La climate opera ricreata su una spiaggia fittizia – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2019 – raggiunge i sobborghi di Londra, inserendosi nella cornice del LIFT Festival, nota kermesse teatrale a vocazione internazionale, nata nel 1981 nella capitale inglese.
Immagina una spiaggia – ti ci ritrovi dentro, o meglio la osservi dall’alto: il sole cocente, la crema solare, i costumi da bagno scintillanti, i palmi delle mani e le gambe completamente sudati. Le membra stanche si distendono pigramente su un mosaico di asciugamani. Immagina lo strillo occasionale dei bambini, le risate, il rumore di un furgone dei gelati in lontananza. Il ritmo musicale delle onde sulla spuma del mare, un suono rilassante (in questa specifica spiaggia, non altrove). Lo scricchiolio dei sacchetti di plastica che volteggiano nell’aria, il loro silenzioso galleggiare in superficie, simile a quello di una medusa. Il rombo di un vulcano, o di un aereo, o forse di un motoscafo. Dopodiché, un coro di canti: canti quotidiani, canti di preoccupazione e noia, canti pieni di “quasi nulla”. E, al di sotto, il lento crepitio di una Terra esausta, che sussulta.
Così Lucia Pietroiusti, curatrice di Sun & Sea (Marina) nonché fondatrice del progetto General Ecology alle Serpentine di Londra, azione strategica e inter-organizzativa volta all’attuazione di principi ecologici grazie a specifici programmi per il pubblico delle Galleries. La nota performance, firmata da un team tutto al femminile di artiste lituane, raggiunge così la periferia londinese, albergando temporaneamente presso un pittoresco sobborgo a Sud del Tamigi in cui gli incidenti fra biciclette e monopattini diventano occasioni per insoliti abbordaggi.
È dunque dall’incontro tra la drammaturga Vaiva Grainytė, la visual artist e filmmaker Rugilė Barzdžiukaitė e la musicista Lina Lapelytė che germina questo strano concerto balneare, tenuto a battesimo tre anni fa a Venezia, ivi ottenendo l’agognata palma come Miglior partecipazione nazionale. Replicato nelle stagioni a seguire al BAM di New York, a Mosca, al MOCA di Los Angeles e all’Argentina di Roma, lo spettacolo – la cui tournée lambirà nei prossimi mesi anche Helsinki, Barcellona e Lisbona – ha fatto appunto tappa, dal 23 giugno al 10 luglio, al LIFT Festival d’Oltremanica, votato per quest’edizione al grido del “Back to Earth”.
I groundling vengono accolti al piano superiore dell’Albany e – armati di libretto – si dispongono circolarmente lungo la galleria superiore della sala, una sorta di balconata metallica che strizza l’occhio in chiave postmoderna alle playhouse elisabettiane di South Bank. Per quanto Sun & Sea non ne sia certo l’artefice, lo schema scenico a pianta centrale con visione dall’alto – qui adottato – risulta comunque assai suggestivo, a tratti ipnotico. La performance operistica, in rotazione continua con slot di fruizione della durata di circa 30 minuti, riproduce fin troppo didascalicamente il setting di una spiaggia affollata, con creme solari, costumi da bagno, palloni in plastica, asciugamani, sandwich e sdraio. La luce che si spande nell’ambiente è però, a ben guardare, tutt’altro che estiva: i numerosi fari incatenati alla graticcia si proiettano infatti a terra in maniera fredda, angosciosa, analitica, vivisezionando oggetti e corpi come se fossero disposti sopra un tavolo settorio.
A determinare un interessante contrasto con queste “nature vive” e iper-dettagliate (la cui più emblematica ipostasi risulta essere il cane che scorrazza attorno all’ensemble, descrivendo da parte sua un’imprevedibile linea drammaturgica) sono le litanie del quotidiano, intonate a turno – ora in assolo, ora in duetto, ora in coro – dagli attori-salmodianti: sprazzi di storie che scivolano tra il sinistro e il surreale, tra il mondano e il banale (nel senso di ordinary).
Gli spettatori-testimoni, frattanto, scrutano l’happening dall’alto, liberi di muoversi scegliendo un proprio focus d’attenzione. La spiaggia e i suoi inquilini, tuttavia, sembrano tradire la promessa di mesmerismo annunciata nel foglio di sala: difficile infatti non cogliere in Sun & Sea, pur giustamente acclamato dai grandi del «The Guardian» e del «New York Times» (e, in effetti, lavoro di cesello e cura delle cromie sono qui indiscutibili), un certo voyeurismo, che sfocia occasionalmente in una sorta di melodrammatico virtuosismo o comunque nell’incapacità di catturare a pieno l’osservatore, di istituire con lui un’interazione emotiva. Insomma, di immergerlo nella battigia.
Raffinato e amabilmente sarcastico è il testo, che – oltre a rinverdire la tradizione operistica, data dai più per morta – suona come un epigrammatico monito: se altrove stride, Sun & Sea riesce quindi perfettamente nell’intento di esplorare – a livello tattile e insieme sonoro – la relazione tra invasione antropica e pianeta, tra corpi e natura, configurandosi (in questo senso sì) come una performance ecologica.
Matteo Tamborrino (ringrazio – per alcuni spunti di riflessione – Alice, Monica, Riccardo e Valentina, che hanno condiviso con me questa visione)
Un’opera-performance di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė testi Vaiva Grainytė traduzione inglese dal lituano Rimas Užgiris musiche e direzione sonora Lina Lapelytė regia e scenografia Rugilė Barzdžiukaitė curatrice Lucia Pietroiusti produzione (tournée) Aušra Simanavičiūtė produzione e direzione di scena Erika Urbelevič Vista a Deptford (London), The Albany, il 10 luglio 2022
Come si può danzare con le parole? Da questo interrogativo ha preso avvio il progetto HDYSD, laboratorio intensivo per imparare a “danzare attraverso la scrittura”. Un’occasione per evocare l’intima essenza di un lavoro coreografico mediante l’uso consapevole di pratiche e tecniche compositive.
Nell’atto di guardare, la retina scompone e ricompone l’immagine. Se l’immagine è in movimento, gli occhi scrivono una coreografia di connessioni tra frame, un montaggio mentale fatto di associazioni e ri-significazioni, come quando, guardando fuori dal finestrino, il ritmo del treno seziona il paesaggio a scatti per restituire una nuova geografia: se la visione, poi, è esercitata su un processo in azione, su un corpo vivente, questo ci riguarda e, interrogandoci, riscrive l’immagine che abbiamo di noi stessi.
HOW DO YOU SPELL DANCE, campus immersivo ideato da Lavanderia a Vapore, insieme a Springback Academy e Scuola Holden, in collaborazione con Aerowaves e con il supporto di Boarding Pass Plus Dance, ha abitato gli spazi del Centro di Residenza di Collegno dall’8 al 10 giugno, riunendo attorno al tema del dance writing oltre venti tra operatori, artisti, formatori e studiosi provenienti da tutta Italia.
A Oonagh Duckworth e Sanjoy Roy di Springback Academy è spettato l’onere di “aprire le danze”, preparando i partecipanti alla visione mediante l’allenamento dello sguardo a qualsiasi tipo di movimento: “un esercizio di pulizia da sovrastrutture e pre-concetti che spesso si frappongono nella visione di una performance o di un gesto artistico”. Dopo una breve sessione di tête-à-tête conoscitivi, il gruppo si è trasferito in esterna tentando di cogliere quella danza naturale, urbana e cosmica troppo spesso celata agli occhi dell’essere umano: insetti, automobili, fronde. Un viavai impercettibile di suoni e gesti. Il successivo confronto con forme codificate di uso dal corpo – dalle azioni rituali dei tennisti allo scattoso (super)marionettismo di Buster Keaton – ha permesso di chiarire quali ricettori fosse più opportuno attivare nell’atto dell’osservare. La sfida lanciata a questo punto dal duo Duckworth/Roy è stata quella di scomporre alcune pillole di danza – proposte in video – mediante l’ausilio di tre direttrici altamente atipiche: hearing (quali suoni evoca la danza?), smelling (che odore ha?), in the body (che cosa avviene nel corpo?). La giornata si è conclusa, nuovamente a coppie, con un bizzarro “gioco di ruolo”: ai players veniva richiesto di assumere o la parte del coreografo o quella del cronista, sperimentando così due posture completamente opposte di racconto dell’evento artistico.
Nei due giorni a seguire, a prendere il timone di HDYSD è stata Marta Pastorino, docente Senior nella Didattica della Scuola Holden in Academy. Tra pratica fisica ed esercizi di scrittura, ciascun partecipante è stato condotto alla restituzione in forma scritta dell’esperienza vissuta nel corso della serata dell’8 luglio, momento della visione di ESERCIZI PER UN MANIFESTO POETICO, opera prima del Collettivo MINE, proposta nella cornice di Interplay Festival.
Ciò che porto con il mio insegnamento – spiega Marta – nasce dall’intento di unire due mondi, corpo e scrittura. In questo laboratorio mi sono proposta di sostenere e guidare chi danza, o chi lavora in questo ambito, a cercare le parole nel corpo e non altrove, soprattutto non nella testa. Le parole nascono dal corpo, dalle sue esigenze, dalle sue risposte. Contemporaneamente, ho condotto il percorso in direzione contraria, provando a sostenere chi scrive a trovare il corpo nelle parole, perché a volte vengono usate parole scollegate, astratte, vuote, difficili, addirittura incomprensibili, che rischiano di essere respingenti. Scrivere di danza può invece essere chiaro e facile, soprattutto aderente all’oggetto raccontato: una coreografia con i suoi codici ben precisi. Così mi sono appoggiata alle principali strutture narrative e alle principali strutture del movimento per creare questo rapporto, un legame naturale e profondo, che mi pare sia tutto da riscoprire.
Ai dance writers è stato dapprima richiesto di scomporre a livello semiologico il fenomeno scenico, minuziosamente analizzato nella sua grammatica oggettiva, nei suoi fonemi primi; dopodiché, di trasferire tale visione – sezionata con atteggiamento certosino – nell’analogico flusso del proprio intimo, estrapolandone percezioni fisiche, riflessioni intellettuali ed emozioni nascoste. Il tutto condito da eserghi e immagini. Obiettivo ultimo, l’elaborazione di un testo finale in tre formati – lungo, medio e breve – rivolto a un preciso target e afferente a una specifica tipologia stilistica o narrativa (dalla recensione critica al foglio di sala, dal racconto al podcast).
Numerose le pratiche motorie e fisiche intarsiate da Marta Pastorino all’interno dello scavo verbale, a partire dal lancio di palline da tennis per instillare nel gruppo un bisogno di relazione, fino a raggiungere esplorazioni fisiche – ora collegiali ora solitarie – dello spazio della sala prove. E ancora: esercizi di prossemica, esperimenti di rilascio corporeo, pause di rilassamento.
Reportage a cura di Matteo Tamborrino
Si pubblicano qui di seguito alcuni esiti del campus di HDYSD…
Lettera immaginata
Caro Enea, la luce accecante che a intervalli sorprende i miei occhi abituati al buio delle gallerie mi ricorda le notti in cui bussavi alla porta della mia stanza. Toc toc toc toooc, toc toc toc toooc. Improvvisamente accendevo la luce, il giallo invadeva lo spazio.
Il procedere regolare del treno, lampo di luce dopo lampo di luce, mi porta in salvo dal rigore che ho assorbito guardandoti, ma che non mi appartiene. Vado in bagno. Osservo nello specchio il mio volto ingrigito dalla luce fredda. Lampo, buio, lampo, buio, tum, tum, tum, tum.
Fuori dalla stazione riconosco quella che sono diventata nei soldatini sovraesposti sotto la luce forte di mezzogiorno. Vanno a tempo. Non si guardano, non si parlano, non si scontrano, procedono ritmicamente con gli occhi rivolti verso il proprio orizzonte. Anche i carretti trainati da mucche bianche sussultano, si sfiorano ma non si scontrano. Mi imbarco verso l’isola, è un viaggio lungo, il molleggiare non mi dà tregua. Soffro il mal di mare, sento la fatica di chi questi chilometri li farebbe correndo. A Stone Town salgo su un furgoncino non ammortizzato; percepisco ogni imperfezione dell’asfalto, sento le mie articolazioni sgretolarsi all’impatto col terreno. Quando finalmente arrivo a Nungwi non mi libero dal ritmo del mondo. Sussulto, sussulto, sussulto, sussulto. Incontro il mio host, la sua voce è un tamburo: «jambo jambo». Mi consegna le chiavi, scalino scalino, tic toc. Giro la chiave nella serratura (clic), la porta sbatte (bum), lascio cadere a terra il mio zaino pesante (bu-bum).
Mi sveglio sotto la luce prepotente di un soleggiato pomeriggio tropicale. Una sagoma scura fa ombra sul mio corpo e improvvisamente si sposta. Quando riacquisto la vista mi trovo circondata da quattro ragazzi africani. Ci scambiamo qualche occhiata a vicenda. Immagino il battere dei loro cuori (bu-bum, bu-bum). Poi la sagoma, nell’abito tipico dei masai, mi mostra qualche salto tribale. «Prima volta qui?».
Benedetta Colasanti, dottoranda e critica teatrale
Viaggio dall’1 al 5 all’1 (lancio promozionale dello spettacolo da parte di un ipotetico membro della compagnia)
Cinque come i cerchi olimpici, cinque come una squadra di pallacanestro, cinque come il 4 con del canottaggio. Cinque corpi, un unico organismo che si muove formando linee e motivi nello spazio come uccelli in migrazione, sciami di insetti, api in viaggio. L’uno si scioglie nel noi, il coro diventa individuo, ciò che non si può dividere; l’uno diventa cinque, numero primo, indivisibile.
Una riflessione sulla società della performance che traduce il linguaggio dello sport in danza. Cinque corpi in scena vestiti di bianco come tennisti Anni Settanta. Una pulsazione ritmica e continua che sembra un passo di aerobica. Fin dal titolo. Lo spettacolo “Esercizi per un manifesto poetico” del collettivo Mine è un lavoro sull’esercizio fisico che è concentrazione, resistenza, ascolto del corpo e degli altri mentre il sudore colora gli abiti bianchi e i visi si fanno rossi. Poetico nel senso della “poiesis” del fare. Quanto lo sforzo fisico è appagante, sfidante e coinvolgente? Quanto è drogante vivere nella modalità del fare e non dell’essere? Cosa succede quando ci si ferma?
Un salto diventa leitmotiv dello sforzo, dell’abilità e della resistenza. Accompagnati da una musica pulsante e che cresce in modo lento e costante i cinque performer saltano da un piede all’altro, prima poggia il piede esterno, subito dopo l’altro. Le imperfezioni danno valore al tutto. Da cinque diventano uno, come un pensiero in movimento, un unico sistema corpo-mente. Un unico cervello che è pancia-cuore-piedi e ci invita a riflettere sulla perdita del sé nella società dell’efficienza a tutti i costi ma anche ad accogliere l’Altro e farsi assorbire dal suo abbraccio.
Francesca Rosso, giornalista
Lo spettacolo fatica Ipotetico discorso che un membro del Collettivo MINE potrebbe utilizzare come pitch per presentare e pubblicizzare il senso del proprio spettacolo.
La maggior parte delle volte le persone guardano uno spettacolo e non vedono la fatica che ci sta dietro, il sangue, il sudore, le lacrime. La maggior parte delle volte le persone vedono il risultato, la bellezza finale, senza contare l’allenamento, senza riflettere sullo sforzo di pensare alla coreografia e mettersi a provare e provare ancora e ancora e ancora.
Eppure, lo sforzo c’è, esiste negli allenamenti e nelle prove, tra un tentativo e l’altro, tra un fallimento e un successo. La fatica c’è dall’inizio alla fine, dalla prima idea avuta al momento in cui le luci si accendono per la prima volta e per la prima volta in platea c’è qualcuno a guardare. Persone che hanno pagato un biglietto per essere intrattenute, per essere affascinate, per immergersi in un mondo che noi abbiamo creato per loro.
Durante il nostro spettacolo, dal primo momento in cui cominciamo a muoverci, uno-due, un passo dopo l’altro, è la fatica la protagonista al centro del palco, illuminata da riflettori laterali e narrata tramite i nostri gesti, uno-due, tre-quattro. Il nostro sangue, il calore, il nostro sudore. Non raccontiamo una storia o un’immagine. Raccontiamo un sentimento: la fatica, passo dopo passo. Lo stesso sentimento che abbiamo provato tutti almeno una volta: lo sforzo di fare sempre la stessa cosa ancora e ancora, la ripetizione, la routine, la vita di tutti i giorni.
È la fatica che si muove tramite i nostri cinque corpi, la coordinazione che ci lega, che conta, uno-due, passo-passo, uno-due, tre-quattro, saltello dopo saltello. E conta come una mente unica, e noi ci muoviamo come una mente unica, siamo una cosa unica. Lo sforzo, le lacrime, il sudore.
Non tutti gli spettacoli hanno il coraggio di mostrare la fatica che c’è dietro.
Pietro Carraro, studente Scuola Holden
Nella società di M.I.N.E. le persone non camminano. Saltano. Si spostano nello spazio saltando, in perfetta sincronia. Ogni tanto qualcuno decide di prendersi una pausa, per poi ripartire insieme al resto del gruppo. A volte capita che qualcuno vada fuori sincrono. Questo però non è un problema. Nella società di M.I.N.E. non esiste l’errore. Non esistono le categorie di giusto e sbagliato, attraverso le quali riconoscere un fuori sincrono come un errore. Chi si trova fuori sincrono decide per quanto tempo rimanerci e decide quando tornare insieme al gruppo. Altre volte invece, più che prendere queste decisioni, lascia che accadano da sé. I 5 membri della società si accordano su come organizzarsi nello spazio e nel tempo secondo logiche a noi ancora sconosciute. Quello che sappiamo è che ciascuno di loro ha pari responsabilità verso la società. La società di M.I.N.E., altrimenti nota come la società bianca, si autodefinisce come uno spazio-tempo sincronico delle possibilità. Accetta l’ingresso di nuovi membri ogni 4 anni. Se siete interessati, segnate sull’agenda il 1° gennaio 2432.
Francesco Dalmasso, danzatore e coreografo
Solo un altro giro
Buio.
Luce.
Cinque corpi entrano in scena e iniziano a saltare; a destra e a sinistra, destra e sinistra. Saltano, cambiano posizione sul palco. E saltano. Cambiano direzione. E saltano. Qualcuno si ferma, prende fiato, poi torna a saltare. I vestiti bianchi si attaccano alla pelle, intrisi di sudore. Le loro facce sono paonazze, le gambe si muovono senza controllo.
E tu, seduto tra il pubblico, li guardi saltare a destra e a sinistra e anche tu ti muovi a destra e a sinistra. Ti senti in dovere di seguirli, se non lo fai ti senti in colpa. Nessuno di loro può cedere, tu non puoi cedere. E allora il corpo ti asseconda in questa spasmodica fuga dal fallimento. Sei intrappolato dentro un vortice dal quale non riesci e non vuoi uscire. Come quando da bambino andavi al parco. Alcuni bambini si avvicinavano a te e ti invitavano sul girello, sali sopra, ti dicevano. E tu ti lasciavi convincere, anche se al parco ci eri andato per fare lo scivolo, perché la velocità ti dava fastidio. Iniziavi a girare, sempre più forte. I bambini intorno a te urlavano e ridevano. Ti sentivi il corpo spingere verso l’esterno del girello, se ti fossi lasciato andare saresti volato a terra e loro ne sarebbero stati divertiti. Ma tu no, ti veniva il voltastomaco e ti girava la testa; il tuo corpo era molle e incapace di reagire. Volevi dire a quei bambini che basta, ti girava la testa e volevi solo scendere e fare lo scivolo. Ma ti rimettevi seduto; non dicevi niente, chiudevi gli occhi e continuavi a girare. E così, loro continuano a saltare e tu sei uno di loro. Nessuno può mollare. È la performance della società: la società della performance.
Poi, dopo un tempo che pare infinito, i corpi si fermano. Il loro sguardo si fa vivo e si guardano, quasi a dire: ma cos’abbiamo fatto fino a ora?
Sorridono. E, uno dopo l’altro, tornano a saltare, a destra e a sinistra.
Buio.
Giorgia Borgioli, studentessa Scuola Holden
A seguire, due recensioni di taglio nettamente speculare, nate in seno ad HDYSD come ludiche “prove di stile”, senza alcuna pretesa di rispecchiamento del reale pensiero delle penne scriventi (anzi, volendolo piuttosto ribaltare ed esacerbare). Così, ponendosi su versanti opposti e rivolgendosi a platee divergenti, i due dance writers – “giocando con le parole” – hanno tentato di parteggiare calorosamente o, viceversa, di stroncare amaramente lo spettacolo in oggetto.
Incarnare il proprio tempo (per un tentativo di recensione che può restituire spessore al lavoro coreografico)
Gli sguardi lanciati davanti, verso un futuro che non accade mai. Individui vicini che non si sfiorano, non collaborano, non interagiscono: si muovono insieme, ma nessuno è realmente compagno di strada. Corpi giovani, prestanti, efficienti, competitivi che incorporano i valori culturali del nostro tempo, dell’autonomia, dell’autocontrollo, della produttività. Il Collettivo Mine sembra incarnare il concetto di società liquida formulato da Z.Bauman abitando lo spazio scenico nella ripetizione ostinata di saltelli, un movimento continuo che non conduce realmente in nessun luogo, ma che occupa il tempo e comprime gli spazi, trasformando continuamente la formazione in scena. Un riposizionamento continuo richiesto dalla flessibilità e dalla precarietà della nostra società. Il cambiamento è l’unica cosa permanente e possibile, come una solidarietà organica ai ritmi circostanti. È nella stasi – una pausa necessaria ai performer quanto al pubblico – che gli sguardi diventano vivi e gli interpreti si riconoscono comunità, nella forma aggregante del cerchio, lasciando da parte per un attimo il bisogno di apparire al pubblico per esistere. Il bianco asettico della scena si scalda in ambra, i corpi si intuiscono in penombra, si sciolgono nella fatica. I costumi evocano l’aspetto ginnico, sostenendo la cifra stilistica coreografica. Gli esercizi per un manifesto poetico, sono quindi l’allenamento quotidiano a cui la generazione degli interpreti è sottoposta suo malgrado. Resistenza fisica come resistenza civile. Una pièce di denuncia, necessaria e profonda.
Interplay Festival. Cinque nerboruti anatroccoli per un manifesto non poetico (per una stroncatura talmente assurda e paludata da suscitare il riso)
Che noia questi Esercizi per un manifesto poetico, prima prova del Collettivo Mine, germinato dall’incontro (alquanto infelice, verrebbe da dire) fra Francesco Cavaliere, Siro Guglielmi, Fabio Novembrini, Roberta Racis e Silvia Sisto. Lo spettacolo delude su ogni fronte le aspettative del pubblico, che spera di trovarsi dinanzi a un biglietto da visita ma vede piuttosto una neonata compagnia impegnata nel proprio canto del cigno. È un cigno spennacchiato, peraltro, un brutto anatroccolo mai sbocciato. La performance – della durata (infinita) di appena tre quarti d’ora – si riduce a una sequela di azioni fisiche di estenuante frontalità, al bisogno ripensate in nuove ed egualmente inconsistenti geometrie, compiaciute quanto basta, sterili come poche. Tanto per dirne una, i saltelli venuti a un certo punto a infrangere la monotonia dello step (senza tuttavia riuscirci) non danno al pamphlet coreografico alcuna progressione. Nessun turbamento dell’ordine costituito: gli interpreti, appagati dal proprio stesso sudore, si spingono fino allo strenuo delle forze, mossi esclusivamente da un edonistico autocompiacimento. Non bastava iscriversi in palestra? Ci avremmo risparmiato tutti. Purtroppo questi Esercizi aerobici non stanno in piedi, non spiccano il volo. Sembrano anzi condotti con il pilota automatico: vacillano stancamente sotto il peso ossessivo della ripetizione. Unica nota positiva, l’ostentata tornitura dei corpi, vigorosi invero, benché intabarrati in look da tennisti, francamente oziosi. Il montaggio delle azioni resta tedioso, debole nonostante lo sforzo, mal assortito. I danzatori non sono neppure rigorosi nel coordinarsi: qualcuno si ferma, qualcun altro prosegue; qualcuno irrigidisce le braccia, qualcun altro è più lasso. Peccato per Siro Guglielmi, che ci aveva deliziato in passato al fianco di Silvia Gribaudi. Insomma, un manifesto poetico che spuzza di testamento.
Matteo Tamborrino, dottorando, operatore culturale e critico
Proviamo ad attivare un processo di traduzione, a creare qualcosa…
Salvo Lombardo è l’artista scelto per una sperimentazione al Liceo Alfieri di Torino dal progetto Media Dance +, estensione su scala europea dell’omonimo percorso di innovazione didattica curato dalla Lavanderia a Vapore: un video-racconto dell’esperienza, svoltasi tra l’aprile e il maggio scorsi.
Il 25 maggio scorso, a Genova presso Casa Paganini – InfoMus, il progetto Danzarte è stato protagonista del laboratorio organizzato da Compagnia di San Paolo nell’ambito del Cultural Wellbeing Lab, per favorire nel nord-ovest lo sviluppo di nuove competenze e progettualità partendo dalla consapevolezza del profondo impatto della cultura sul benessere di persone e comunità.
La pittrice e artista visiva polacca, nata a Opoczno ma con base a Torino, autrice dei murales campeggianti sul muro di cinta della Lavanderia a Vapore, racconta la propria esperienza di “traduttrice simultanea” di alcune performance recentemente svoltesi a Collegno. Può la danza trasformarsi in traccia iconografica?
ph. Andrea Macchia
La mia volontà di trasformare il gesto coreografico in atto pittorico è venuta a galla circa vent’anni fa: praticavo danza Butō in un gruppo diretto da Stefania Lo Maglio; proprio in quel frangente realizzai i miei primi lavori sul corpo in movimento. Esperienza fondativa in tal senso è stata la collaborazione con la danzatrice e coreografa Silvia Moretti: durante la performance, direttamente in scena, captavo il gesto dei performer, lo interpretavo e lo riportavo a segno su lunghi rotoli di carta.
Catturare il movimento con la pratica della pittura è da sempre una delle sfide che più mi affascinano. Prediligo la pittura dal vero, di soggetti animati o situazioni in evoluzione, per i quali non esistono ripensamenti. L’errore risulta infatti inscritto in questo tipo di pratica, parte integrante del suo esito finale. Ma qualora mi accosti alla danza – che è già di per sé una forma d’arte, una diretta espressione del corpo articolata diacronicamente nel tempo – devo essere ancor più concentrata per poterla ritrarre, ancor più veloce, cercando di catturare l’essenza di ciò che essa trasmette. È un ulteriore stimolo per il mio lavoro, un ottimo allenamento.
Con Chiara Bersani, Silvia Gribaudi e Daniele Ninarello ho vissuto tre momenti stupendi in Lavanderia. Munita di una canna di bambù come prolunga, estensione, del mio pennello, ho dato vita ad altrettanti murales: una sequenza di Daniele danzante (semplicemente lo seguivo con lo sguardo per poi restituirne in scioltezza il movimento o quantomeno ciò che riuscivo a coglierne), dopodiché un vero e proprio ritratto di Chiara, in posa sul prato, e infine – pochi giorni fa – il segno depositato per PESO PIUMA – solo, la performance multidisciplinare di Silvia realizzata in occasione della serata conclusiva del progetto SWANS NEVER DIE, all’interno di Interplay Festival.