
Il processo di ricerca di DanzArTe

Il teatro quale atavica manifestazione del rapporto tra fatto creativo, luogo fisico e società: è da questo assunto che ha preso avvio, il 9 settembre scorso, il Convegno Internazionale “Teatro e spazio pubblico”, organizzato dalla Libera Università e dal Teatro Stabile di Bolzano con il patrocinio dell’AIS – Associazione Italiana di Sociologia, in collaborazione con l’ISA – International Sociological Association e RC27 Sociology of Arts. A coordinare i lavori, Ilaria Riccioni, ricercatrice e docente di Sociologia generale alla LUB, nonché autrice – fra gli altri – del volume Teatro e Società: il caso dello Stabile di Bolzano, recentemente edito per i tipi di Carocci (Roma, 2020).
A ben guardare, l’allitterante trinomio scena-spazio-società è un tipico connubio di lunga durata. Nell’Atene del V-IV secolo a.C., il teatro rappresentava l’anello di congiunzione tra speculazione filosofica, praticata lungo la via del Peripatos, e maestosità dell’Acropoli. A livello geografico, il teatro di Dioniso – sede di agoni e tetralogie – era situato ai piedi del Partenone, tempio dedicato a Zeus e successivamente consacrato ad Atena, la protettrice della polis partorita dal capo del padre, nota ai più come paladina della sapienza. La conoscenza, dunque, è il traguardo di un lento percorso gnoseologico ed emotivo, che ha origine nel teatro, nell’esperienza rituale collettiva, e che, passando per la catarsi, l’inflazionata purificazione delle/dalle passioni, raggiunge la comunità, quella politeia che, riunitasi nel theatron e grazie alla visione delle più indicibili nuance del proprio agire, prende coscienza di sé, del proprio edipico “errare”.
Ora, come segnalava Riccioni nella call for papers del Convegno, «nella società contemporanea interconnessa e virtuale il teatro mantiene la propria funzione, grazie alla sua qualità di arte dinamica che riproduce l’esperienza del qui ed ora. Ancora di più, nell’era del consolidamento dell’uso del digitale nella vita quotidiana, il teatro può vivere una stagione di rinnovata vitalità e di estremo interesse in termini sociali, giacché offre uno spazio di creatività. Lo spettatore diventa così compartecipe della costruzione del significato collettivo dell’evento e al tempo stesso ne viene trasformato attraverso la relazione diretta. Secondo Ferrarotti l’arte e la società si incontrano in un complesso abbraccio e, a seconda della stretta, quest’ultimo può diventare mortale o salvifico».
La tre giorni bolzanina si è perciò proposta di indagare, grazie all’intervento di ospiti italiani e stranieri, le molteplici declinazioni dell’attività teatrale in contesti sociali, approfondendo – tramite nove macro-temi (teatro e società, teatro e spazio pubblico, teatro e sociologia, teatro e social media, performance e spazi urbani, teatro e benessere, nuove prospettive semantiche nelle performance e processi di inclusione sociale) – una fitta rete di sottili problematiche, dalla funzione del corpo all’interno di uno spazio condiviso alla teatralità come opportunità di sviluppo dell’immaginario, passando per i processi pedagogici e le esperienze di comunità. E ancora, le ibridazioni linguistiche, il welfare territoriale, la relazione con l’altro, la politica culturale, le azioni agit-prop.
Tra la Sala Grande del Teatro Comunale e le aule della LUB si sono così alternati ben quaranta relatori, ciascuno portando all’attenzione della platea motivi e figure di notevole interesse: soltanto per citare qualche nome, l’Estate Romana di Nicolini, al centro dell’intervento del Prof. Guarino (Università Roma Tre); le pratiche performative per l’inclusione dei migranti a Milano, su cui ha riferito la Dott.ssa Guerinoni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano); o ancora gli sconfinamenti dallo spazio pubblico urbano nella cornice dei festival teatrali, proposti dalla Dott.ssa Pratelli (Università di Pisa). Accanto ai case-study non sono mancate riflessioni teoriche di più vasto respiro, come l’affondo su teatro e tecnologia del Prof. Amendola (Università di Salerno) o l’idea di teatro come spazio di liminalità pubblica nell’era digitale avanzata dal Prof. Deriu (Università di Teramo). Molti inoltre i contributi d’Oltralpe, firmati da esimi studiosi provenienti da Londra, Gottinga e Zagabria, dal Texas e perfino dal Cile. A completamento delle iniziative, le presentazioni di Teatro Stabile di Bolzano. 70. La storia, gli spettacoli (Electa, 2021), volume di Massimo Bertoldi con intervento di Marco Bernardi, e della già citata monografia di Riccioni. L’occasione convegnistica pare in effetti germinata proprio dall’indagine condotta dalla ricercatrice in seno all’ente teatrale cittadino: un’esplorazione corredata da interviste agli spettatori, alla scoperta delle diversità culturali (e linguistiche) del territorio.
Naturalmente, nel capoluogo altoatesino, sede di Tanz Bozen, non poteva mancare la danza, protagonista di due relazioni: la prima, a cura del dottorando Andrea Zardi (Università di Torino), incentrata sulle cosiddette “drammaturgie del distanziamento”, ossia i rapporti tra arte coreica e spazio pubblico nell’età post-pandemica; la seconda, opera di chi scrive, sceglieva invece come focus la Casa della Danza di Collegno e le sue progettualità. Appare tuttavia doverosa, prima della sintetica descrizione dei contenuti dell’intervento (di prossima pubblicazione), una breve premessa.
Come ricorda Cruciani, a partire da Grotowski «lo spazio scenico […] diventa un dispositivo che struttura la relazione sulla scena e, attraverso la scena, con gli spettatori». Negli ultimi settant’anni, in effetti, una precisa funzione drammaturgica dello spazio va progressivamente affermandosi, definendo la spazialità quale parte integrante di una più vasta e composita scrittura scenica. Contestualmente – spiega De Marinis – tale spazio è sempre più vissuto come un luogo di partecipazione, come una realtà in cui l’agognata relazione tra attori e pubblico diventa possibile, anzi reale. Ovviamente lo spazio teatrale di cui qui si parla è inteso in senso lato, non coincidendo necessariamente o semplicemente con il luogo della messinscena. Può infatti sconfinare in altri ambienti e contesti, risemantizzandoli a livello storico e donando loro nuova linfa. Il teatro invade perciò la realtà urbana, i suoi monumenti, le sue vestigia (sebbene il binomio teatro/città, come ben sapeva Zorzi, non sia certo una costruzione dei “nostri tempi”). Questa teatralità diffusa – va da sé – non solo si sovrappone alle mere architetture (gli “spazi fisici”), ma interagisce con comunità e gruppi (gli “spazi umani”), facendosi marca di inclusione. Per dirla con Badiou, il teatro «is an art of the collective».
Ora, il processo di risemantizzazione storica e di rigenerazione relazionale risulta tanto più vivido – come insegna Pontremoli in Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità (UTET, 2015) – se ad essere coinvolto è un “luogo del disagio”, per esempio un ex-ospedale psichiatrico, dove la parola un tempo segregata e il corpo anticamente coatto possono finalmente aprirsi e liberarsi nello spazio. Tutto ciò rende la Lavanderia a Vapore – in virtù del suo passato di coercizione e della sua attuale essenza di luogo abitato, di punto di riferimento pubblico per artisti e comunità – un caso particolarmente rappresentativo.
Venendo all’intervento, dal titolo Lavanderia a Vapore, da manicomio a Casa della Danza. Un’esperienza contemporanea di relazione fra spazio teatrale e comunità territoriali, dopo un breve recap sulla storia del luogo, ala del famigerato manicomio di Collegno, e una rapida postilla terminologica sulla nozione di “comunità”, esso si concentrava sull’attuale mission del Centro di residenza e sul suo regime di governance condivisa. L’attenzione era poi posta su uno dei tre obiettivi-chiave della Lavanderia: PARTECIPARE. Al di là delle specificità del complesso architettonico e delle sue traumatiche radici, appare infatti cruciale qui il rapporto con la cittadinanza, coinvolta in numerosi progetti. Si passavano a questo punto in rassegna tre esempi di coinvolgimento attivo delle comunità locali: Media Dance, programma di innovazione didattica rivolto a studenti e docenti; Dance Well Dancers, percorso artistico e filosofico teso a superare le differenze imposte dalla malattia, in direzione della costituzione di una comunità di pratica mista e inclusiva; e infine la residenza, strumento attraverso il quale gli artisti possono relazionarsi con specifici gruppi sociali, nutrendo la propria ricerca.
Matteo Tamborrino, dottorando in Storia del teatro presso l’Università di Pisa e cultore della materia in Discipline dello spettacolo all’Università di Torino
Ciao Enrico, di cosa ti occupi? E cosa “ti muove”?
Io sono critico di teatro intendendo questa parola nel più ampio significato del termine. Mi occupo di tutto ciò che potrebbe essere racchiuso nell’espressione “spettacolo dal vivo” benché l’espressione non mi convinca fino in fondo. Scrivo per due riviste di rilievo nazionale: Il Pickwick e Paneacquaculture. Mi muove innanzitutto la curiosità di comprendere dove stanno andando le nuove generazioni e le loro ricerche. Mi interessa studiare il sistema nel suo complesso, comprenderne le criticità e, nel mio piccolo, proporre delle riflessioni su cui ragionare per migliorarlo.
Come sei entrato in contatto con la Lavanderia a Vapore, con Zerogrammi e poi con il progetto Permutazioni?
Con la Lavanderia il contatto è avvenuto naturalmente, seguendo gli spettacoli e le rassegne di danza proposte dalla stagione. In seguito sono giunte altre forme di presenza, sia in come fruitore di residenza (penso alla collaborazione con Marco Chenevier, le cui ultime fasi di lavorazione di Confinati dal Paradiso per TorinoDanza si sono svolte proprio in Lavanderia), sia come frequentatore di convegni e attività parallele a quelle performative. Riguardo a Permutazioni tutto è iniziato da un invito ricevuto da Stefano Mazzotta di Zerogrammi, penso tre anni fa. Ho accettato perché credo sia un dovere per un critico occuparsi con responsabilità di ciò che nasce tra i giovani creatori e provare a fare emergere le ricerche più meritevoli di tempo, cura e attenzione.
Quali sono i punti di forza, secondo te, di questo progetto rispetto al territorio piemontese e poi a un ecosistema danza più ampio?
Sicuramente l’attenzione al valore della ricerca in sé, nel coltivarla con spirito contadino, con pazienza e devozione. Il lungo periodo di offerta di residenza aiuta i ragazzi a non avere fretta, male di cui in questi anni siamo tutti affetti, a concentrarsi su ciò che veramente è importante avendo il tempo di porsi domande scomode. Inoltre trovo che il non obbligo a un esito conclusivo, ma piuttosto l’invito concentrarsi sul processo compositivo e creativo, sia il punto focale del progetto. Oggi si mira solo ed esclusivamente a produrre. Riportare l’attenzione sull’immaterialità del processo di creazione artistica, sul suo lavorio di bottega artigianale in cui l’opera sorge dopo molti errori, aggiustamenti, ripensamenti, sia un dovere di fronte alla deriva produttivistica dell’intero sistema. La filiera oggi imbriglia i giovani fin da subito. Non permette loro un fecondo placet experiri ma li invita a a finalizzare il prima possibile senza il tempo di formarsi un vero e solido bagaglio di conoscenze e tecniche, necessarie per una vera crescita.
Nel progetto Permutazioni è spesso citata la figura del tutor: che cosa è per te?
Credo molte cose. Innanzitutto un ascoltatore. Bisogna capire le esigenze vere dei giovani artisti e mettersi al loro servizio. Un maieuta pronto a far sorgere ciò che è già presente nel cuore dei ragazzi e nel processo da loro avviato. Un consigliere, le cui maggiori esperienze possano aiutare i giovani a districarsi nell’orribile selva selvaggia che abbiamo lasciato loro in eredità, ma lasciando che siano loro a compiere le scelte in sintonia con il proprio sentire e la propria coscienza. E, da ultimo, la cosa più difficile: il farsi da parte quanto non si è più utili. A volte c’è la tentazione di esser parte o di continuare a guidare anche laddove vi è ormai la capacità di correre da soli. È tutto molto difficile. Si impara insieme ai giovani, si sbaglia insieme, si cresce insieme.
Sappiamo che sei un critico molto attivo e che le tue visioni si contraddistinguono per onestà e concretezza. Con questi stessi presupposti vuoi darci un punto di vista (e qualche esempio) sul futuro della danza?
Questa domanda necessiterebbe di una lunga risposta. Forse direi una capacità nella vecchia generazione, che per ora non vedo, a ripensare il sistema emendandone gli errori. Vi è una responsabilità in ciò che si è costruito, e quindi conseguentemente vi è una pari responsabilità nel correggere gli errori di cui si è stati causa. Bisogna lasciare un mondo migliore a quello che ci è stato lasciato in eredità. Poi sarà un dovere dei giovani costruire un altro mondo. Ma dobbiamo donare gli strumenti affinché possano farlo.