Kadri Sirel: un nuovo sguardo sulla documentazione dei processi artistici

Kadri Sirel: un nuovo sguardo sulla documentazione dei processi artistici

Kadri Sirel è una coreografa e performer estone, i cui progetti affrontano per lo più il tema della produzione, in prospettiva site-specific. Tramite il corpo danzante, Kadri indaga la tensione tra desideri individuali e sociali. I suoi metodi includono improvvisazione e pratiche somatiche, documentazione e co-creazione. Ha svolto i propri studi presso il Dipartimento di arti coreografiche della Viljandi Culture Academy (EST), conseguendo un master alla Home of Performance Practices presso l’ArtEZ University of Arts (NL). Nel gennaio 2023 approda alla Lavanderia a Vapore di Collegno per un internship.

ph. Ave Palm

Arrivare in Lavanderia è stato un po’ come sentirsi “lost in translation”. Battute a parte, l’ho trovata fin da subito una realtà accogliente, porosa, in cui dedicarmi – fra mille stimoli – al mio lavoro di documentazione. Sono anche coreografa e danzatrice: ed è stata appunto questa la mia chiave d’accesso alla documentazione. Torino la conosco da tempo: venni qui per la prima volta nel 2016 per partecipare ai laboratori della Nuova Officina della Danza, programma di formazione che in parte si era svolto anche in Lavanderia. Ho visto peraltro molti spettacoli qui. Insomma, quando è iniziato il mio tirocinio, la Casa della Danza mi era già piuttosto nota. Ne conoscevo le radici, il passato di antico ospedale psichiatrico, una storia mai taciuta e anzi raccontata con trasparenza, nel passaggio da luogo di coercizione a spazio di libera creazione.

Venendo a parlare del mio approccio alla documentazione, non so dire se sia diverso o in qualche modo interessante. Sicuramente il punto di partenza era non sapere minimamente di che cosa si trattasse, non avendola mai praticata prima. Mi ci sono avvicinata da amatrice, da dilettante. Come ho detto prima, lavorare nella danza è stato il motivo per cui ho scelto di aprirmi alla documentazione: era qualcosa di automatico, di collegato al tentativo di dischiudere ciò che la danza può essere e diventare. Quindi il modo in cui “documento” intrattiene una sorta di relazione con tale assunto: documentazione e danza possono intrecciarsi, incontrarsi, al di là delle consuetudini?

Nel corso di questi mesi ho seguito numerose residenze e diversi processi artistici in atto, accostandomi pertanto a stadi ancora altamente vulnerabili della creazione coreografica. Non ho documentato prodotti, per così dire, finiti, in primis per mancanza di interesse nei confronti di questo tipo di formati. Preferisco osservare il modo in cui si genera la comunicazione in sala prove, nella relazione tra autore e performer. Guardare come le idee si nutrono ed esprimono. Senza sapere che cosa rimarrà e che cosa invece andrà perduto. Penso sia proprio questa la parte stimolante del mio ruolo di “documentatrice”.

Che strano titolo, poi… ha l’aria di essere così ufficiale. Io, semplicemente, osservo: porto il mio taccuino, il mio smartphone, una penna e prendo appunti (disegnando, scrivendo nelle Note del cellulare…). Vado naturalmente in sala prove quanto più mi è possibile, a seconda dello sviluppo di ciascun singolo processo. Lasciata la sala, di norma do avvio a una fase di ricerca su differenti materiali, mettendo a frutto le note collezionate. Le riciclo e le riscrivo su fogli di carta artigianali. È una sorta di trasmutazione di codice. Qualcosa che pertiene a uno specifico momento nel tempo: sì, perché la documentazione si collega anche alla nozione di ricordo, oltre che alla visione di un processo. Trasformo perciò gli appunti originari in qualcosa di diverso, tanto da rendere queste tracce iniziali pressoché indecifrabili, irriconoscibili. Spesso non si tratta tanto di fermarsi a quanto ho annotato, ma a ciò che quel materiale è diventato, tramite vari filtri. È dunque un processo articolato in due momenti susseguenti: potrei parlare di originale e post-produzione, di prototesto e opera.

Mi è capitato per esempio, con il lavoro di Flavia Zaganelli, di stampare testi su materiali organici come foglie e piante. Torna sempre, infatti, il richiamo a una certa tattilità. Penso che più che ispirarmi (il che implicherebbe il pervenire a un esito completamente diverso), questi lavori mia diano il la per una sorta di traduzione, nel senso etimologico del termine. Forse anche riscrittura, rimaneggiamento, è una metafora che funziona, perché non nego mai la mia posizione nell’atto di documentazione: non cerco di renderlo oggettivo, ma lascio emergere corpo e voce. Dalla residenza di Daniele Ninarello ho fatto germinare delle poesie; interessante anche il caso di The present is not enough di Caleo/Calderoni, che esplorava il punto di vista di due donne lesbiche in merito alla pratica (prettamente maschile) del battuage nella New York degli anni Settanta. Ecco, lì ho fatto due passi indietro, chiedendomi come una donna estone potesse relazionarsi con il punto di vista di due donne lesbiche sul tema. Cerco insomma di bilanciare la parte che riguarda me con ciò che vedo: non voglio parlare di me, bensì dell’effetto che la performance provoca, suscita, induce nello spettatore. Sei seduto in uno spazio e ti domandi perché sei legato a ciò che hai di fronte, nel qui e nell’ora. Che cosa risveglia in te? È una postura, un’azione di posizionamento.

Uno degli obiettivi è stato anche condividere con gli artisti questi miei lavori, fare in modo che i documenti realizzati non rimanessero lì a prender polvere. Li ho sempre intesi come uno strumento di dialogo, un modo diverso di comunicare, per offrire non tanto un feedback quanto una prospettiva di ricezione. A dire il vero non ho ancora ricevuto molti riscontri in merito, ma credo dipenda dal fatto che quanto propongo è “intenso” e serve dunque del tempo per processarlo. Di conseguenza, la non-risposta non implica per forza una reazione negativa.


The present is not enough

Anahit

Orgia / Healing together

Danzando la scrittura con My Body Solo

Danzando la scrittura con My Body Solo

Sono qui di seguito pubblicati alcuni contributi nati nel corso della seconda edizione di How Do You Spell D-A-N-C-E?, svoltasi in Lavanderia a Vapore tra il 7 e il 10 giugno. Un laboratorio per “danzare la scrittura”, ideato dal Centro di Residenza per la Danza con Scuola Holden e condotto quest’anno da Marta Pastorino e Laura Trascritti. Il workshop – che mirava a fornire strumenti utili per imparare a catturare e a restituire l’atto coreografico prima attraverso il corpo e poi tramite le parole – è stata un’occasione di ricerca condivisa sui processi di scrittura e storytelling delle arti performative: uno scrivere con e non solo a proposito di danza, al tempo stesso oggetto e processo dello scrivere. L’attività della comunità di dance writers si è focalizzata in particolare sulla visione di MY BODY SOLO di Stefania Tansini (peraltro vincitrice del bando AiR 2023), presentato la sera del 7 giugno a Collegno all’interno di Interplay.



È un solo intimo ed evocativo in cui la danz’autrice esplora il lato vulnerabile dell’individuo esponendosi con generosità e accettazione della propria precarietà. Con My body solo Stefania Tansini continua il suo percorso di ricerca sul corpo e sul movimento, in una forma di espressione autentica e in un contatto profondo con l’altro. In uno spazio metà nero e metà oro, un suono accoglie l’ingresso del pubblico e tre luci ne guidano l’incontro con il movimento, il respiro e la voce della danzatrice.

di e con Stefania Tansini
musica originale Claudio Tortorici
luci Matteo Crespi
produzione Nanou Associazione Culturale
foto di Luca Del Pia
con il sostegno di Centro di Residenza Emilia-Romagna Teatro Petrella di Longiano, DNA appunti coreografici 2020 (Centro nazionale di produzione – Compagnia Virgilio Sieni di Firenze, Centro per la Scena Contemporanea/Operaestate Festival del Comune di Bassano del Grappa, Gender Bender Festival di Bologna, Triennale Milano Teatro, Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale)
Artista associata alla Fondazione Teatro Grande di Brescia
Vincitrice del Premio UBU 2022 Miglior Interprete Under35
prima regionale
durata 40′

Entrare, sedersi e aspettare, come di consueto, in una stanza buia. Un tappeto sonoro minimale e tre piccole luci in alto a sinistra accompagnano la visibilità morbidamente intermittente all’eclissarsi della figura di Stefania Tansini. Non si vede e poi si rivede, con il suo tronco rosso trasparente. Entra in scena come se non vedesse, sembra essere guidata dalle mani delicatamente sospese in aria, quasi davanti al volto. Nell’oscurità si muovono come a disegnare qualcosa: la conduzione di un’orchestra composta dai suoi segmenti corporei che, prima di attivarsi sono preceduti da espiri, fiati sonori simili a pronunce francofone senza significato. In questo avvento sembra che lei stessa stia cercando di capire come usare il suo vocabolario addentrandosi in una peregrinazione su più livelli. Oltre all’abbraccio dell’intera area del pavimento nero e oro, il contenitore spaziale viene continuamente mutato dallo spazio di una scrittura che mentre viene prodotta è anche analizzata. L’alfabeto Tansini è fatto di macro e microsegni, logogrammi colmi di dettagli scopribili aguzzando la curiosità come quando si apre la matrioska più grande e si vuole arrivare a quella più interna. Il livello energetico è legato ad un flusso candido, gasato da climax così potenti da dare la sensazione fisica, assistendo, di avere nervi in movimento sollecitati dai famosi neuroni specchio qui resi vulnerabili. Osservando lentamente, è possibile riconoscere alcuni movimenti che ritornano, cambiati, in nuove prospettive e combinazioni. La ricerca approda fino ad una esegesi delle sonorità corporee generate dal contatto con il pavimento. Dopotutto è un gioco, curioso e urgente, quasi autistico, un viaggio pragmatico necessario. Quello con Stefania Tansini è un incontro inizialmente incomprensibile, da subito ammaliante, che ha bisogno di essere accolto con gentilezza. My body solo va accolto a braccia aperte per superare la soglia di una perlustrazione al microscopio e diventare, così, una condivisione con la danzatrice che sembra essere stata mossa dall’urgenza di creare, delineare, conoscere e parlare la sua lingua per incontrarci.  

Sofia Bordieri


Possiamo portare la foto di un presente complesso danzando?
Mentre guardo dentro, cosa accade fuori?
Ci sono tre luci calde che rendono l’atmosfera intima. Sento il battito del cuore nella musica, ma anche un suono costante che indica la presenza, e delle parole. Mentre Stefania sussurra, dialoga con il suo corpo che alterna pose quotidiane, organiche perché necessarie al passo successivo. Come le esperienze della vita, servono sempre a restituirci pezzi di noi. Così Stefania ci prende per mano e ci porta a casa, nel presente. Mentre la guardo mi rilasso, perché squarcia il presente e ci entra dentro. Mentre parlo cosa succede al corpo? Se parole e corpo fossero allineati quale sarebbe la mia danza? Il non detto è materico? Nel silenzio apparente, ginocchia e mani fanno suono, il corpo suona come le parole e il respiro.
La drammaturgia di My body solo è un processo graduale in cui si costruisce un discorso a partire dal corpo. Stefania si muove in modo chiaro e pulito come quando sei allineato a ciò che pensi. Quando non parlo come dico? Come un vulcano che sembra spento ma in realtà lavora nelle sue profondità. Stefania si fa canale di un dialogo incessante tra il dentro ed il fuori dell’essere complesso che siamo. Un discorso che scorre nel sottosuolo del corpo, ciò che accade nel presente, al corpo durante un discorso, fatto o pensato. Le ginocchia quando toccano la terra, producono un suono, sono quindi parole?

Graziana Di Stefano


La luce non ha densità. 
Non ha massa, non è materia, dunque non ha densità. 

Eppure Tansini, in My body solo, riesce a dargliela. Mentre entra piano, dall’angolo più remoto del palco, che sembra distare anni luce dalla platea, il pubblico in sala trattiene il respiro. È immersa nel buio e, piano, come spostasse fronde di vegetazione lussureggiante, si fa spazio tra i raggi di luce, verso i tre fari che, per tutto lo spettacolo, la faranno ondeggiare tra il buio e la luce, tra la metà nera del palco e quella dorata. 

Così, mentre un vecchio giornalista seduto in sala borbotta, senza abbassare abbastanza la voce, ma è tutto così? il resto del pubblico non riesce a strappare gli occhi da quel punto preciso del palco in cui il corpo di Tansini, ormai illuminato, sta prendendo possesso della luce per iniziare a modificarla, a manipolarne la consistenza. 

My body solo, che è stato fino a questo momento un denso fluido, diventa una linea spezzata. I movimenti diventano fotogrammi interrotti di un unico segno, che si succedono con un ritmo sempre più incalzante, accompagnati da suoni che non sono un canto, ma qualcosa di più atavico, che ricorda gli elementi primi di un canto tribale.  

Il punto focale, quello a maggiore densità, si sposta costantemente, e adesso anche il vecchio giornalista tace, incapace tanto di individuarlo quanto di ignorarlo. Ora è interno, perché, come dice Tansini, “in un movimento c’è lo spostamento di un’intera esistenza”; ora esterno, oscilla tra i riflettori che si accendono e si spengono, tra le due metà del palco, nella trama della musica e dei suoni, si appoggia sui movimenti, tra moto e stasi. Ma c’è un ultimo elemento, più sottile: lo spazio negativo, cioè quello dove Tansini non c’è, dove la densità dovrebbe essere nulla ed è invece altissima. La parte vuota del palco e la platea vengono invasi o abbandonati ora dalla luce, ora dagli sguardi, ora dall’ombra di quel corpo che, a questo punto, non abita più soltanto il palco, ma ogni cosa. 

Francesca Dentis


Il silenzio della sala è un bene collettivo che condividiamo, finalmente.
I piedi che entrano nello spazio sono leggeri come piume d’uccello.
Un mantra si fa strada nel corpo e attiva un ritmo preciso.
Scandisce l’arrivo del braccio e la partenza del piede, dice alla gamba quando salire e quando scendere. Un ritmo cardiaco che apre, chiude, risuona.
Ho mai detto che il ritmo mi piace? Mi è sempre piaciuto…
Rapide gambe spostano nello spazio intenzioni. La danza è gesto inafferrabile, nello stesso secondo in cui si è compiuto è già svanito e il prossimo gesto è pronto ad essere il decisivo.
La danza è come la vita. Incombenze, decisioni, incastri, aperture, telefono, semafori.
Rosso rosso rosso. Semaforo rosso a cui sostare.
Ma dietro quel semaforo ci sono dei seni morbidi, dolci, sono la carne della vita, sono il modo in cui si cresce e respira.
Hai visto come poi le parole svaniscono? meglio chiedersi: sono incombenza? precarietà? abitudine? Sviluppo lo smarrimento. Abbandono il codice e sviluppo lo smarrimento.
Cosa sono queste gambe, ginocchia, piedi, fessure, connettori se non il potere che ho, la più profonda delicatezza concessa, strumento, gabbia ed elevazione.
Sto nel corpo come un uccello sta nelle sue piume. Ma perdo il ritmo cardiaco, divento un corpo così molle difficile da articolare. Entro nell’ombra-divento ombra, solo allora riposo, mi sdraio.
L’arte che conosco è dedizione sottile continuativa nei giorni che confondo con il respiro.
Velate di trasparenze, come petali nel vento le gambe, giungono su una sabbia d’estate, su cui battono confini, certezze e incertezze. Ho un corpo per una ragione, lo so, ed ora ve lo mostro (questa ragione però è la mia, ricordate, non la vostra).
E poi diciamolo, la danza è libertà sempre presente ma latente che quando però afferro, ballo!
Allora la luce. La luce come direzione in fondo al tunnel si fa strada nel viso.
Nell’espressione finale, un viaggio che arriva al luogo predestinato.
Arrivo, venite, vi tendo la mano, venite con me.

Barbara Lanzafame


Qui ed ora  

È una calda e umida sera di inizio giugno e la sala della Lavanderia a Vapore di Collegno è pronta ad accogliere gli spettatori. A poca distanza dal fluire dell’audience che sarà condotta nella coesistenza sensoriale di My Body Solo, la scena è completamente avvolta nel buio.  Due accecanti, accesi ad illuminare la sala brulicante di presenze, gradualmente calano di intensità spegnendosi. Gli occhi degli astanti si liberano mentre le luci, in flemmatico crescendo, varcano la coltre nera.  Sono tre i bagliori che si avvicendano a bagnare da sinistra il corpo di Stefania Tansini che entra da un angolo in fondo alla scena.  Lenti ma curiosi i tanti sguardi si poggiano su di lei che appare come sospinta da un refolo impercettibile. Ogni suo passo, iscritto su un tappeto sonoro minimalista, traccia il territorio liminale dove equilibrio, sbilanciamento, vuoto, pieno, suono, silenzio, luce, ombra, vicino, lontano, nero e oro si incontrano. Dialogano, si scontrano, cadono e si rialzano.  

La scena nel suo evolversi mostra un’incessante palpitare. Dal corpo della performer si irradiano movimenti,  gesti e  parole incomprensibili dal forte sentore francofono. Come raggi diramatisi da una forza centrifuga raggiungono ogni partecipante aprendo spazi altri. Nella mente di chi osserva, al suono frusciante delle lettere sibilline dell’interprete, le immagini si susseguono: ritornano ricordi di fiamme che si divincolano in camini di pietra, di temporali estivi scroscianti e umidi. Improvvisamente si ha come l’impressione di stare su di un gozzo che si dibatte tra le onde in tempesta. Ognuno, schiacciato sulla propria seduta, fa esperienza di sensazioni che mutano all’evolversi dei ritmi.  

In scena non avviene nessuno spettacolo bensì accade qualcosa di altro: il cedere e rialzarsi della danzatrice, le variazioni luminose e i suoni si ripercuotono nelle membra osservanti. Forse in molti avrebbero voluto soltanto uno spettacolo e invece ricevono in dono una condivisione.  

Attraverso il flusso di My Body Solo, il pubblico incontra la propria soglia, il proprio respiro, incontra il proprio corpo. Ognuno parla a sé stesso, nascosto nell’ombra e sospeso tra il presente e il divenire. 

Michele Pecorino 


Decido di sedermi fra persone sconosciute, di lato, per allungare meglio le gambe che alla sera d’estate fanno sentire la loro pesantezza… Scelgo di isolarmi e di guardare lo spettacolo un po’ da lontano, per la prospettiva, per la distanza, per vedere anche oltre. 

Entra di taglio, in diagonale, capelli lisci, sguardo lontano, altrove. I piedi sono nudi, le dita allargate mi stupiscono per come sanno portare il corpo. Il corpo sottile scivola sul linoleum nero, lo attraversa spezzettando ogni singolo movimento, come una carta meticolosamente piegata e tagliata alla perfezione con la taglierina. Colpi secchi, decisi, senza sbavature, imprecisioni. È tutto vero. E mi incolla. Mi riguarda. Ci riguarda.  

Non so se lei lo sa. 

Mi chiedo chi sia quella ragazza, gonna nera corta e maglietta rosso scuro semi trasparente, capello liscio, senza rughe, sincero. 

Mi chiedo cosa stia provando a dirci in questo frastuono, fracasso di mondo… e percepisco la platea muta, quasi in apnea per la densità dell’ascolto, del dialogo che è appena iniziato e che si fa via via sempre più stringente, intenso… Lei non molla e manco noi. 

La vedo avvitarsi, balbettare, emettere suoni respiro che immagino un suo alfabeto, suoni per dire che si è vivi, ma non si sa a chi… suoni che sanno di francese, di bimbo, di gioco, ma anche di fenicio, di antico, di sconosciuto. Un geroglifico magico… e mentre lei con tre fari di lato puntati all’altezza dell’addome si muove, io provo a nominare tutte le parti del corpo che conosco e che mi vibrano guardandola.  

Procede, insiste il suono basso che non ti lascia scampo, dinoccolata, sghemba, forse cieca. 

A me fanno male le mandibole. Quando lei distrutta si inarca a terra pare crocefissa, in sacrificio. Ma è un attimo, … è solo una posa mi dico.  

Poi un filo, un ponte, un ago, una terra di mezzo si apre ad un gioco di anche e sbilanciamenti sempre più ampi. Un modo di attraversare, di avanzare, un po’ di qua e un po’ di là, un’oscillazione sbilenca atterra nella zona oro del palco dove il gioco è nella ripetizione, nel suono prodotto da ginocchia, piedi che sbattono fra di loro sul pavimento.  

E io tiro il fiato…  

Sto con lei e respiro un divertimento e penso al momento in cui per la prima volta è uscito questo movimento dal suo corpo, al piacere di fissarlo, di scriverlo immaginandolo sul tappeto danza oro… 

Ma ricomincia la nigredo. Di nuovo. E intuisco la vita, il suo processo, avanti e indietro poco lineare. E anche il suono insiste, martella, e il corpo impazzisce, si divincola, non riesce a stare… Mi chiedo a quanto può arrivare l’intensità di questo male… quanto possano essere grandi i draghi che abbiamo dentro… e che comunque, ad un certo punto, ho sentito anche un uccellino. 

Carlotta Pedrazzoli


Lei arriva da lontano. La sua camminata è densa e i piedi sono prensili perché vogliono quanto più possibile protrarre il piacere provocatogli dal contatto con il suolo. 

Senza preavviso emette un sussurro tiepido, poi suoni più sicuri con cui sembra confidare: “ho una voce, quindi esisto”.  

Sono due le attività identitarie che le sono state donate: una voce e un corpo. E ogni movimento si può fare vibrazione delle corde vocali e ogni emissione sonora può farsi corporea. Ma quando il silenzio si manifesta il suo corpo procede incauto, producendo suoni sul territorio via via incontrato e-o su sé stesso. Il suo corpo vuole esserci ancora, vuole esistere ancora perché le parole sono un atto attraverso cui affermarsi. “Ho una voce quindi esisto”.  

In questa solitaria affermazione di sé, non è sola: ha persone care che la proteggono giocando a nascondino fra le ombre.  

My body solo è un monologo di un corpo, quello di Stefania Tansini che abita un luogo tanto immaginario quanto concreto perché in grado di donare una dimensione potentemente onirica anche se il pizzicotto è per davvero percepibile sulla pelle.  

Federica Siani


Lo spremere i corpi

Le arance come corpi spremuti.  

Con le prime ci fai delle cose; tra queste, puoi raccoglierle. Ci sono dei momenti in cui farlo è più semplice; t’allunghi sui piedi, sali la scala – tu soffri di vertigini – e quando le stacchi, lo senti nel corpo: se non sono mature, tiri, la schiena fa per chinarsi all’indietro; o cadi, o tieni l’equilibrio: comunque, l’arancia non si spremerà. Se invece è novembre – immagina che lo sia – l’arancia non tende il ramo: ti cade in mano; la tagli a metà, la infilzi nella polpa con la forchetta e mentre torci quest’ultima dentro la carne del frutto, morbido, ecco il succo che, limpido, scivola dalla buccia alla bocca e dalla bocca al mondo; tale è il lavoro dell’artista col corpo. 

Ecco che cosa puoi farci, coi corpi: raccontarli, raccogliere arance, farne una musica intensa o renderli silenzio. My Body Solo indaga le nostre domande sui corpi; è novembre, l’artista si spreme per il tempo del raccolto. Stefania Tansini è la forchetta, l’arancia la sua pelle, la polpa i muscoli, la mano che stringe l’utensile il titolo, la musica, il palco.  

Prima che si riaccendano le luci in sala pensi che la risposta sarà definitiva: ti sbagli; la scorza è dura e il corpo si porta dietro altre domande. La performance non si chiude del tutto e non viene lasciata totalmente aperta: My Body Solo è uno studio. 

Mi alzo che Stefania è andata via e le sedie attorno a me sono vuote; penso che scriviamo con le parole, amiamo con la mente e mangiamo arance con le mani.  

Mirco Spadaro

Una residenza collettiva per ripensare l’accessibilità

Una residenza collettiva per ripensare l’accessibilità


Il nostro corpo non è il problema, né le nostre capacità fisiche, motorie, sensoriali, neurologiche, cognitive. Non possiamo più accettare che sotto un unico comodo termine medico-scientifico vengano riportati e appiattiti i nostri corpi, le nostre storie, le nostre mutevoli identità. Non stiamo parlando di disabilità, ma di Esperienze Disabilitanti imposte da una società costruita su un modello che avvantaggia solo l’essere umano occidentale, maschio, bianco, abile, sano, cisgender ed etero.

dal Manifesto di Al.Di.Qua. Artists

What Makes You Disabled? è stata la quattro-giorni di residenza collettiva realizzata da Lavanderia a Vapore nell’ambito del progetto Carte Blanche dell’European Dancehouse Network, in collaborazione con Al.Di.Qua. Artists. Un’occasione per favorire uno scambio di pratiche artistiche e saperi in relazione al tema dell’accessibilità, intesa – anziché come servizio – quale condizione strutturale per una società equa.  Il percorso, dal 22 al 25 maggio, con la partecipazione di circa 40 rappresentanti provenienti da tutta Europa (artisti/e, curatori e curatrici, mediatori e mediatrici, producer), ha proposto uno slittamento di percezione – dalla disabilità alle condizioni disabilitanti che permeano la nostra società – favorendo un cambiamento paradigmatico che superi il modello abilista, per ripensare il presente, gli spazi, i tempi e le condizioni di creazione secondo una prospettiva plurale che accoglie voci troppo spesso silenziate, su tempi e processi che condizionano il presente di ciascuno.  Il 26 maggio ha chiuso il progetto un simposio pubblico, pensato per approfondire i temi emersi durante la residenza. La giornata ha intersecato la programmazione di Collegno Fòl Fest, seconda edizione della festa dedicata alla salute delle menti.

Artist Exchange_Discussing Access: tre podcast sull’accessibilità nelle arti performative

Artist Exchange_Discussing Access: tre podcast sull’accessibilità nelle arti performative

In occasione della residenza EDN Carte Blanche Artist Exchange_“What Makes You Disabled?” (un progetto di Lavanderia a Vapore di Collegno e EDN – European Dancehouse Network, in collaborazione con Al.Di.Qua. Artists) nasce Artist Exchange_Discussing Access, una serie di video-podcast dedicati al tema dell’accessibilità nelle arti performative. I contributi si articolano come dialoghi fra Stefania Di Paolo (studiosa, curatrice, disability advocate, fondatrice TalkwithDance e collaboratrice di Hangar PIemonte) e i conduttori dei tre laboratori ospitati a Collegno tra il 22 e il 25 maggio 2023: Elia Zeno Covolan (visual designer e illustratore trans, non binario e neurodivergente con malattia cronica e disabilità), Diana Anselmo (performer e attivista), Daniel Bongioanni (artista sordo e insegnante di Lingua Italiana dei Segni), Nikita Lymar (performer) e Marta Olivieri (autrice e performer).

Artist Exchange_Discussing Access #1
Tempi, spazi, comunicazione: l’accessibilità è un percorso
(Collegno, 25 maggio 2023)
con Elia Zeno Covolan
intervista a cura di Stefania Di Paolo | TalkwithDance
e di Lavanderia a Vapore
nell’ambito di EDN Carte Blanche Artist Exchange_“What Makes You Disabled?”
un progetto di Lavanderia a Vapore e EDN European Dancehouse Network
in collaborazione con l’associazione Al.Di.Qua. Artists
presentato in occasione degli Open Day Hangar Point (14 giugno 2023)
progetto Hangar Piemonte


Artist Exchange_Discussing Access #2
Multiply perception
(Collegno, 25 maggio 2023)
con Marta Olivieri
intervista a cura di Stefania Di Paolo | TalkwithDance
e di Lavanderia a Vapore
nell’ambito di EDN Carte Blanche Artist Exchange_“What Makes You Disabled?”
un progetto di Lavanderia a Vapore e EDN European Dancehouse Network
in collaborazione con l’associazione Al.Di.Qua. Artists
presentato in occasione degli Open Day Hangar Point (14 giugno 2023)
progetto Hangar Piemonte


Artist Exchange_Discussing Access #3
Eyes and hands
(Collegno, 25 maggio 2023)
con Diana Anselmo, Daniel Bongioanni e Nikita Lymar
intervista a cura di Stefania Di Paolo | TalkwithDance
e di Lavanderia a Vapore
nell’ambito di EDN Carte Blanche Artist Exchange_“What Makes You Disabled?”
un progetto di Lavanderia a Vapore e EDN European Dancehouse Network
in collaborazione con l’associazione Al.Di.Qua. Artists
presentato in occasione degli Open Day Hangar Point (14 giugno 2023)
progetto Hangar Piemonte

Un atelier per creare nello spazio pubblico: il video-racconto

Un atelier per creare nello spazio pubblico: il video-racconto


Cosa accade quando il “pubblico” è una nozione e una visione, quando è uno spazio di relazione e non solo un insieme di sguardi? Come osserviamo lo Spazio Pubblico, quello che c’è e quello che manca? Attraverso quali processi creativi è possibile coreografarne stratificazioni, relazioni e movimenti dando vita a creazioni artistiche capaci di attivare un discorso critico sul nostro spazio collettivo?

L’Atelier di creazione per lo Spazio Pubblico è un progetto pilota alla sua 1^ edizione, che Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza e Casa Europea della danza – lancia per offrire un percorso di ricerca pratico-teorica ad artiste e artisti interessati a esplorare lo spazio pubblico come contenitore e contenuto della propria sperimentazione. L’Atelier è un percorso di formazione e ricerca aperto a 9 coreografi e coreografe italiani che, grazie alla mediazione di 3 mentor del processo, approfondiranno tematiche, pratiche e metodi di creazione dedicati ad alcuni spazi specifici, intervallando sessioni guidate di lavoro con momenti di ricerca libera e studio sul campo. Un percorso immersivo in cui pensieri e pratiche si nutrono in modo reciproco in una dimensione che oscilla costantemente tra l’individuale e il collettivo. Divisi in 3 sottogruppi, i partecipanti esploreranno diverse poetiche e spazi, lavorando nell’area del Parco della Certosa con il coreografo Quim Bigas Bassart, negli spazi di incontro e aggregazione con la coreografa Jessica Huber e in non-luoghi con l’artista e performer Sara Leghissa. Paesaggio naturale, urbano e umano saranno il tessuto da osservare e lo spazio di un lavoro di mappatura e ricomposizione poetica e politica.


ATELIER DI CREAZIONE PER LO SPAZIO PUBBLICO
un progetto di Lavanderia a Vapore
in collaborazione con Danza Urbana XL e Rete in Situ
si ringraziano Nova Coop e Centro Commerciale Piazza Paradiso di Collegno
partecipano Claudia Adragna, Barb Bordoni, Valentina Bosio, Claudia Caldarano, Michela Depretis, Sara Fraschini, Claudio Larena, Lorenzo Morandini, Filippo Porro, Flavia Zaganelli, Elisa Zuppini
mentor Quim Bigas Bassart, Jessica Huber e Sara Leghissa
con la partecipazione di Carla Esperanza Tommasini

Danzare, sconfinare, festeggiare: un racconto polifonico

Danzare, sconfinare, festeggiare: un racconto polifonico

Lo scorso 29 aprile, una festa diffusa e immersiva ha invaso alcuni luoghi-simbolo della città di Torino, all’insegna della partecipazione e dell’ironia, tra corpi plurali e rovesciamento di codici (scopri di più). Lo staff del Centro di Residenza di Collegno sceglie così di raccontare – attraverso una collezione di tracce verbali e testimonianze fotografiche – le proprie iniziative per la Giornata Internazionale della Danza 2023, rivolte alle nuove generazioni, alle comunità del territorio e al grande pubblico. Dall’energico Baby Rave per le famiglie al Jigeenyi (un format esportato dall’Islanda, realizzato in collaborazione con Reykjavík Dance Festival, Jigeenyi, Ricette d’Africa e Associazione Renken, nell’ambito del progetto Tanz Tanz ) a Le classique c’est chic, classe di tecnica accademica open air a cura di Anna Basti, aperta a chiunque, passando per la lezione settimanale di Dance Well, per l’occasione trasferita al PAV Parco Arte Vivente.


4 x 4

di Asia Passerella

R come Resistenza

resistenza / resi·si·stèn·za /
1. L’azione e il fatto di resistere, il modo e i mezzi stessi con cui si attuano. In usi generici, riferito a persone e animali, o a oggetti e forze fisiche.
2. Attitudine a contrastare efficacemente il prodursi di determinati effetti.

A come Autogestione

autogestione / auto·gestione·ne /
1 .Gestione di un’impresa o di un’azienda da parte dei lavoratori in essa occupati
2 .Gestione di organismi o attività da parte di coloro che vi si riversano.

V come Volontà

volontà / volon·tà /
1. La facoltà e la capacità di volere, di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati.
2. Il fatto di volere, e ogni singolo atto e comportamento volitivo.

E come Energia

energia / e·ner·gì·a /
1. a. Vigore fisico, spec. dei nervi e dei muscoli, potenza attiva dell’organismo; b. Fermezza di carattere e risolutezza nell’azione; c. Forza dinamica dello spirito, che si manifesta come volontà e capacità di agire.


Dance Well. Manifesto di una pratica vagabonda

di Eugenia Coscarella

Dance Well festeggia la giornata mondiale della danza al PAV-Parco Arte Vivente di Torino, sito espositivo all’aria aperta e museo interattivo. Un luogo d’incontro, di esperienze, laboratori, rivolti principalmente al dialogo tra arte e natura.

Piero Gilardi, artista e suo ideatore, lo ha definito come “un intreccio dialogico di esperienze, aperto alle alterità innovative, in omologia con i sistemi viventi della biosfera”.

Dance Well, quindi, in questa annualità dedicata all’attraversamento del mondo vegetale e all’incontro e dialogo tra ecosistemi, trova nella natura del parco, il luogo perfetto per festeggiare la biodiversità di un progetto in costante divenire.

Il PAV e Dance Well sono due ecosistemi specchianti, la cui identità emerge e si definisce spontaneamente come quello che Gilles Clement definisce Terzo Paesaggio [1], che non è solo loro oggetto di ricerca, ma anche modo di stare e praticare.

Questa restituzione nasce quindi dal desiderio di far emergere la natura di quest’esperienza e incontro.

Sono partita dal cuore, dai pensieri e parole della comunità di dance well dancers, nati dalla pratica filosofica guidata da Gaia Giovine Proietti durante gli incontri dance well, condotti insieme ai teachers Elena Cavallo, Emanuele Enria, Debora Giordi. Il materiale è stato sviluppato con la comunità, a partire dall’immaginario delle piante che vagabondano, incontrate al PAV e ispirati, tra gli altri, ai testi: Elogio delle vagabonde e Manifesto del Terzo Paesaggio di Gilles Clement.

In questo processo di restituzione, incredibilmente, l’esperienza di terzo paesaggio che pensavo di raccontare, è apparso lì, stava nascendo tra le mie mani in maniera del tutto autonoma.

Guidata dalle parole, è bastato seguire le loro tracce, il loro movimento, lasciarsi condurre dal filo. Con resa audace[2], diventare il semplice tramite di un disegno nascente.

La parola ha chiamato la materia. La materia, la grafia. La grafia, la calligrafia.

Insieme si sono fuse in un movimento da seguire, assecondare, tra intenzione e accidentalità.

L’atto di restituire una pratica è diventato esso stesso pratica, ma non una qualsiasi, esattamente la medesima.

È stato un regalo per me. Spero lo sia anche per tutta la comunità Dance Well.

“𝐵𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑠𝑒𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎, 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎 𝑖𝑛 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛 𝑙𝑢𝑜𝑔𝑜 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑖𝑠𝑜. 𝑆𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑜. 𝑇𝑟𝑎 𝑖 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑓𝑖𝑠𝑠𝑖, 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑐𝑎𝑚𝑚𝑖𝑛𝑜. 𝐼𝑙 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎̀ 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑣𝑎𝑔𝑎𝑏𝑜𝑛𝑑𝑒, 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑖 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑐𝑎𝑡𝑖 𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖𝑚𝑜𝑟𝑎. 𝐸𝑠𝑠𝑒𝑟𝑖 𝑚𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖, 𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒, 𝑙𝑒 𝑣𝑎𝑔𝑎𝑏𝑜𝑛𝑑𝑒 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎. 𝐿𝑜𝑟𝑜 𝑐𝑖 𝑎𝑐𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑎𝑛𝑜. 𝐴𝑐𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑎𝑚𝑜𝑙𝑒.” (G.Clément)

Se qualcuno mi chiedesse come vorrei che fosse il mondo, oggi risponderei che lo immagino proprio così, come questo luogo eutopico che stiamo costruendo in questa comunità.


[1] cfr. Manifesto del Terzo Paesaggio di Gilles Clement.

[2]     Resa audace è tratto della poetica di Chandra Livia Candiani. Indica la postura dell’abbandonarsi con grazia alle cose, non per allontanarsi da, ma per immergersi radicalmente negli avvenimenti, senza padroneggiare.


Sbarra e skate: un’oper-azione di Anna Basti

di Matteo Tamborrino

Che cosa accade privando la danza classica dei suoi più vetusti stilemi – il bianco, le sbarre, gli inchini, gli specchi, le punte, il legno, i repertori, i sorrisi forzati? Che cosa succede riversandola negli spazi urbani, plasmandola come uno strumento democratico, in grado di agitare ogni corpo “possibile e immaginabile” (e dunque in sé intrinsecamente poetico)? È da questi e molti altri interrogativi che ha preso avvio allo Skatepark di Parco Dora l’oper-azione di Anna Basti, da intendersi proprio nei termini di un intervento collettivo, o meglio di un allegro som-movimento civico, diretto appunto – in linea con la diffusa sovversione di gerarchie promossa dalla Festa “di” Lavanderia a Vapore – dal basso verso l’alto (e non viceversa). L’artista, diplomata presso la scuola di ballo del Teatro dell’Opera di Roma e attualmente attiva nei territori della danza contemporanea e del teatro fisico, rintraccia nel corpo – per sua stessa ammissione – il perno di una ricerca che considera l’organismo umano quale apparato poroso e complesso, informato e condizionato dal contesto di riferimento in cui si trova a operare. Le classique c’est chic – questo il vezzoso prénom della piattaforma progettuale – è orientata, così come diverse altre creazioni di Basti, alla condivisione immediata di saperi con comunità di “corpi non alfabetizzati nel campo delle tecniche di movimento”. Per un’ora e mezza circa, gli oltre cinquanta convenuti si esercitano in pliés e relevés, acquisendo un’attitude di tutto rispetto (cedendo naturalmente il passo, ove richiesto, all’errore e al riso). Non manca inoltre una buona dose di voyeurismo, complice anche la voce della conduttrice-corifea, veicolata da un microfono degno della miglior tradizione pop (sì, ma in chiave anti-Toxic): a interpretare, infatti, il ruolo di rumorosi spettatori sono gli avventori dello spazio urbano, muniti di skateboard e pattini a rotelle, che scrutano questa degasiana “classe di danza” nelle sue grottesche deformità e delicate bellezze. L’oper-azione si scioglie, allo scoccare del novantesimo minuto, in un cerchio d’orchestra, spazio corale di condivisione e rito di pienezza (d’animo).


Riesci a immaginare una danza collettiva? Compila il form!

un’idea di Kadri Sirel