quiete. I corpi in scena, sembrano ripercorrere le ieratiche e bronzee forme di colossi protoclassici. I volti, le mani, gli sguardi, gli arti sono carichi di vibrazioni interne che si propagano impercettibilmente e in continuo equilibrio.

Il pubblico assistendo a ciò velocizza le proprie azioni, cercando di portarle al termine nel minor tempo possibile.  Il ciangottio  sembra spegnersi, riservandosi ancora qualche residuo refolo. Dalle torbide acque di un ricordo offuscato, sembrerebbero riaffiorare delle parole indefinite. Le bocche dei danzatori appaiono sigillate, eppure qualcosa si è sentito. Qualche sibilo, qualche nota si è infranta contro una articolazione incompleta di lettere. Un suono che, in relazione con ciò che avviene, viene percepito armonicamente. Un baluginio di poesia, un significante privo del suo significato. Quel linguaggio, assemblato mediante sconnesse parole e fonemi,  dona alla scena una forte componente sonoro-espressiva.

Finalmente le luci si abbassano. I danzatori si sollevano dalle loro posizioni e in un rapido divenire si mostrano in una ulteriore caduta e poi un’altra ancora. La dissoluzione fisica, assurgendo a mezzo espressivo centrale e conduttore, veicola una visione dove nessun passato è rigettato. Nessun tentativo trascorso, tantomeno la memoria del corpo sono rifiutati. Nella ripetizione ogni sibilare dei corpi danzanti, si arricchisce. La scena si tinge di una intensa azione che avviene mediante un linguaggio del corpo codificato, solido, ma che si scompone per comprendersi.

Il gesto e il movimento coreografico si intersecano in uno stretto contatto con i codici più vari. I costumi, dai colori terrigni, accentuano ancora di più quel senso di caduta frammentaria, mostrandone le viscere. La prossemica dei corpi non fa altro che indicare qualcos’altro che esiste in quell’oltre possibile, ma sconosciuto perché mai indagato.

 U(r)topias vede la sua epifania (non a caso ricorro a questo termine derivante dal greco ἐπιϕάνεια,  ovvero manifestazione) nel 2021, anno in cui ricorre il duecentesimo anniversario dall’inizio della guerra d’indipendenza greca.

Rivoluzione che, con il sacrificio di numerosi civili, porterà all’ affrancamento dall’Impero ottomano e nel 1832 alla relativa nascita del regno di Grecia.

La coreografa indaga su cosa voglia essere un’Utopia contemporanea, e come questa possa essere possibile.  Lo fa attraverso i corpi, attraverso lo spazio che si scompone per poi ricostruirsi tendendo ad indirizzarsi verso multiple direzioni.

Per fare ciò entra all’interno di un rapporto dialettico tra memoria e storia. Il legame con il passato è innegabile. La riflessione filosofica, assai consapevole, è del tutto presente in Arpegi, data anche e principalmente dalla formazione speculativa che ha alle spalle.

Da una Utopia si Passa a una U(r)topia. Il termine utopia deve la sua origine alla penna di Thomas More. Il filosofo inglese lo conierà nel 1512, appositamente come nome di un’isola immaginaria dove si svolgerà la vicenda del suo romanzo dall’interminabile titolo: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”. La parola deriva originariamente dal greco, οὐ (non) e τόπος (luogo), e significa appunto “non-luogo”.

La coreografa aggiungendo il prefisso ur- che in greco significa primitivo, antico, originale, esprime simbolicamente il desiderio di raffigurare una Utopia odierna.

U(r)topias è dunque una Utopia reinventata attraverso un dialogo conscio con il passato. È l’oggetto necessario per un domani prospero. Una materia intangibile, un sogno dalle platoniche affinità.

Patricia Arpegi  attraverso i corpi, lo spazio, sente il bisogno di ridefinire il nunc et ora  dell’utopia, rendendolo un qualcosa di possibile, almeno attraverso una proiezione verso territori altri. Traccia la strada da poter percorrere tra i fallimentari tentativi di utopie del XX secolo. Porta all’interno di una presa di coscienza sull’impraticabilità di una rivoluzione. I danzatori, in scena, fanno i conti con la contemporanea caduta delle ideologie e con questo ciò che ne concerne. Non è difficile individuare, alla base di questo lavoro, certe analogie  con  la fenomenologia nichilista e del suo manifestarsi attraverso il pensiero debole. Concetto filosofico  che sta alle fondamenta del postmodernismo europeo, di cui Vattimo e Rovatti sono i massimi esponenti. 

L’ideatrice del  lavoro e di conseguenza i performer, si pongono delle domande riguardo ai momenti in cui i corpi perdono il controllo di se stessi, a causa di molteplici crolli. Una defezione dovuta allo schiacciamento che trova la propria origine proprio in quell’essere indebolito e poroso davanti alle dinamiche di potere di una sovrastruttura invalicabile. Le cadute, sempre più reiterate, compongono una fitta partitura ritmica. Questa si evolve mediante l’esperienza del collasso.

Ebbene, il concetto di nuova e odierna utopia si traduce in ciò che la stessa autrice definisce Utopia della caduta. Un rovinare a terra che si prospetta senza mezzi termini, ma che si cerca in tutti  i modi di indagare per poter attuare un cambiamento. Puntare ad una illogicità che non risponda ad uno schema già tracciato, ma che indichi, da sola, un’altra possibilità.

Michele Pecorino

e
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