21 Feb 2023

Piante venefiche e relazioni tossiche nel metaverso: un’intervista a Kamilia Kard

Sabato 11 febbraio, all’interno della cornice di onLive Campus, Kamilia Kard – artista e docente con base a Milano – ha lavorato con alcuni danzatori per sviluppare un pattern coreografico tradotto poi in algoritmo, all’interno dello spazio digitale dell’azione performativa da lei firmata, Toxic Garden – Dance Dance Dance. L’eponimo e venefico giardino – nato da una fase di ricerca avviata presso la Lavanderia a Vapore di Collegno a settembre scorso, nell’ambito delle Residenze Digitali – aveva trovato un primo debutto online tra l’8 e il 10 novembre (scopri di più).


La ricerca di Kard, dottoressa in Digital Humanities all’Università di Genova e docente di Comunicazione Multimediale a Milano e a Carrara, esplora il modo in cui l’iperconnettività e le nuove forme di comunicazione online modifichino e influenzino la percezione del corpo umano, della gestualità, dei sentimenti e delle emozioni. Dal 2011, i suoi lavori vengono spesso esposti presso gallerie, festival e istituzioni di risonanza nazionale e internazionale. La sua ultima creazione, Toxic Garden – Dance Dance Dance, si configura come una serie di performance partecipative online ambientate in un metaverso creato ad hoc su Roblox, popolarissimo massively multiplayer online game (MMO). I partecipanti, attraverso i propri avatar, sono coinvolti in balli di gruppo sincronizzati, su coreografie che combinano passi di danza registrati in motion capture, in collaborazione con performer, e tratti da videogiochi famosi. Il progetto mira alla costituzione di una comunità temporanea i cui membri siano invitati a riflettere su questioni di identità, genere e inclusività nell’ambiente virtuale di Roblox, uno dei principali luoghi virtuali di incontro e socializzazione per gli adolescenti. Attraverso la sincronizzazione del movimento e l’utilizzo di skin speciali disegnate per l’occasione, la danza collettiva diventa un rituale di aggregazione che sprona a liberarsi del fardello del proprio alter-ego virtuale.

Kamilia, quale ruolo svolge, nell’ambiente virtuale da te creato, l’immaginario vegetale?

Parlando di rapporti pericolosi, volevo dar vita a una realtà che rappresentasse al meglio, in modo naturalmente metaforico, questo intreccio di relazioni. Di conseguenza ho pensato a un “florilegio” di piante velenose, a un giardino composto da presenze vegetali che fossero comunque a me comuni, familiari. Non ho scelto, in altre parole, piante tropicali o esotiche, ma figure di cui avessi avuto esperienza diretta, visiva, tattile. Per esempio, la cicuta, che spesso si può osservare nei campi, in grande quantità. Questo perché, come le piante invadono il nostro campo percettivo senza quasi rendercene conto, così le relazioni che viviamo in maniera tossica ci scivolano addosso, automaticamente, blandamente. Certo, a volte lasciano traccia in maniera più forte: dipende dal contesto in cui germinano o dal coefficiente di investimento emotivo (se si tratta cioè di rapporti sentimentali, d’amicizia oppure professionali). Ho tentato quindi di astrarre, o meglio di metaforizzare, questa necessità tramite una flora venefica: i nostri comportamenti diventano in sostanza i “residui clorofilliani” di una sorta di ancestrale ego discendente a sua volta dalle piante, prima forma di organismo vivente. Rimasugli vegetali che ci portiamo dietro e che sfoderiamo all’occorrenza, quando ci sentiamo attaccati.

Proviamo a fare un passo indietro. Da quali suggestioni nasce il lavoro?

Tutto parte da un’osservazione. Durante i mesi di pandemia, ho tenuto dei corsi di programmazione su Roblox – piattaforma che ricalca la struttura di un metaverso – per un gruppo di 6-8 ragazzine tra i 9 e gli 11 anni. Era per loro uno spazio e un tempo collettivo per reagire all’isolamento domestico. Alla prima ora di spiegazione seguiva una seconda ora di gioco. Questo, insomma, il pretesto. Le guardavo giocare, senza un particolare scopo. Ma spesso gli spunti creativi arrivano da sé. Si scervellavano, si struggevano, si lambiccavano letteralmente il cervello per trovare outfit che fossero idonei alle rispettive identità digitali. Al di là di tutta la sub-cultura legata a Roblox, mi impressionò – durante il game play – notare come spesso molte di loro uscivano incontrando determinati avatar, qualificati come “cattivi”. Ho avuto modo di veder insorgere e svilupparsi in quell’ambiente atteggiamenti tossici. Da lì è discesa tutta una ricerca specifica sul gaming. E ho scoperto che i giochi più utilizzati, in particolare da un’utenza di giovani ragazze, erano quelli di danza sincronizzata collettiva, molto entertaining e potentemente comunicativi. L’elemento è poi permasto in Dance Dance Dance. Lo spettatore può infatti chattare online, interagire: compare la classica nuvoletta e puoi conversare con un altro avatar. L’elemento di comunicazione nei videogiochi si è sviluppato tantissimo, specie nei multiplayer.

La chat, quindi, come ulteriore metafora di relazione.

Sì, o quantomeno metafora di un’osservazione. Osservazione del modo in cui si sviluppa una relazione (tossica e non) all’interno di un metaverso e di come l’avatar riesca a influire sulla percezione dell’altro.

Nelle nuove tecnologie tu rintracci il tuo “spazio d’elezione: hortus conclusus o Eden della ricerca performativa?

Io utilizzo molto spesso le nuove tecnologie per esprimere o sviluppare una ricerca in atto. Mi danno l’opportunità di inserire all’interno dei miei lavori molteplici piani, argomenti. Mi viene… naturale. Si celano nel digitale molteplici risorse: non a caso me ne servo principale medium espressivo, talvolta ibridandolo con forme tradizionali. Talvolta la “digitalità” pertiene al processo, talaltra all’esperienza. Dipende da ciò che voglio dire, comunicare. In alcuni momenti del mio percorso ho sfruttato l’ambiente del videogioco – pensiamo non solo all’ultima creazione ma anche a Loading Instructions (Mansplaining) del 2021 -, in altri la stampa 3D, che genera una scultura, un oggetto tangibile. Mentre nel primo caso il digitale impatta sulla dinamica fruitiva, nel secondo diviene elemento di una più articolata scrittura della scena, ma la liturgia spettatoriale resta consueta. Dipende da quanto desidero che il lavoro sia immersivo: con la VR la penetrazione dello sguardo muta tantissimo; con Roblox, invece, è l’interattività ad essere altissima. Dipende – come dicevo – da quanto voglio coinvolgere il mio interlocutore.

Intervista a cura di Matteo Tamborrino

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Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE