2 Feb 2023

Un flusso di libertà

I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Sociale di Pinerolo, lo scorso 21 gennaio, a una replica di Flow, creazione della compagnia svizzera Linga. Qui di seguito le loro restituzioni.


Flow, il flusso, la nuova creazione della compagnia Linga, si ispira all’affascinante spettacolo del mondo selvaggio, al movimento nell’aria degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, al movimento nell’acqua di branchi di pesci o ancora alle migrazioni di greggi di mammiferi. Queste formazioni flessibili e fluide, capaci di cambiare istantaneamente velocità e direzione senza perdere la propria coerenza spaziale, interrogano le leggi di interazione che agiscono sui diversi membri di un gruppo e sulla coordinazione dei loro movimenti.

idea e coreografia Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo
interpreti Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vallbona (o Valentin Goniot), Ai Koyama, Valentin Goniot, Clélia Mercier, Csaba Varga, Cindy Villemin
luci German Schwab
musiche originali Keda (Mathias Delplanque, E’Joung – Ju)
scenografia Marco Cantalupo, Emilien Allenbach
costumi Geneviève Mathier
produzione Compagnie Linga
coproduzione Compagnie Lnga, L’Octogone Théâtre de Pully

Un flusso di corpi

di Giorgia Borgioli

C’è una luce flebile: illumina i dischi di sette colonne vertebrali che si muovono in onde uniformi.
C’è una musica generata sulla scena stessa, che più che accompagnare si modella sui copri nello spazio e anche loro modellano il suono.

C’è una domanda, che pervade le figure sul palco e poi, gentile, si insinua nella platea.

Poi svanisce.

C’è un insieme di atomi che sembrano essere attratti l’uno dall’altro.

C’è una domanda.

Poi svanisce.

C’è un movimento che ricorda il Tai Chi, fluisce sulla scena fino a divenirne parte.

C’è una domanda.

Poi svanisce, anche questa.

I muscoli sudati si srotolano in un flusso naturale che quando prende potenza scaraventa sul pubblico una serie di domande a cui non c’è risposta.

E la platea non può che riceverle. Le accetta come si fa con un dono, le osserva con curiosità, poi si accorge di non poterne attribuire alcun significato. Ma non è importante, perché proprio mentre il pubblico è lì che cerca di darsi una risposta, prontamente arriva la prossima domanda.

C’è un flusso di corpi che si fondono e la loro lega restituisce a chi li guarda domande alle quali nessuno avrà risposta.

C’è un flusso di corpi talmente potente che chi lo guarda si dimentica di volere da lui delle risposte.


Nel profondo blu

di Ludovica Fioravanti

Acqua siamo e acqua ritorneremo. Oscilliamo, avanti e indietro, fluidi, onde. Nel corpo e nella vita. Fluiamo nello scorrere del tempo. Balliamo come pesci nel mare. Per alla fine trasformarci. Nulla rimane uguale, everything flows.

Siamo spinti nel profondo blu. Acqua salata, rumori ovattati molto lontani. Luce quasi inesistente: uno spiraglio, fioco. I metri cubi di acqua sopra di noi filtrano tutto. La vita che esiste qui vaga nel movimento delle correnti e quasi nessuna vegetazione. Ogni tanto un’alga sparsa si appiccica alle squame di uno del branco. A furia di errare in questa densità blu notte, entriamo come in trans, mentre col branco ci muoviamo senza meta. Respiriamo insieme, in sintonia, siamo come un unico sistema. Siamo in sette diventati uno, oscilliamo per il palco come un feto nella pancia: sospesi, fluidi, densi.

Ma un basso più forte si fa sentire. Forse siamo risaliti troppo in superficie, quasi a galla. Anche la luce è aumentata. La distanza fra noi e fuori è sottile, sentiamo la musica scandita che suona nel mondo dell’aria, ci stiamo risvegliando dal nostro trans.

Iniziamo a danzare insieme, poi liberi. È una festa, saltiamo fra aria e acqua, spezzando l’uniformità che ci accomunava. Ci tuffiamo con vigore, tanto l’acqua attutirà. Fino a che essa non si trasforma in terra, solida, invalicabile, dura. Non facciamo in tempo ad accorgercene. Sbattiamo tutti sul pavimento. È aria e terra, non più acqua. Non siamo più acqua. Tutti corrono alla ricerca di un riparo, in questo nuovo mondo. Rimane un uomo, solo.

Sembra essere arrivato il predatore e siamo tutti all’erta, sospettosi, ci guardiamo come a disagio, senza fiducia, scappiamo, ci seguiamo. La domanda è: chi di noi prenderà? Nella foga impazziamo, stimoli elettrizzano il nostro corpo e così, sotto un cielo di luce bianca, cambiamo di nuovo.

La luna è un’esperienza solitaria. Pare deserta. L’uomo perso è qui un’ovvietà. Tutto si colora di bianco pallido. I suoni sono primitivi, sembra l’inizio della vita. La creazione da un foglio bianco. Come per la prima volta le orecchie sentono suoni, così anche il solitario cerca di farsi suonare con ciò che dispone: il corpo. Ricerca la corrispondenza con il luogo. Fino a quando una donna appare. Lei sembra sapere che musica tira qui. Non pare estranea, ma abituale. Entra un uomo che interrompe il momento. Cerca di fare colpo con capriole e acrobazie. Fortunatamente questa terra brulla è abitata. Ci sono più personaggi. Addirittura, un samurai. Sono una tribù che festeggia, che accoglie. Lo siamo diventati, una comunità in sintonia, un popolo che balla sulla stessa musica.

E ci ritrasformiamo. Siamo di nuovo pesci, siamo tornati nel profondo blu, siamo rimasti in sette ma formiamo un solo organismo. Abbiamo riprese ad ondeggiare, a fluire nel mare.


Geomungo

di Eleonora Natilii

Geomungo è uno strumento. Terra. Fungo.

Cetra coreana. Cedro. Fungo.

Cedro pizzicato, cedro picchiettato, cedro archetto.

Cedro. Cedo. Fluisco.

Terra. Fungo. Flora. Strumento.

È corpo.

Corpo di corpi. Corpo di greggi. Corpo di stormi, di banchi di pesci.

Fluire — uno strumento. Di chi è tutta questa vita?

L’astrazione della danza promette più carne della carne stessa.

La coordinazione nei movimenti sincroni collettivi.

Strumento.

Di chi è tutta questa vita?

Osservate in natura, le regole che regolano questa coesione spaziale ci hanno ispirato.

Strumento.

Di chi è tutta questa vita?

Nuova forma di organizzazione nel movimento di gruppo.

Strumento.

Coscienza collettiva nello spazio.

Fluire.

Di chi è tutta questa vita?

Questo progetto ci interroga sul rapporto tra individuo e gruppo.

Fluisco.

I limiti: costruzione — e istinto.

Di chi è…

Fluisco.

Tutta questa vita.

Strumento.

Corpo. Terra. Fungo.

Geomungo.


La leggenda del Geomungo

di Alessandra Perinetto

Lo spettacolo non è ancora iniziato, ma sul palco c’è qualcosa che cattura l’attenzione di tutti in sala, ancora prima dell’ingresso dei ballerini: è uno strumento musicale particolare, che probabilmente gran parte del pubblico non ha mai visto. È il Geomungo (in hangul: 거문고), uno strumento tradizionale coreano. Ha un corpo di legno lungo quanto l’apertura delle braccia di una persona, sul quale sono posizionate sei corde: lo si suona con un particolare bastoncino fatto di bambù o con un archetto.

Secondo una leggenda, la prima volta che il Geomungo fu suonato, dopo la sua invenzione, dal primo ministro del regno Goguryeo nel sesto secolo dopo Cristo, una gru entrò nel palazzo reale ed iniziò a volteggiare sulle note musicali. I ballerini sul palcoscenico sembrano rievocare proprio questo momento, con i movimenti dei loro corpi: volteggiano e corrono, si sollevano l’un l’altro come in volo. All’inizio, al buio, respirano tutti insieme, come un’unica creatura con il sottofondo del vento, poi, quando si sentono le prime note dello strumento, iniziano ad inseguirsi e perdersi, volare e cadere.

Il Geomungo era lo strumento preferito dei discepoli di Confucio per prepararsi alla meditazione e concentrarsi, poiché il suo suono calmava la mente e la ripuliva da qualunque pensiero. Questa tecnica era tanto apprezzata e ammirata in tutta la Corea, quando si unificò sotto il regno Silla, che il re inviò un emissario all’eremo Ok, affinché imparasse dagli eruditi confuciani a suonare il Geomungo. Anche quando le persone di bassa estrazione sociale suonavano questo strumento, dovevano pensare e comportarsi come discepoli confuciani. Anche i ballerini sul palco hanno trasportato gli spettatori in un’altra dimensione, ripulendo la mente del pubblico da qualunque pensiero estraneo al momento stesso della rappresentazione.

C’è un’altra leggenda che riguarda il Geomungo. Nella tarda epoca Joseon (1392-1910), il migliore e più ammirato suonatore di Geomungo era Kim Seong-Ki. Tuttavia, quanto più la sua capacità era apprezzata e più la fama del suo nome cresceva, tanto più egli si vergognava di vendere il suo talento per il prosaico scopo di mantenere la sua famiglia. Decise quindi di ritirarsi e vivere solo, in una baracca sul fiume Hangang e dedicarsi solo alla pesca. Alcuni componimenti conosciuti fino ad oggi sembrano risalire a lui. Come Kim Seong-Ki si sentiva oppresso dalla mercificazione del suo talento, così sui ballerini sul palco cala un pannello bianco che li schiaccia, loro si piegano, sono soffocati da questo peso che li opprime. A differenza del leggendario suonatore, che si ritirò da tutto e tutti, però, i ballerini sul palco riescono ad allontanare la minaccia solo insieme, dopo aver fallito singolarmente. Tentano un ad uno di affrontarlo, sollevandosi e saltando, i loro corpi sembrano quasi rompersi e spezzarsi per la fatica. Solo quando ritrovano la coordinazione e iniziano a muoversi tutti insieme riescono a liberarsene.

Lo spettacolo si conclude con tutti i ballerini che tornano a formare un unico corpo, un’unica creatura, che dopo aver concluso il suo volteggio nell’aria e aver vinto contro chi cercava di ostacolare la sua libertà, può tornare a respirare e, infine, assopirsi.


Flow o il riecheggiare dei passi

di Michele Pecorino

Si ode uno stormire mutevole. È impossibile non scorgere in scena quei tratti cangianti che rapiscono lo spettatore, per portarlo in un mondo altro. Flow, proprio come suggerisce il titolo per nulla criptico, è un flusso incessante. Un procedere ondeggiante e flemmatico dove i danzatori creano relazioni fondate sull’ascolto. Relazioni indissolubili che si poggiano lievi sugli occhi degli astanti. Un continuo avvenire, dove la prevedibilità lascia il passo ad un corso casuale. Dall’osservare si passa al vivere qualcosa che non solo avviene in scena, ma anche in luoghi altri, sconosciuti. Si elevano ambienti delle vaste e sublimi ombre. Il pubblico, restando incollato alle comode poltrone, compie percorsi fluviali, attraversa brividi ancestrali.

I primi suoni vengono emessi, le menti degli spettatori, sin da subito, si attivano nel riecheggio di suggestioni passate. I gusto, un pò acre, della memoria genera immagini nove. Ogni gesto richiama un volto, una forma, un colore, una sensazione. Qualcosa di mai vissuto un racconto mitico, epico. Proiezioni di un mondo vicino ma sfuggevole. Dal canto opposto tutto quello che, fino ad un attimo precedente, sembrava essere lontano, adesso appare vicino. Alla vista sembrerebbe aprirsi un papireto beccheggiante sotto lievi ariette. Lo scorrere dei corpi danzanti, leggiadri e armonici, fa dispiegare le ali affinché si possa intraprendere un viaggio ossimorico. Privo di qualsiasi zavorra che possa far diventare ogni meta di passaggio un punto di ancoraggio. I performer sembrano essere immersi all’interno di un flusso sonoro che li coinvolge. É tutto una riemersione cangiante. Una continua evoluzione.

I ritmi, dalle risonanze orientali, sono dati da una musicista visibile sul palco. Lo strumento, dal quale proviene il suono, è alquanto particolare, per non dire del tutto sconosciuto alla più ampia parte dei presenti in sala. Si tratta di un Geomungo uno strumento originario della Corea settentrionale. Un cordofono, per l’esattezza, simile ad un monocordo pitagorico. La musicista capta ogni gesto, sente ogni intenzione dei danzatori. Le sue dita traducono in note ciò che avviene sulla scena. Impercettibilmente sulle corde scorrono i passi dei corpi tersicorei. Gli armonici crescono in un evolversi graduale, per poi subito assottigliarsi a seguito dell’insinuarsi lento di tinte più tese. Il vibrato, dato da un archetto sulle corde, il pizzicato accennato, simile a uno stillicidio, donano una profondità sonora alla scena. Si innesca un vortice dentro il quale poter fare esperienza di un nuovo un paesaggio uditivo.

La fluidità non trascina i corpi dei performer, bensì diviene luogo abitato in piena coscienza di movimento. Ogni singolo gesto risente della propria autonomia di compostezza. L’armonia è nella presenza stessa dei corpi. Nella dinamica naturale che generano relazionandosi senza schemi rigidi. La scrittura coreutica, carica di molti momenti corali, attraverso il delicato scorrere, si rafforza di immagini sempre più presenti e forti. I frequenti spirti di gennaio che rincorrono, realmente, ma anche in maniera del tutto suggestionale lo spettatore  seduto sulle poltrone, sembrerebbero abbattersi con furia infausta in una scena densamente popolata. In tutto c’è una viscerale attesa dell’attimo. La propensione all’evoluzione innesca quel flusso  di cui cui questo lavoro è espressione. Il disegno luci si compone di particolari tagli che si spostano da colorazioni calde a più fredde. I riflettori sono calibrati magistralmente, in relazione al movimento cangiante della scenografia. Lo spettro visivo si districa grazie alla presenza del pannello scenografico. Ciò fa che esso sia un elemento scenico polivalente. Da  filtro per la luce passa ad essere un telo riflettente. Ma soprattutto è un oggetto di scena che disegna lo spazio che ne da le diverse profondità. Il pannello viene abbassato, rialzato, viene inclinato prima da un lato e poi da quello opposto. Ebbene, il flusso caratterizza e avvolge ogni elemento costruttivo di Flow. Ogni occhio, ogni presenza si abbandona ad esso ed il viaggio continua teatro dopo teatro.


Pensieri sconnessi e e benzinai per Pinerolo, Flow e il mondo che si muove

di Mirco Spadaro

Zugunruhe, tedesco, da Zug, movimento, migrazione, e Unruhe, preoccupazione, ansia; da un- ,particella di negazione e Ruhe, quiete, calma. Zugvögel, gli uccelli che migrano. Lo Zugunruhe, chiamato anche “irrequietezza migratoria”, è l’istinto d’ansia degli animali migratori quando arriva la stagione in cui è tempo di spostarsi, di muoversi, di migrare; anche in gabbia, gli uccelli sentono il richiamo del vento dell’Ovest. È sabato 21 gennaio e stiamo tornando dal teatro Sociale di Pinerolo; lo spettacolo di Katarzyna Gdaniec, Marco Cantalupo e della compagnia Linga si chiama Flow, racconta delle cose che spaziano nel mondo, di corpi che sembrano tanti aironi e sbattono grandi ali come braccia, di grandi greggi d’uomini donne animali che sono tante cose e tutt’insieme formano un’eggregora: movimento. Per me ha parlato anche d’altro: di migrazione. L’ho capito che sentivo ancora la musica e le ruote sull’asfalto passavano di fronte ad un benzinaio che non illuminava la notte, ma la rendeva più misteriosa.

«When a change comes, some species feel the urge to migrate. They call it zugunruhe, a pull of the soul to a far off place. Following a scent in the wind, a star in the sky», quinta puntata, prima stagione, Heroes. Gli storni coordinano i propri movimenti allineandosi con i sette uccelli più vicini: vanno a ritmo, anche loro come i coreografi davanti a noi; anche noi. Noi siamo in movimento; su sette e più di miliardi di abitanti che il pianeta conta, nove o dieci alla fine di questo secolo, più di un miliardo si sta muovendo in questo momento. 232 milioni di persone migrano oltre i confini del proprio paese: il 33% nell’Africa subsahariana, il 21% nel Medio Oriente. Diciotto Paesi attirano più del 70% di queste potenziali migrazioni; tra loro in particolare gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Regno Unito, la Francia, la Spagna e l’Australia. Lo fanno per molte ragioni, alcuni fattori influiscono più di altri: la popolazione anziana da un lato, una giovane e disponibile dall’altro, la penuria di mano d’opera, la disoccupazione, l’accesso alle risorse naturali, i sempre più incalzanti, prementi e terrificanti problemi della quasi insuperabile crisi ambientale; i drammi della politica e del senso di umanità, che ora si perde, che ora si trova, si dubita.

Zugunruhe; anche gli animali sono in movimento: spostamenti verticali in risposta a variazioni di temperatura nei microrganismi d’acqua dolce; il viaggio delle balene dai mari polari a quelli subtropicali; il grande muoversi, pesante e indefinibile, dei boschi, dei deserti, che si guerreggiano lo spazio in battaglie invisibili; lo spostamento terrificante delle nuvole di locuste africane quando la popolazione cresce e il nutrimento scarseggia; la grande marcia dei lemming che si muovono trascinandosi appresso la fame dei compagni loro, morti nel cammino; il mare, la tempesta d’ali dei 50 miliardi di uccelli che coprono il cielo del mondo: una schiera. «Nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosceva il diritto di lasciare qualunque Paese, compreso il proprio, senza però definire il diritto di entrare in un altro. In seguito, il diritto ha compiuto progressi per gli immigrati regolari ma le frontiere si sono chiuse all’entrata. Gli Stati percepiscono spesso la migrazione come una minaccia all’esercizio della loro sovranità sulle frontiere e la migrazione irregolare come una forma di criminalità. Ma i muri delle frontiere sembrano frantumarsi grazie al peso delle reti transnazionali, ai matrimoni misti, alla valorizzazione degli scambi culturali, allo sviluppo dello ius soli e alla doppia cittadinanza, alla consapevolezza della diversità culturale e delle identità multiple, alla lotta contro le discriminazioni […]», scrive Catherine Withol de Wenden nel suo saggio “le nuove migrazioni”.

Erano le nuove migrazioni tanti anni fa; oggi le migrazioni nuove sono ancora più nuove e sono ancora diverse; c’è una nuova linea della metropolitana in costruzione a Collegno, chiacchieriamo sulla navetta che ci porta a casa dal teatro di Pinerolo. Domani, un domani, spostarsi verso Torino sarà diverso; sarà fottutamente più veloce, dico sulla navetta. Tutta la migrazione del mondo che si muove come un unico braccio teso, in ricerca. Anche noi ci muoviamo, come i gabbiani che s’abbarbicano temporaneamente sui neon dell’IP che sbiascica i suoi prezzi un po’ pazzi nel freddo un po’ porco della notte. Si muovono loro e ci muoviamo noi: Torino, Pinerolo; Pinerolo, Torino; Rivoli, Collegno, Torino.

«Flow, c’est la fluidité, le flot, le mouvement qui coule comme en apesanteur. C’est aussi une performance d’une précision rare. […] un spectacle inspiré de ces fascinantes facéties que nous offrent parfois les bancs de poissons capables de former un groupe compact sans se heurter». Le migrazioni riducono le disuguaglianze; ci ho riflettuto mentre guardavo E’Joung-Ju che pizzicava le corde del Geomungo, la cetra tradizionale coreana. Come un braccio, richiudono le distanze. Le musiche sono di KEDA, un duo formato da E’Joung-Ju, musicista esperta di questo particolare strumento, e Mathias Delplanque, compositore di musica elettronica famoso in Francia. Scocca le corde e come una freccia il corpo di Csaba Varga, che ha ballato sotto un cielo che si faceva progressivamente più basso, si tende, si libera, vola, come un airone. Senza quel movimento, senza migrazione, sarebbe un mondo duale con ricchi e vecchi da un lato e giovani e poveri dall’altro, con un potenziale di violenza considerevole dietro confini chiusi e “ignoranti”, inconsapevoli davvero dell’altro e quindi di sé stessi.

Come scrive Badie in Puissants ou solidaires, «Sarebbe anche un mondo senza relazioni, privato degli apporti esterni, demografici, economici e commerciali, politici e scientifici, culturali, etici; un mondo, dunque, destinato al declino. Sarebbe, soprattutto, un mondo insicuro». Penso che i gabbiani questo problema non se lo pongano. Ripensiamo a quello che abbiamo visto, all’esserci sentiti anche noi un po’ animali, un po’ uccelli che prendono il volo verso le cose a cui la gente vola. Anche la lingua migra, nel tempo: una volta tutto questo era Latino. Ci allontaniamo da Flow che più di averlo capito l’abbiamo sentito; un’ansia che c’avvolge d’un vento: movimento.


Nel flow, con il flow, per il flow

di Martina Vianovi

Ondeggiare. Lo spettacolo inizia così, fra le onde.

O forse in un prato: sono fili d’erba, i danzatori, fili d’erba di uno stesso prato, e nel vento ondeggiano, fili d’erba e sciame delicato. L’unità fa la forza ma anche la bellezza,penso.

Il primo gesto forte è una scossa, la prima nota che si stacca dal tappeto musicale uno scossone. Si alza di poco la luce, e la marea gentile si fa tempesta, uno stormo danzante. Qualche elemento si stacca per volare solo, ma subito torna al gruppo come attirato da elastici impercettibili, fili brillanti di tele di ragno. Dev’essere un modo di stare insieme, quello, soli. Un modo di stare soli, insieme.

C’è dell’oriente, qui. Ci sono caverne e suoni ancestrali, antichi e gutturali, archetipici. Poi il mio respiro salta un battito: c’è un soffitto lassù.

Un telo bianco cala, come un coperchio su una scatola di uccellini. Opprime e toglie l’ossigeno, sottrae vitalità, circostanzia. I movimenti diventano spinte e spasmi per lo spazio, ma anche in mancanza di questo: una resurrezione. Ognuno cerca il proprio perimetro e la lotta è solitaria, ma sembra una contorsione che trae linfa da se stessa: più insiste, più recupera vigore. Lo stormo si muove di nuovo all’unisono — ritrovate le forze, recuperato il legame — danza verso l’alto, spinge via il soffitto, punta a scoperchiare la scatola?

A un tratto, entra in scena il rosso (sarà alba, sarà tramonto?) e il sound si scopre più occidentale, quasi un west, mezzogiorno di fuoco nel bianco del telo che si abbassa sui danzatori — su uno solo di loro — mentre il movimento si trasforma e cambia registro, linguaggio, accenti. Tornano tutti gli uccellini, uno a uno, finché, d’improvviso, non realizzano: si guardano attorno, si osservano l’un l’altro, come si scoprissero solo in quell’istante — esistono. Sanno di loro, adesso. E sanno della scatola.

Inizia un’ultima danza. Nuova, e definitiva. Come una confidenza ritrovata col mondo, una prova di spazio, tribale ed elegante insieme, morbida e assertiva, giocata e sensuale. È un rintocco, ma anche scia.

Ecco comparire il giallo (era aurora, dunque), quasi azzurro ora, e in punta di piedi si riforma la coreografia dell’inizio: arricchita del percorso, della liberazione, del ritorno. E con lei, i suoni appena accennati, lontanissimi. Un’alba che è quasi sepolcro. Ma dolce.

Il soffitto della grande scatola scende a coprire la danza, la sposta a terra, la sospinge verso il riposo. La copre, conserva, e protegge. La disarma. Fino al buio, fino al silenzio.

È una domanda che non si cura della risposta — non è quella, che conta. Solo domandare, continuare a domandare. Scoperchiare, con delicatezza.

Come stare dentro il flow. Danzare nel flow. Con il flow, per il flow.

Sollevare coperchi, in punta di dita.

e
Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE