L’alleanza con gli artisti e l’accompagnamento dei rispettivi processi creativi è un asse fondante della Lavanderia a Vapore, inscritto in quella nozione di cura divenuta parola-guida delle attività del Centro di Residenza di Collegno per la stagione in corso ed espressa, tra le altre, attraverso processi come il bando AiR_Artistə in Residenza o τέχνη – téchne (attivi fino al 20 e al 21 novembre 2022).
cura s. f. [lat. cūra]. – «Interessamento solerte e premuroso per un soggetto o un oggetto che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività». La cura è azione trasformativa che ci permette di creare spazi terzi, interstiziali in cui ripensare le asimmetrie e le logiche di sfruttamento: così facendo ri-media le forme del vivere, immaginando possibili altrimenti e altrove. La cura è una dedizione al possibile. In questo atto di immaginazione, le pratiche artistiche hanno un ruolo fondativo: la cura si riflette nell’ecosistema artistico che vogliamo creare e nelle estetiche che sosteniamo e che ci sostengono, nel processo di ricerca e radicamento di nuove significazioni.
Conclusi da pochi giorni gli sharing dei rispettivi percorsi di ricerca, abbiamo chiesto agli artisti associati Doriana Crema e Salvo Lombardo – che costruiscono quotidianamente con Lavanderia una specifica visione di spazio creativo e un preciso linguaggio coreografico, dando vita a orizzonti comuni di senso – la propria opinione in merito al concetto di cura e al modo in cui quest’ultima venga declinata nell’ambito della loro indagine coreografica.
Tabula Rasa mi ha aiutata a mettere a fuoco un elemento che davo per scontato: che cos’è la cura? L’ho sempre avvertita come un moto lineare, come un “andare verso qualcosa”. Oggi invece la percepisco come un moto ondivago, come un pendolo, che va e viene. Qualcosa di molto prossimo a una reciprocità. Se io ho la “presunzione” di accudire, in realtà è l’altro a restituirmi altrettanta cura. È un percorso non unidirezionale, per me, in questo preciso momento della mia ricerca. È un flusso vicendevole di andata e ritorno, dal momento che la cura ha inevitabilmente a che vedere con la relazione. Si tratta però anche di una scelta: e non è tanto il fatto che l’uomo possieda un suo libero arbitrio, ma che la cura sia in fondo anche uno stare, o meglio uno stato interiore. Aver cura di uno spazio o di una relazione non pertiene per forza l’agire ma appunto la modalità in cui si sta. E mi ricollego così a Tabula Rasa: la qualità di presenza si collega qui alla cura del modo in cui la persona è disponibile a entrare in uno spazio vuoto, dedicando tempo a tale esperienza, a tale rapporto. Ad alcuni ha restituito benessere, ad altri rilassamento, ad altri ancora ha dischiuso visioni. Le declinazioni sono dunque molteplici. Se potessimo immaginare un processo, un ordine entro cui sviluppare le varie fasi della cura credo si debba necessariamente partire dal sé, per espandersi poi – come procedendo per cerchi concentrici – allo spazio esterno e a chi lo abita. La cura insomma investe direttamente la dimensione spaziale (e temporale). Esempio rappresentativo, in tal senso, è la stessa Lavanderia a Vapore, con la sua storia e la sua missione: quel luogo ha conosciuto la sofferenza, la cura è stata – per molti aspetti – distorta. Per potersi trasformare davvero, quello spazio ha avuto bisogno di un tempo, di qualcuno che se ne prendesse cura. E tutto il lavoro di bellezza portato avanti a Collegno continua a tenere pulito quell’ambiente. Quindi, il come io mi pongo in un determinato spazio modifica, negli anni, la struttura dello spazio stesso.
Doriana Crema, danzatrice, coreografa, formatrice e counselor
ph. Andrea Macchia
Dopo la prima parte della residenza, in primavera, il progetto è tornato in Lavanderia a ottobre. A maggio avevamo provato con lo staff a inventare un dispositivo che permettesse alla residenza di aprirsi e chiudersi tutti i giorni, imitando la dinamica polmonare. L’obiettivo era allora sviluppare un’idea e renderla però da subito accessibile, attraversabile, da altri saperi. Nella settimana trascorsa recentemente a Collegno ho invece lavorato in modo diverso: sette giorni completamente solo, isolato, per condividere in maniera pubblica soltanto alla fine. La modalità di apertura è stata esemplificativa del progetto in generale, della forma che esso sta assumendo attualmente, della nozione di cura e della sua modalità di indagine. Breathing Room ha conosciuto infatti un’apertura tramite un formato preciso, a cavallo tra l’ambiente installativo, la pratica guidata, la meditazione orale e la performance. Quindi l’ingresso in questa stanza ha significato muoversi e scivolare tra differenti modalità espressive. È diventata insomma una realtà ideale, più che fisica, un ambiente di relazioni in cui il pubblico ha potuto fare una specifica esperienza legata al respiro (in taluni casi in senso letterale, attraverso pratiche corporee e indicazioni somatiche). In effetti, durante lo sharing di metà ottobre, si è trattato di dar vita a una stanza che permettesse a tutti di respirare, ciascuno secondo la propria predisposizione, di prendere parte, di trovare una posizione all’interno di quest’ambiente a partire dalle proprie necessità, dalla propria postura di quel momento. Il secondo livello di creazione e interazione ha toccato invece la nozione di cura: ho infatti invitato Cristina Kristal Rizzo ad abitare questo spazio di relazione e soprattutto a costruire una performance in tempo reale, senza alcuna prova o anteprima e soprattutto senza repliche future. Questa scelta nasceva dalla volontà da una parte di creare un doppio livello di esperienza (e quindi un’esperienza a cui tutti potessero accedere e in cui tutti potessero stare, interagendo eventualmente), dall’altro di imperniare tale esperienza sul corpo di una dance-maker informato da un preciso codice artistico. Questo processo mi ha permesso così di riflettere sulla cura. Chiedendo infatti a una collega di “prendersi carico” di un pezzo di performatività (una scelta connessa con il mio desiderio di perdere un po’ controllo, di disperderlo, rispetto all’atto di creazione), ho implicitamente voluto compromettere i principi di autorità e di potere nella creazione artistica stessa. A quel punto l’interrogativo per me è diventato: “Respirando insieme in quell’ambiente, di chi è quell’azione, chi ne detiene l’autorialità?”. Il corpo, la soggettività, si affida, attraverso una pura e nuda presenza, che a sua volta l’artista non può controllare, perché non dispone delle coordinate che la informano, se non quelle ottenute in tempo reale. Cura dunque come restituzione di un atto di fiducia e richiesta da parte dell’artista di un atto di cura, tramite l’affidarsi. Cura – ancora – nel senso di creare una condizione che protegga, che accompagni, che garantisca a quella presenza di essere nel posto giusto, di essere a fuoco in quel preciso istante.
Salvo Lombardo, performer, coreografo e regista
Qualche spunto per approfondire…
M. Fragnito e M. Tola (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2018
ideazione e regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande con Stefania Tansini ambienti sonori Demetrio Cecchitelli suono Enrico Casagrande luce Theo Longuemare props e sculture sceniche _vvxxii una produzione Motus con TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi residenze artistiche ospitate da Lavanderia a Vapore e Centro nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni con il supporto di MiC, Regione Emilia-Romagna
La Lavanderia a Vapore ha facilitato l’incontro tra la danzatrice Stefania Tansini e il gruppo dei MOTUS, per una residenza creativa – svoltasi a Collegno dall’11 al 17 settembre – in collaborazione con TPE e Festival delle Colline Torinesi, in preparazione del solo Of the nightingale I envy the fate, in scena alla Fondazione Merz di Torino dal 4 al 6 novembre 2022.
Un progetto a cura di shared training torino, Workspace Ricerca X e Lavanderia a Vapore; partecipano Beatrice Bresolin, Lucia Di Pietro, Lucrezia Palandri, Lorenzo De Simone, Lorenzo Giansante, Doriana Crema, Chiara Ameglio, Angela Fumarola, Marco Betti, Paola Granato
La palestra del feedback – ospitata dalla Lavanderia a Vapore dal 19 al 24 settembre, coinvolgendo un gruppo eterogeneo di artisti e curatori – è uno spazio improntato alla sperimentazione di metodologie di lettura e di feedback relative a materiali creativi ancora incompiuti. La pratica del feedback è un approccio fondante nei processi relazionali, collettivi e creativi nonché un tassello imprescindibile di ogni percorso di accompagnamento artistico. L’allenamento incoraggiato da STT e Workspace Ricerca X propone dunque offrire, ricevere e moderare feedback, muovendo dall’idea secondo cui il lavoro comune parta da posizioni diverse e si sviluppi equamente su tre differenti piani: espressione, ricezione e moderazione del feedback stesso.
Le inviate di Lavanderia a Vapore per la mobilità prevista dal progetto How do you spell dance? incontrano – grazie alla preziosa collaborazione di Boarding Pass Plus Dance – alcune significative esperienze internazionali nell’ambito della creazione coreografica. Francesca Rosso – giornalista e istruttrice di protocolli mindfulness – è approdata a Düsseldorf, per seguire la Tanzmesse (31 agosto – 3 settembre 2022). Qui di seguito, un resoconto del suo viaggio.
La gioia di incontrarsi di persona. La Tanzmesse di Düsseldorf è una fiera di danza che si svolge ogni due anni. L’edizione di 2 anni fa è saltata per la pandemia e quindi quest’anno c’era un fermento, un brivido di gratitudine, una felicità negli sguardi e nelle ossa. Che ci si ritrovi agli spettacoli, ai talk, all’agora che è luogo di incontro fra diverse realtà della danza, ci si sorride. Si scambiamo idee, biglietti da visita, visioni, progetti. Ma soprattutto si sorride, si scambia gratitudine per essere qui, in presenza. E le persone che girano con la borsa di stoffa Tanzmesse sorridendo per la città spostandosi da uno studio a un teatro, contagiano tutti, anche chi non è interessato alla danza.
Qui tutto è fluido, tutto è non binario, dai bagni “all genders” all’abbigliamento, dal trucco ai colori: capelli cortissimi o lunghi, orecchini, unghie colorate, pochette, gonne su gambe pelose e polpacci virili: non ci sono canoni da rispettare. Tutto è danza per corpi con ogni tipo di abilità. Tutto è accessibile: linguaggio dei segni, spazi per muoversi in carrozzina, sgabelli o cuscini in terra per chi sta meglio così. Tutto è confronto e piacere di essere qui.
Riceviamo una borraccia di vetro e ovunque troviamo acque aromatizzate. Ci hanno consigliato di non stampare i biglietti ma di salvarli sui telefoni. La danza oggi è anche attenzione all’ambiente.
I Talk & Connect a cui ho partecipato
La formula del Talk & Connect prevede un Keynote Speech, un discorso di circa mezzora tenuto da una persona esperta su un tema specifico, una Panel Discussion di un’ora con artisti che si confrontano affrontando l’argomento da angolazioni diverse e infine una Group Session, un lavoro di gruppo di un’ora e mezza in cui i partecipanti sono direttamente coinvolti in giochi e discussioni.
L’idea è sempre di aprire a più sguardi e significati e non di fornire lezioni. Quando si esce da questi incontri con più domande che risposte, allora hanno funzionato, hanno seminato germogli.
Il tema del primo giorno era (Un)exptected Relations: si è parlato di collaborazioni inter- e trans-nazionali. Quali residui ha lasciato il colonialismo e quali prospettive ci sono?
Al Talk Entangled Embodiment Jay Pather, professore universitario, coreografo e regista sudafricano si è focalizzato su come i paesi africani abbiano incontrato altre culture e come si siano riflesse nei lavori proposti; come modernizzazione e globalizzazione influiscano sui percorsi creativi e come si sia costruito un presunto primitivismo a uso e consumo di chi manipola gestendo il potere e la finanza. Continua ad esistere un atteggiamento “West and the Rest”.
Nella discussione con Maria José Cifuentes di Tacto dal Cile, Angela Couquet dall’Australia, Soohye Jang dalla Corea e Buse Yitdrim dalla Turchia si è discusso di inevitabilità del ricondurre i corpi alla loro provenienza geografica e del rischio di auto-colonialismo.
Nella group session abbiamo giocato a Values of Solidarity. Abbiamo usato le carte di “The Gamified Workshop Toolkit” sviluppate da Anikó Rácz, Doreen Toutikian e Dorota Ogrodzkae nell’ambito di RESHAPE project, per promuovere la comunicazione collaborativa e abbiamo affrontato scenari di ipotetico conflitto e possibili soluzioni con Anikó Rácz.
Il secondo giorno è stato dedicato al tema (Un)apologetic Bodies con l’artista disabile, “crip” e ricercatrice Kate Marsh che ha parlato di Radical Imagination partendo dal libro di adrienne maree brown (le minuscole sono volute dall’autrice ndr) “Pleasure Activism. The Politics of Feeling Good” e di come spostare l’attenzione dalla rabbia alla gioia, al piacere e alla compassione renda l’attivismo coinvolgente e pieno di amore, dignità e felicità.
Nella discussione si sono confrontati Sindri Runudde dalla Svezia, Saša Asentić, artista serbo che vive in Germania, Brian Solomon di electric moose dal Canada, la cubana Yanel Barbeito di Unusual Symptoms e si è parlato di disabilità. Brian Solomon, artista queer, disabile e indigeno, ha detto che l’unico fenomeno davvero inclusivo, che si può avvertire con qualsiasi disabilità, è il temporale che ha luci, suoni, profumi e vibrazioni percepibili da tutti.
La sessione di gruppo gestita da Charlotte Drath, Jane Dreiß & David Lakotta di planpolitik era su “Empowerment & Allyship”. Dopo aver giocato a uno strano
“Bingo” fatto di domande per conoscerci meglio abbiamo discusso tutti insieme sui temi proposti.
L’ultimo giorno è stato dedicato a (Un)probable futures. L’uruguaiana Tamara Cubas ha parlato di Artistic Practices as social Experience provocando il pubblico sul fatto che l’arte non cambi il mondo. Dopo aver lavorato con i minori in carcere e con i trans ha parlato del fatto che evitiamo il dolore in tutti i modi ma solo sentendolo possiamo provare a generare cambiamento.
Nella discussione a cui partecipavano Barbara Poček dalla Slovenia, Arkadi Zaides da Israele e Mamela Nyamza dal Sudafrica, quest’ultima ha parlato di come sia più difficile per una donna africana essere artista e quanto il rischio dell’esotismo e di compiacere il pubblico sia sempre presente.
Nella sessione di gruppo abbiamo discusso in piccoli gruppi su cambiamento sociale e ostacoli possibili. Lo abbiamo fatto lasciando risposte scritte alle domande sui tavoli all’aperto sotto il gazebo e trovandoci poi insieme dopo aver camminato fra le parole.
Molto interessante anche l’incontro Punk = dead, Print = dead, Dance = next – The future of dance criticism organizzato dall’associazione Tanz che promuove l’indipendenza del giornalismo di danza.
Giornalisti, studiosi e blogger si sono confrontati sul fatto che sui giornali e sugli altri media ci sia sempre meno spazio per la critica di danza e di come immagini, film e testi proposti sui social dalle compagnie e dai teatri cerchino di manipolare in qualche modo l’audience. Le strategie di marketing sostituiranno la competenza?
Simple
Le Performance a cui ho assistito
Black Noname Sosu (Corea) Nel buio un piccolo neon illumina porzioni di corpo. Raddoppia, mostra gambe e braccia e schiene che si muovono con gesti fluidi fino a perdere le loro connotazioni di parti anatomiche. Si generano strutture, architetture, costruzioni astratte. Le luci cambiano forma, parallelepipedi inseguono i danzatori e le danzatrici che poi giocano fra equilibri e possibilità. Tutto scorre, lento e ipnotico nel mare nero della scena che tutto inghiotte.
Simple Ayelen Parolin/Ruda (Belgio) Tre uomini in scena con tutine a macchie colorate giocano ripetendo un semplice e divertente gioco: ora non c’è musica, ora i suoni dei passi diventano colonna sonora, ora si canta. Spariscono tutti e tre, creano un ritmo con dei bastoncini colorati, uno di loro ripropone il movimento buffo del compare ma con una variante, si scherza, si spacca tutto. Giocare è una cosa seria. E la danza fa sorridere.
The Ecstatic Jeremy Nedd & Impilo Mapatansula (Svizzera) L’incontro-scontro fra sei danzatori di colore e due subculture sudafricane. Da una parte pantsula, una forma di danza energetica nata durante l’Apartheid in cui il lavoro dei piedi, rapidi e precisissimi, è protagonista. Dall’altra la Praise Break, nata nel contesto della chiesa pentecostale. Un dialogo che mischia i confini fra estasi e catarsi nell’alternarsi di ritmi, tempi, suoni, melodie e naturalmente danza.
Arrangement Joe Moran Dance Art Foundation (Gran Bretagna) Come si possono rappresentare uomo e mascolinità nella danza? Sei uomini giocano in scena incarnando questa domanda. Sono i gesti, l’abbigliamento, l’atteggiamento a generare ambiguità? Fuori dal binarismo c’è un mondo giocoso, potente, rivoluzionario, queer, lontano da stereotipi e barriere, pronto a urlare, a lasciarsi interrogare dal pubblico, a costruire faticose torri umane e sciogliersi nel divertimento.
I Paesi europei concordano sull’importanza di un’esperienza artistica e culturale dei giovani per sviluppare la loro creatività, il loro pensiero critico, il loro senso di cittadinanza. Come si concretizzano tali valori nei diversi contesti geografici?
Il 22 giugno scorso il Centre National de la Danse di Pantin ha organizzato una giornata di studio dal titolo “L’EAC en Europe: regards croisés” per interrogarsi sul carattere situato oppure universale dell’educazione artistica e culturale; al simposio hanno preso parte formatori, artisti, manager culturali, curatori e direttori di strutture provenienti da diversi paesi europei: Belgio, Italia, Paesi Bassi, Germania e Francia. La mattinata è stata dedicata a una riflessione sul tema della formazione; la sessione pomeridiana, invece, a una condivisione di progetti per il giovane pubblico. Una giornata di testimonianze e dibattiti, dunque, tra professionisti di disparata origine per ispirare riflessioni e confronti sulle pratiche di mediazione della danza.
Anche la Lavanderia a Vapore, Casa Europea della Danza di Collegno, ha offerto il proprio contributo alla discussione condividendo l’esperienza di Media Dance, progetto di innovazione didattica che – dal 2015, attraverso le arti performative – si rivolge alle comunità di studenti degli istituti secondari di primo e secondo grado.
La richiesta del CND ai relatori è stata quella di condividere l’esperienza tramite una pratica rappresentativa dell’approccio metodologico portato all’attenzione degli intervenuti. A tal scopo, è stato coinvolto il coreografo e regista multimediale Salvo Lombardo, dal 2021 artista associato della Lavanderia a Vapore, con il quale, in questi anni, l’area “Innovazione & Ricerca” si è spesso interfacciata per sviluppare preziose progettualità; l’artista era altresì presente in rappresentanza della propria categoria professionale, una categoria che ha proficuamente partecipato alla costruzione delle visioni alla base delle traiettorie del Centro di Residenza (e del settore “I & R” in particolare).
Da un lato, la condivisione di una domanda, che dischiude una comune via di ricerca; dall’altro, lo sviluppo di progettualità in dialogo con le comunità che fruiscono di tali proposte, immaginate e poi realizzate. Sono – questi – i due elementi metodologici che, in questi anni, hanno guidato lo sviluppo di progettualità complesse. Una complessità raggiunta proprio perché costruita progressivamente, grazie al dialogo, alle competenze, alle conoscenze messe a sistema da un gruppo di interesse interdisciplinare composto da creatori, mediatori, traduttori culturali e beneficiari di uno specifico contesto. Spazi di convergenza, sostenuti dalla fiducia reciproca, in cui confluiscono punti di vista diversi capaci di esercitare il potere dell’intelligenza collettiva e di costruire percorsi di senso e di valore comune.
Dal 2015 a oggi la domanda da cui Media Dance ha preso avvio è sempre stata: “In che modo il linguaggio dell’arte della cultura e il luogo teatro possono rappresentare un valore e un senso per la comunità scolastica?”. Un interrogativo – questo – che ha guidato la costruzione della relazione con gli insegnanti, permettendo l’individuazione di uno spazio di senso per il mondo della scuola rispetto alla fruizione delle arti performative. E all’interno di questo perimetro si è stato strutturata la progettualità, di concerto con gli artisti.
Media Dance, nel tempo, ha visto comporsi e intersecarsi una serie di azioni: dapprima una stagione di danza dedicata ai ragazzi, programmata secondo criteri condivisi con la comunità scolastica; dopodiché residenze d’artista a scuola per esplorare nuovi approcci alla didattica e laboratori dedicati alla coesione del gruppo classe al benessere degli insegnanti nonché alla mappatura dei rispettivi bisogni. A rivelarsi fondamentale in un’ottica di sviluppo, è stata anche la condivisione della domanda di cui sopra con altri comparti della società civile, interessati a specifici aspetti dell’universo dell’istruzione, dalla promozione della salute all’innovazione didattica. Dal 2019, infatti, l’Ufficio scolastico territoriale di Torino, l’Università degli Studi di Torino, l’Università di Milano Bicocca, così come Dors Piemonte e l’Asl To 3 sono divenuti parte del progetto in qualità di membri del Comitato Scientifico.
In definitiva, nel corso di questa giornata a vocazione europeista promossa dal CND di Pantin, appassionante e partecipata, la pratica dello sharing di domande e interrogativi, vissuta in un contesto di vasto respiro, ha spalancato prospettive e potenziali immensi di sviluppo, sottolineando però anche la necessità di approfondire ulteriormente questo confronto internazionale a livello locale, per riconoscersi negli altri e quindi incontrare sempre di più l’universale nel situato, indagandone la rilevanza.