Facciamo luce sul teatro

Facciamo luce sul teatro

Lo spettacolo del futuro è una sala vuota” sosteneva Yves Klein in una conferenza tenuta all’Università la Sorbona di Parigi nel 1959. A distanza di poco più mezzo secolo, lunedì 22 febbraio 2021 le sale teatrali in tutta Italia accendono le proprie luci in assenza di pubblico, restituendo alle rispettive cittadinanze la rappresentazione plastica delle proprie architetture, dalle quali il pubblico è bandito ormai da tempo. Nel momento in cui il pensiero paradossale di Klein è divenuto un dato di fatto, è legittimo chiedersi quale sia il ruolo del teatro e dei suoi artisti in una città in cui gli spazi deputati alla rappresentazione teatrale sono negati alla sua comunità di riferimento, e in un contesto in cui assenza, incertezza, malattia, transitorietà, fragilità, isolamento e distanza continuano a fare parte della realtà con cui ognuno è chiamato quotidianamente a confrontarsi.

A distanza ormai di dodici mesi dalla prima chiusura degli spazi della cultura, la maggior parte della comunità teatrale sembra ancora congelata e in attesa di un cenno per ripartire, pur nella consapevolezza che il pubblico che accoglierà alla riapertura dei propri spazi sarà profondamente segnato, se non addirittura mutato, rispetto a quello da cui si era bruscamente congedato a fine febbraio del 2020. Nel frattempo, il mondo dello spettacolo in generale e del teatro nello specifico non hanno mai smesso di urlare la propria rilevanza, irriducibile a qualsiasi surrogato digitale, facendo tuttavia molta fatica a dire qualcosa di dirimente riguardo al qui ed ora, che non sia il ribadire l’importanza della propria sopravvivenza come categoria di lavoratori o il sottolineare la relativa sicurezza dei propri spazi dal punto di vista sanitario, se messi a confronto con quelli del commercio o della ristorazione.

Sarebbe dunque il caso di distinguere alcuni piani di lettura, per provare a sbrogliare i nodi in cui le rivendicazioni del mondo teatrale, e non solo teatrale, sono incappate in questi mesi, e provare a individuare quali siano i tratti per cui la pratica del teatro sia centrale – se non dirimente – nell’accompagnare un’umanità ferita nell’attraversamento e auspicabilmente nel superamento di questa emergenza sanitaria. Un equivoco in cui molto spesso siamo caduti, è frutto della sovrapposizione frettolosa di tre piani che a rigore dovrebbero rimanere distinti: quello scientifico/sanitario, quello politico e quello etico/filosofico

Partiamo dal primo: se chiediamo alla comunità scientifica quale sia il rimedio ad un problema di natura sanitaria, che mette a repentaglio la stessa esistenza in vita di uno o più esseri umani, la risposta non potrà che essere una ricetta che sottopone alla legge di causa/effetto gli elementi che concorrono alla salute o al degenerare della malattia nell’organismo. Per intenderci, a fronte di una colesterolemia fuori controllo, il medico non ci dirà mai “mangi meno formaggi” ma ce li vieterà, così come a fronte di una situazione polmonare compromessa non ci prescriverà “cinque sigarette al giorno” ma ci intimerà di buttare immediatamente il pacchetto che abbiamo in tasca. Se il problema è arginare un virus, la comunità scientifica ci indica quali sono le condizioni ottimali per cui il virus smette di circolare: abbiamo imparato che questa soluzione si chiama lockdown.

Se passiamo al piano politico, il tema in questione verrà analizzato secondo ulteriori punti di vista: anche a fronte del più duro dei lockdown, con tutta probabilità almeno gli ospedali dovranno continuare a garantire la propria operatività, l’approvvigionamento di beni di prima necessità non potrà interrompersi e con esso la filiera che gli sta dietro. Ben presto ci siamo resi conto che ragionando per filiere non è per nulla scontato stabilire dove si fermi l’essenziale e dove cominci l’accessorio, fino ad arrivare al singolare caso delle profumerie le cui serrande non si sono quasi mai abbassate. Se poi usciamo dall’orizzonte del lockdown pesante, spetta alla politica stabilire quali siano le priorità: ad esempio, la priorità della scuola rispetto ad altre funzioni pubbliche essenziali, l’incidenza di alcune chiusure sull’economia e sull’indebitamento pubblico e privato, e così via. Quando da alcune parti si è cominciato a denunciare la presenza di una “dittatura scientifica e sanitaria” non si è percepito quanto ci siamo invece immersi in un primato della politica quale forse non si rilevava nel nostro Paese dagli anni ’70 del secolo scorso.

Il terzo piano, che dovremmo tenere salvo dalla sovrapposizione con i primi due, è quello etico/filosofico: in questi ultimi dodici mesi abbiamo preso l’abitudine a scindere l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ciò che l’emergenza sanitaria ci ha portato a considerare, in questo senso, è il prezzo della salvaguardia del dato biologico, della “nuda vita” come la definisce Giorgio Agamben, a fronte della sospensione o peggio della perdita della natura collettiva, sociale e comunitaria dell’essere al mondo dell’uomo. Il risultato è stata un’accelerazione verso un abitare solitario tecnologicamente assistito: nel migliore degli scenari possibili una vita isolata, sostenuta da servizi e reti sociali virtuali, senza contare quanti tra gli anziani non siano riusciti a digitalizzare le proprie relazioni o quanti tra i giovanissimi siano stati costretti loro malgrado ad abbandonare gli studi perché le famiglie non hanno avuto a disposizione sufficienti dispositivi elettronici per garantire a tutti i figli l’accesso alla didattica a distanza. 

A fronte di un incremento di tecnologia nelle esistenze di tutti noi, nondimeno in questi mesi abbiamo avuto modo di sperimentare i limiti del surrogato digitale, il dispetto derivante dalla “chattificazione” delle nostre relazioni, lo sconforto conseguente all’irriducibilità delle nostre immagini in video rispetto all’incontro in presenza. In estrema sintesi, il termine ormai comune e che meglio definisce l’esperienza che stiamo vivendo è distanziamento, spazio di separazione, frattura: dell’essere umano rispetto al mondo, dell’individuo rispetto alla sua comunità, della vita come dato biologico rispetto al suo significato. Alla luce di questa frattura, qual è il ruolo del teatro, quel teatro che Paolo Grassi definiva come “il luogo dove una comunità liberamente riunita si rivela a se stessa”?

il Teatro, nella sua natura originaria e alla radice della sua vocazione ad essere rito collettivo, non ha mai smesso di interrogarsi sul senso dell’essere al mondo dell’uomo, in ultima analisi sull’opportunità della vita anziché la morte: il teatro classico porta davanti agli occhi della comunità il dramma – insieme singolare e collettivo – di protagonisti che incarnano la distanza specifica tra il dato biologico dell’essere al mondo e il suo significato, denunciando ad alta voce lo scandalo di una frattura che li rende irriducibili alla circostanza che si trovano ad abitare. Da Medea ad Amleto e oltre, il teatro ci chiede di aprire gli occhi di fronte a questa frattura, che oggi appare oltremodo esplicita e condivisa, e assume nello specifico la forma paradigmatica di una sala vuota. Se proviamo allora a compiere l’ultimo salto, che comporta il guardare alla luna (e cioè al teatro) e non al dito (la sala vuota), scopriamo quanto proprio il teatro più di qualsiasi altro dispositivo sia lo strumento cui l’umanità ricorre da ventisei secoli per leggere e capire se stessa, e che la sala vuota altro non sia che la rappresentazione plastica e drammatica di una vicenda storico-destinale che da ventisei secoli prende il nome di tragedia.

Ecco dunque qual è il compito del teatro oggi: parafrasando ancora Paolo Grassi, il teatro deve avere il coraggio di lasciarsi alle spalle il cerimoniale consolidato, pacchiano, insulso, vuoto, falso, immorale e inconcludente con cui la borghesia celebra se stessa, “non per astio, ma per necessità”, e fissare il proprio sguardo nell’abisso del tragico. Come sappiamo, la tragedia non abbisogna di personaggi, ma di eroine ed eroi: e dunque, il teatro che verrà non avrà tanto bisogno di riprogrammazione, promozione e pubblico pagante, quanto e ancor più di un temperamento eroico a beneficio della comunità intera. 

Un temperamento che va coltivato sin da subito, senza paura di toccare la carne viva, a partire da quella ferita aperta che è oggi, e non sappiamo ancora per quanto, la sala vuota.

Matteo Negrin, Direttore Fondazione Piemonte Dal Vivo – Lavanderia a Vapore

What’s Next in Restructuring the Dance Ecosystem

What’s Next in Restructuring the Dance Ecosystem

Mi chiedo quale sia il posto della danza in questa coreografia attuale e quotidiana: dov’è andata a finire la danza? In questa crisi ci troviamo improvvisamente di fronte alla sfiducia del corpo. Diffidenza dei corpi degli altri e anche dei nostri stessi corpi, le “case” in cui viviamo. Non sappiamo cosa succede dentro di noi e dipendiamo dalle conoscenze di medici, scienziati e politici che ci guidano. Ci preoccupa la vicinanza agli altri, ci preoccupa il tatto, ci preoccupa essere circondati da una comunità, ci preoccupa condividere il respiro. Purtroppo, queste cose – la vicinanza, il tatto, la comunità e il respiro – sono tutte essenziali per il DNA della danza. Questa crisi colpisce non solo la nostra pratica, ma anche chi siamo. La danza è essenzialmente la condivisione di un’esperienza. La danza è comunità.

Quando guardiamo alla parola “coreografia” e al suo significato originale in contesti antichi, capiamo che il “coro” non era solo lo spettatore di una tragedia, ma soprattutto era un commentatore o il gruppo che giudicava in terza persona, da un punto di vista oggettivo, i problemi dei protagonisti. Questo significa che il coro ha una funzione profondamente critica: riesce a vedere attraverso le illusioni dei grandi eroi o dei leader. Penso a quello che possiamo vedere da questo punto di vista in terza persona nel coro, e a quali illusioni vediamo attraverso. Riusciamo a vedere le questioni più pertinenti e fondamentali di questa pandemia che continuano a essere ignorate, cioè il modo in cui siamo arrivati a trattare il nostro corpo e, nella danza, il nostro partner principale, ovvero la terra? Anche se cruciale in questo momento, forse questa coreografia di massa della pandemia ci toglie l’attenzione dalle questioni a lungo termine che abbiamo tra le mani? 

Mi chiedo anche, come artista, quali altri approcci possiamo vedere?  Dopotutto, la danza è una delle attività più sostenibili, ecologiche ed estetiche che si possano immaginare. Non si esaurisce e non ha necessariamente bisogno di risorse perché è dentro di te e tutti possiamo ballare.

“Essenziale” è diventata una parola quotidiana. Noi intendiamo il cibo e l’aria come essenziali, decidiamo quali negozi sono essenziali. Credo anche che la danza sia essenziale. È stato Nietzsche a dire: “E dovremmo considerare perso ogni giorno in cui non abbiamo ballato almeno una volta”. In “Genealogia della Morale” Nietzsche dice che l’affermazione della vita deve essere realizzata attraverso pratiche corporee che aiutino a far emergere la creatività di cui sono capaci i nostri sensi e la nostra mente. La danza è una pratica corporea. Dice che impegnandoci in pratiche come la danza acquisiamo la consapevolezza sensoriale di cui abbiamo bisogno per essere in grado di discernere se i valori che creiamo all’interno della società, e i movimenti che facciamo nel mondo, sono buoni – per noi stessi, ma anche per la terra. Ecco perché ha detto: “Non so cosa lo spirito di un filosofo possa desiderare maggiormente di essere che un buon danzatore. Perché la danza è il suo ideale, anche la sua arte, infine anche l’unico tipo di pietà che conosce, il suo ‘servizio divino’”.

Domande importanti da porsi al momento sono: come possiamo trovare un modo per continuare a danzare in queste circostanze? E possiamo trovare un modo per aiutare la danza in questi tempi? Mi sono interrogata sull’aspetto curativo della danza. Asclepio, il semidio greco della medicina, era venerato nei templi dell’Asclepio dell’antica Grecia, il più celebre dei quali era l’Asclepio di Epidauro. Questi centri di guarigione includevano nelle loro pratiche medicinali la guarigione spirituale e l’attenzione per uno stile di vita sano, la dieta, il fitness, la musica e il teatro. La salute è molto più dell’assenza della malattia e molto più della medicina. È ciò che mangiamo, è il modo in cui ci prendiamo cura del nostro corpo. Non si tratta solo di guarire il corpo, ma di creare un ambiente sano in cui prosperare. Agli inizi degli anni ’80, una volta ho sentito Meredith Monk parlare del potere curativo dell’arte o dell’arte come antidoto. Lei pensa che la guarigione non stia solo nel canto, nella danza, nello spettacolo, ma anche nella realizzazione dell’arte stessa e questo è un processo di interazione tra ciò che accade all’interno del corpo e ciò che è fuori dal corpo. Alla fine questa interazione tra lo spazio interno ed esterno del corpo è tutta aria, respiro.

Nel 2015 stavo lavorando a un pezzo intitolato ‘My Breathing is my Dancing’. Faceva parte di una ricerca su ciò che potevo considerare la mia danza e da dove potevo generare movimento. Ho pensato al mio respiro come alla mia danza, al mio camminare come alla mia danza e al mio parlare come alla mia danza. Ciò che è importante del respiro – ciò di cui parliamo così tanto in questo periodo –  è che è letteralmente e simbolicamente vita. Direi che se la coreografia riguarda la scrittura dello spazio tra le persone, si tratta di come quello spazio esiste grazie al e per il respiro. Questo significa che la coreografia riguarda il modo in cui lo spazio respira.

Considerare il posto della danza nel nostro mondo è importante in questi giorni, non solo in termini di come preservarlo e mantenerlo in movimento attraverso tutte le restrizioni e le cancellazioni ma anche in termini di ciò che possiamo imparare dalla danza, il respiro della danza, la capacità che deve avere di essere autosufficiente, e anche la natura di creare comunità della danza.

Aiutiamoci l’un l’altro, ispiriamoci a vicenda, troviamo un modo per capire come questa situazione sconosciuta possa portare a nuove soluzioni e a nuovi modi di comunicare. E credo che questo richieda la volontà di guardare la bussola interna e verificare con se stessi, cosa succede con se stessi e con se stessi nella relazione con l’altro.

Uno dei grandi problemi è che le regole che ci troviamo ad affrontare ora significano che è come se stessimo danzando costantemente sulla sabbia in movimento: tutto cambia, cambia ogni mese, persino ogni settimana! E, come comunità di persone per le quali la danza, le arti dello spettacolo e le arti sono importanti, penso davvero che dobbiamo consapevolmente aiutarci l’un l’altro, trovando il modo di gestire questa sabbia in movimento. 

È fondamentale che cerchiamo, attraverso modi eleganti di rispetto e condivisione, di prenderci cura della danza e del mondo in cui danziamo, rispettandolo, ma allo stesso tempo non lasciandoci diventare statici e passivi. Organizziamo il movimento in modo verticale e orizzontale: rimaniamo con i piedi a terra, prendiamoci cura della terra e a livello orizzontale, allunghiamoci, raggiungiamo gli altri e le altre, diamoci supporto gli uni con le altre.

L’intera traduzione, a cura di Beatrice Bressolin, è disponibile qui. Il programma di ‘What’s Next in Restructuring the Dance Ecosystem’ è qui.

What’s Next in Restructuring the Dance Ecosystem

Un viaggio ai confini della danza contemporanea

La vera sfida della danza contemporanea, oggi, si potrebbe così riassumere: trovarsi in una delle tante cittadine italiane e ricevere una risposta più o meno esaustiva alla domanda “cos’è la danza contemporanea?”. Troppo spesso, invece, continuiamo ad essere ricambiati da uno sguardo vacuo e perplesso, come se quarant’anni di produzione contemporanea storiograficamente attestati fossero ancora insufficienti a legittimare questa pratica e porla sul piano del pubblico dominio. La situazione si complica se si prendono in esame le piazze “periferiche” delle province: la danza contemporanea non arriva nelle campagne italiane. Si tratta certamente di una generalizzazione e, per fortuna, esistono virtuose eccezioni, ma occorre ammettere come questo rappresenti piuttosto fedelmente la nostra realtà.

Che la danza costituisca di per sé un interesse di nicchia, e che la danza contemporanea ne sia un ulteriore sottoinsieme, è un dato di fatto. Quello che invece è indispensabile osservare è come in Italia venga a mancare oggi un discorso collettivo intorno alla danza. Il problema non risiede nei numeri e nello sbigliettamento: allargando il punto di vista, quello che manca oggi è una cultura del contemporaneo e un relativo immaginario pubblico. La danza, dagli anni Ottanta ad oggi, ha subìto uno scollamento radicale tra la visione condivisa e la sua pratica concreta, che troviamo invece nelle sale, nei teatri, nella ricerca degli artisti. E se nei centri urbani maggiori la danza contemporanea ha cominciato ad affermare la propria identità, sia come forma spettacolare che come pratica attiva in diversi ambiti (scolastico, sociale, terapeutico, di intrattenimento ecc.), essa stenta ancora a raggiungere le scene minori delle province e delle città più piccole. 

Ma perché la danza contemporanea qui “non arriva”? Diverse sono le cause oggettive: il problema spaziale è un limite enorme; molte delle strutture che ospitano le stagioni teatrali hanno palcoscenici e spazi ridotti o non idonei: si pensi alla pavimentazione o agli impianti illuminotecnici; non è sottovalutabile poi il problema dei costi: una pièce danzata da molti artisti avrà un costo di programmazione nettamente elevato; ma, se un pezzo solistico di prosa permette un cachet ridotto ed è in grado di reggere uno spettacolo a serata intera, più complesso è il caso di un corpo solo che danza, il quale presenta oggi molti più problemi di linguaggio e di interpretazione. Così, un’arte performativa senza apparenti barriere linguistiche o strumentali, continua ad essere considerata con diffidenza, come prodotto elitario e complesso da comprendere, per il quale occorre possedere un certo allenamento dello sguardo. Il gap resta culturale, causato dalla scarsa familiarità che questi pubblici riescono ad acquisire con la danza contemporanea: prodotto troppo rischioso da proporre, gli spettacoli di danza restano l’eccezione all’interno delle programmazioni. Un ruolo importante viene giocato qui dai circuiti multidisciplinari, che facilitano la distribuzione, ma si segnala un’altra grande difficoltà: il mantenimento di un dialogo attivo con gli enti che operano su territori distanti dal capoluogo: se nel teatro cittadino viene offerto uno spettacolo e le scuole di danza del territorio (uno dei principali destinatari dell’offerta) non vengono avvisate, la responsabilità è dell’ente territoriale che non ha l’interesse o la capacità di creare una rete efficace, almeno informativa, con le proprie associazioni. 

Apparentemente dunque, le cause del problema sono tutte esogene. Occorre però notare come le realtà territoriali in esame pullulino di piccoli enti e associazioni che con grandissimo impegno garantiscono una programmazione culturale anche molto varia (e bene accolta); eppure della danza nemmeno l’ombra. Non resta a questo punto che cambiare drasticamente il punto di osservazione: quale performance per quale contesto? Quanta danza viene oggi creata appositamente per questo pubblico? Quanti artisti hanno interesse a trovare un linguaggio per entrare in relazione anche con queste comunità? I problemi culturali, economici e spaziali sono noti, ma alto è anche lo snobismo che impedisce all’artista di impegnarsi, con intento pedagogico ed educativo, nella diffusione del verbo, attraverso creazioni snelle e agili, adattabili anche a questi contesti, che riescano a penetrare nuovi luoghi e soprattutto nuove menti. Si resta invece in attesa di un cambiamento dall’alto che qui non può arrivare: un palcoscenico di 6m x 4m, rimarrà un palcoscenico di 6m x 4m. 

Dove può risiedere allora la soluzione? È necessario un cambiamento di prospettiva che ruoti intorno al concetto di “rilevanza”. Occorre progettare un’offerta che abbia un valore per le persone e per i territori, e mettere in campo azioni volte a mostrare, a fare “toccare con mano”, a proporre esperienza di questo valore. Bisogna superare la lente dell’engagement con cui si cerca di attrarre numeri nei luoghi culturali, ma trovarne nuovi approcci orientati a mettere in relazione arte e persone; arrivare a scardinare formalismi culturali assodati (come lo stesso rapporto artista/spettatore) e ricercare nuove vie per una condivisione di esperienza più profonda. Ed è proprio da questi contesti minori e periferici, in cui alto è il contatto e il rapporto fra le persone, che sarebbe utile ri-partire: un campo di sperimentazione in cui instaurare un legame profondo con il contesto e con le identità, considerando che la danza contemporanea è per sua natura (com)partecipazione e presenza. È anche da qui che quest’arte performativa può ritrovare la sua rilevanza, contribuendo a promuovere l’esposizione e la partecipazione alla cultura come palestra di cittadinanza attiva e dispositivo di miglioramento del benessere individuale e collettivo.

Chiara Borghini, danzatrice, responsabile per le relazioni esterne e la programmazione per ArteMente, Centro di Alta Formazione per la Danza, e per la Compagnia Lost Movement, cofondatrice di Milano Dancing City, progetto di avvicinamento delle persone alla danza.

Convergenze creative tra danza e fumetto

Convergenze creative tra danza e fumetto

Pier Paolo Rovero, docente di fumetto dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino

Ho accettato di partecipare al vostro progetto Convergenze Creative perché ritengo che il fumetto possa essere un linguaggio idoneo anche per chi lavora con il teatro e con la danza. Quando ho iniziato ad approcciarmi a questo mondo, erano gli anni ’80-’90 e il fumetto era considerato un prosieguo del cinema: “È come il cinema ma senza la necessità di un budget” era l’impostazione delle scuole del fumetto; “Voi siete come i registi cinematografici” dicevano a noi insegnanti (e, in effetti, il fumetto è diviso per generi). Con l’avvento della computer grafica c’è stata una grossa rivoluzione a livello globale e, di conseguenza, anche nel fumetto le cose sono cambiate. Oggi tutti pensano che il fumetto si sia avvicinato alla letteratura, al romanzo, io invece credo che sia molto simile all’assistere ad uno spettacolo dal vivo. In questi ultimi anni sono di moda le graphic novel, la cui caratteristica principale è che gli autori hanno una loro cifra stilistica molto riconoscibile; la vignetta diventa il palcoscenico e il patto è una finzione consapevole per entrambi, autore e lettore. La graphic novel è, pertanto, una sorta di spettacolo organizzato da un artista per il lettore, è un’esperienza molto più estetica di quella del fumetto.

L’accademia, più di altre scuole, ha sposato questa vocazione; c’è ancora la tendenza a credere che i fumettisti si debbano nutrire solo di fumetto invece, ora più che mai, non è così. Il progetto di audience engagement “Convergenze creative” per me è stato fondamentale perché mi ha riportato alla mia missione: intercettare stimoli e chiedere agli studenti di rielaborarli in chiave personale. Se io offro questi stimoli ai miei studenti, come è successo durante la residenza di Convergenze Creative, cambio il loro approccio e li incentivo a esprimersi in modo più libero. Il fatto che la vignetta diventi un palcoscenico è proprio una cosa di cui sono convinto: aiuta a coltivare, per esempio, idee registiche; a interrogarsi su come ragiona un coreografo per allestire uno spettacolo; a come si possono tradurre creativamente, attraverso il disegno, i colori e le luci di uno spettacolo.

In qualità di docente ritengo che sia fondamentale mettere gli studenti in contatto con artisti che non sono fumettisti, per consentire loro di esprimersi sempre con maggiore libertà; selezionare gli stimoli piuttosto che orientare i contenuti. Parlare di danza agli studenti significa metterli di fronte a qualcosa che non conoscono e stimolarli o ancora metterli nella condizione di farsi stimolare dall’artista, per capirne le scelte estetiche e per ragionare, poi, in piena libertà. Per me oggi fare didattica significa oltrepassare i limiti, nel mio caso i limiti del fumetto.

Edoardo Audino, studente del corso di Arte del fumetto dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino

Sono entrato in contatto con la realtà della Lavanderia a Vapore mentre studiavo presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, a Torino. Frequentando il corso di Arte del Fumetto, del Professor Pier Paolo Rovero, oltre agli elaborati prettamente accademici, noi studenti abbiamo avuto la possibilità di disegnare dei racconti a fumetti, elaborando sceneggiature basate sul progetto Convergenze Creative, con un particolare focus sulla residenza di Salvo Lombardo. Nella realizzazione di questi elaborati mi si sono presentate delle sfide interessanti. In primo luogo si è trattata di una delle prime occasioni in cui ho dovuto elaborare dal punto di vista grafico testi non miei. Avendo piena libertà, ho dovuto, quindi, unire la mia visione del fumetto, e più in generale della narrazione, ai testi forniti. Si è trattato di apprendere e applicare nozioni di disegno, grafica, regia e narrativa sequenziale, coniugando i temi trattati e cercando di ottenere la miglior sinergia possibile tra parole e disegno.

Si è trattata di un’occasione che mi ha fatto comprendere non solo quanto la parola può influire sull’immagine, ma quanto l’immagine abbia la potenzialità di rendere la lettura di un testo differente rispetto a come inizialmente pensato, e di riuscire ad aggiungere significati ad esso. È una continua lotta tra forma e contenuto, all’interno della quale è necessario non far mai prevalere l’una sull’altro, bensì cercare di creare un perfetto connubio tra i due, in modo tale da far perdere il fruitore nella lettura, dimenticandosi di star leggendo un’opera di finzione e facendolo quasi astrarre dalla realtà.

La vera sfida è, però, stata quella di provare a coniugare tutto il lavoro tipico del disegno e del fumetto con il mondo del teatro e della danza. Il disegno è statico, esprime in sé un momento chiave dell’azione, mentre la danza è continuo movimento. Nel fumetto, e più in generale nell’arte sequenziale – che spesso vengono confusi, ma sono in realtà due forme ben distinte – il movimento viene espresso in genere attraverso il passaggio da un movimento di stasi ad un altro, lasciando al lettore la possibilità di ‘riempire’ quegli spazi vuoti tra le vignette attraverso la propria immaginazione e le proprie esperienze. Talvolta viene sì espressa un’azione attraverso il pieno culmine di un movimento congelato nel tempo, ma è un movimento che continua ad essere assente, all’atto pratico, ma comunque presente nella mente del lettore. Nel caso di Excelsior: Dietro le Quinte, quindi, ho utilizzato delle pose chiave per i personaggi, come se si estrapolassero da un film i keyframe, o come quando allo spettatore rimangono impresse, nei ricordi, le pose chiave dei movimenti dei ballerini. Ho imparato a dare un’idea delle movenze attraverso un cosiddetto inganno del disegno, che non rappresenta la realtà esattamente per come appare, ma utilizzando delle forme significative che ci permettono di percepire il movimento semplicemente attraverso quello che nel cinema sarebbe un frame chiave. Si tratta di uno dei concetti che va a costruire lo ‘scheletro’ della narrazione visiva attraverso il disegno, che permette di comunicare storie, concetti e movimento nella maniera migliore possibile a chi si approccia all’opera, così come i movimenti della danza associati alla musica suscitano emozioni negli spettatori. Parlando di scheletro, struttura, impalcatura che regge il progetto, il contenuto più consono per essere espresso da questi elementi formali, non poteva che essere la sceneggiatura di Dietro le Quinte. Mostrare tutto ciò che sta dietro all’opera, mostrare tutti i dietro le quinte, gli errori, le paure e le speranze prima di entrare in scena, come quando si sta realizzando un disegno ed è impossibile capire come apparirà una volta ultimato. Mostrare allo spettatore non solo l’emozione del momento o la percezione immediata, ma tutto ciò che avviene prima, tutta la costruzione necessaria per arrivare a un unico momento di stupore.