Il bando Stilldigital o dell’incontro tra danza e piattaforme digitali

Il bando Stilldigital o dell’incontro tra danza e piattaforme digitali

L’edizione 2020 del festival Interplay LINK di Torino si è necessariamente dovuta svolgere in gran parte a distanza, in modalità streaming: a novembre ho condotto con Sara Sguotti e Teodora Castellucci le due serate, totalmente ripensate per la fruizione online. Questo format, composto dalla visione di uno o più video brevi (nel caso di Sara Sguotti anche di un work in progress) unito a un Q&A con gli spettatori, ci è parsa un’opzione gradita al pubblico affezionato da troppo tempo lontano dai teatri (ma che continua ad aver fame di spettacoli e di ricerca) e al tempo stesso può intercettare un nuovo pubblico che non può frequentare fisicamente i festival, in primis per motivi di distanza ma anche per la poca tenitura degli spettacoli.

Forte di questa esperienza, all’inizio dell’anno, la direttrice artistica Natalia Casorati ha lanciato la prima edizione del bando Interplay Stilldigital che propone un sostegno produttivo a progetti che uniscono la danza contemporanea con le piattaforme digitali. Nel bando veniva espressamente richiesta la collaborazione con un videomaker per la realizzazione di un video di 30 minuti da presentare in modalità streaming durante l’edizione 2021 del festival.

Ho avuto la fortuna di far parte della giuria – insieme a Antonio Pizzo, Laura Gemini, Natalia Casorati, Francesca Pedroni, Carlotta Pedrazzoli e Valentina Tibaldi – e la possibilità di vedere tutti i video dei progetti (circa 60, compresi 8 nella categoria “giovani”) che si sono contesi il premio del pubblico, basato sui Like ricevuti sul sito di Interplay.

Rispetto a questa selezione, il primo dato da sottolineare è la presenza tra i candidati di nomi importanti del panorama nazionale della danza contemporanea: dai maestri alla nuova generazione di “danzautori” fino ai giovanissimi venuti fuori dalle ultime vetrine e residenze. Questi curricula variegati hanno permesso diversi approcci alle nuove piattaforme digitali.

C’è chi ha optato per la forma documentaristica, andando a raccontare il making of dei propri spettacoli ma anche il rapporto della danza con le città e i paesaggi naturali. C’è chi si è ispirato all’esperienza della videodanza attualizzandola con le possibilità dei nuovi mezzi digitali, che permettono riprese più dettagliate e movimenti di macchina più ricercati. Alcune proposte si sono concentrate sulle possibilità “danzanti” della videocamera, per un nuovo rapporto fra corpi e mezzo digitale.

Reputo che gli esperimenti più interessanti siano stati quelli che si sono posti la questione della piattaforma da utilizzare attualizzando la propria ricerca coreografica e soprattutto cercando di mettere “in crisi” l’occhio dello spettatore, sicuramente meno libero nella fruizione video ma anche più disposto a mettersi in gioco grazie alle possibilità del digitale.

Dopo un lungo e stimolante confronto tra tutti i giurati, Giselda Ranieri e il Collettivo Diane si sono aggiudicati il premio di 4000 euro di sostegno alla produzione con il progetto RE_PLAY WIRELESS CONNECTION “per la capacità di mettere in relazione spazio scenico e spazio mediale tra sperimentazione coreografica e riflessione sul formato digitale”. Il premio “Off”, rivolto a giovani coreografi di area piemontese (1000 euro) è andato a Giulia Cervelli e Tommaso Cavalcanti con AFTER, “per l’utilizzo dello spazio urbano e del video sul tema della solitudine in periodo pandemico”. I due spettacoli digitali verranno trasmessi in streaming il 24 maggio alle ore 21 durante una serata del festival Interplay 2021.

Menzione speciale a Claudia Caldarano e Giulia Lenzi con il progetto RIFLESSIONI “per l’originalità della ricerca giocata sulla deformazione dell’immagine e su una qualità danzante del montaggio”. Il video verrà trasmesso nella serata di Interplay 2021 dedicata alla premiazione. 

Infine, ci è sembrato giusto segnalare Marco Augusto Chenevier / Association Compagnie Les 3 Plumes e Andrea Carlotto con SYNERGEYA AUGMENTED PROJECT “per la consapevolezza della dimensione performativa del digitale, che può trasformarsi in “rito contemporaneo” potenziando l’interazione con lo spettatore e il coinvolgimento del pubblico online” e Opera Bianco e Fabio Tomassini con PHANTASMATA “per la limpidezza compositiva che distilla elementi archetipici dell’espressione coreografica e per il linguaggio video che richiama le origini dell’immaginario cinematografico”.

Come dimostrano anche altre iniziative realizzate negli ultimi tempi, quali i bandi “Residenze digitali” promosso dal Centro di residenza della Toscana e “BUGS” promosso da alcune residenze artistiche sempre toscane, credo che ormai la strada sia segnata e queste nuove esperienze accompagneranno la visione teatrale tradizionale stimolando la ricerca e la creatività e soprattutto intercettando nuovi spettatori.

Simone Pacini, fattiditeatro

Il Tavolo della Ricerca Artistica fra storie, memorie e narrazioni

Il Tavolo della Ricerca Artistica fra storie, memorie e narrazioni

Da qualche anno a questa parte, la Lavanderia a Vapore è diventata una piattaforma di condivisione di pratiche, ricerca artistica e innovazione culturale, un crocevia di artisti nato grazie alla storia e all’eredità culturale del territorio torinese, che ha permesso alla Casa della Danza di riconoscere e orientarne i processi creativi in essere nella costituzione del Tavolo della Ricerca Artistica (TRA). Aderiscono al TRA, in ordine alfabetico: Amina Amici/Zerogrammi, Barbara Altissimo, Elena Cavallo, Fabio Castello, Francesca Cinalli / Tecnologia Filosofica, Gabriella Cerritelli, Francesca Cola, Renato Cravero / Tecnologia Filosofica, Doriana Crema, Erika Di Crescenzo, Francesco Dalmasso, Claudia Adragna, Elisa D’Amico, Cristina Da Ponte, Teresa Noronha Feio/ Shared Training Torino, Emanuele Enria, Teresa Noronha Feio, Debora Giordi/ Balletto Teatro Torino, Riccardo Maffiotti, Daniele Ninarello, Elena Pugliese, Aldo Rendina / Tardito Rendina, Said El Moumen, Samuel Fuscà, Federica Tardito / Tardito Rendina, Raffaella Tomellini, Aldo Torta/Tecnologia Filosofica, Antonella Usai / Nascere Alla Danza.

Per ripercorrere le tracce di tale poliedrica eredità, la narrazione prende le mosse dalla storia della danza torinese, che affonda le radici nella danza libera russa di inizio Novecento, quando il ricco industriale Riccardo Gualino invita a Torino le sorelle Raja e Bella Markman, che insieme con Cesarina Gualino, aprono la prima scuola di danza moderna, attiva fino a qualche anno fa. Alla scuola di Bella Hutter si formano generazioni di danzatrici e danzatori, in primis Anna Sagna che, a partire dagli anni Settanta, insieme con lo storico del teatro Gian Renzo Morteo, avvia la stagione più fervida della ricerca sui processi creativi di base corporea. Fra il primo spettacolo della compagnia Sutki (1970) e il memorabile Stabat Mater (1981) Anna Sagna viene coinvolta nelle politiche di decentramento della cultura che danno vita al fenomeno democratico dell’animazione teatrale, in cui artisti e insegnanti, alla ricerca di nuove forme di insegnamento e di teatro, collaborano nella sperimentazione dell’espressione corporea fin dalla più tenera età1. Per Anna Sagna non si tratta solo di proporre laboratori nelle periferie torinesi e di entrare in contatto con la grande comunità intellettuale e operaia di Adriano Olivetti a Ivrea, ma anche di elaborare un sistema di insegnamento della danza basato su alcuni principi fondamentali: recupero dell’io, coscienza del corpo, analisi del movimento. Oltre alla formazione triennale intensiva per danzatori, nella quale venivano impartite tutte le tecniche (dal classico al moderno), all’inizio degli anni Ottanta viene avviato un percorso triennale di qualificazione per insegnanti della Scuola dell’Infanzia, in cui l’espressione corporea diventa uno strumento di lavoro riconosciuto istituzionalmente dalla Regione Piemonte2.

L’altra madre della danza moderna e contemporanea torinese è Sara Acquarone, innovatrice sia nel teatro di danza sia nella danzaterapia già dagli anni Sessanta3.

A queste radici si aggiungono, a partire dagli anni Ottanta, le nuove sperimentazioni pedagogiche della Danza Sensibile® di Claude Coldy, le metodologie di ricerca artistica contemporanea mutuate da Carolyn Carlson e Pina Bausch attraverso i Sosta Palmizi (Raffaella Giordano, Roberto Castello, Giorgio Rossi), e le tecniche del modern e del modern-jazz americano, grazie anche all’opera di mediazione culturale del Teatro Nuovo di Torino che invita artisti e pedagoghi internazionali come Joseph Fontano e Robert North, mentre dal 2003 TorinoDanza avvia in collaborazione con il neonato CRUD – Centro Regionale Universitario per la danza “Bella Hutter” una serie di percorsi formativi con i Sosta Palmizi e Virgilio Sieni.

All’interno di questo ricco panorama4, con inevitabili approfondimenti in Italia e all’estero, si sono formate almeno tre generazioni di artisti presenti nel TRA: la prima generazione (Doriana Crema, Aldo Rendina, Renato Cravero, Barbara Altissimo, Federica Tardito, Aldo Torta, Gabriella Cerritelli e Antonella Usai) che operano in modo sempre più sistematico sul territorio a partire dagli anni Novanta con ricerche artistiche tradizionali ma anche con incursioni nel tessuto urbano e con comunità diversificate: da E Skené Danza e Dintorni (1989) di Doriana Crema a Liberamenteunico (1998) di Barbara Altissimo alla collettiva Compagnia Tecnologia Filosofica (2000). La seconda generazione(Francesca Cinalli, Daniele Ninarello, Said El Moumen, Elena Cavallo, Emanuele Enria, Amina Amici, Francesca Cola, Debora Giordi, Fabio Castello, Raffaella Tomellini ed Elena Pugliese), oltre per la formazione diversificata che segue sia con la generazione “senior”, sia all’estero sia in pratiche somatiche, danza terapia, teatro sociale e drammaturgia, sono caratterizzate dall’apertura dei processi creativi al territorio, alle scuole, alle persone con disabilità, permettendo quella naturale connessione con le progettualità di sistema della Lavanderia a Vapore.

Infine, la terza generazione (Samuel Fuscà, Erika Di Crescenzo, Francesco Dalmasso, Elisa D’Amico, Cristina Da Ponte, Claudia Adragna, Teresa Noronha Feio) formatasi per lo più all’estero, apporta al TRA prospettive di ricerca internazionali condivise come Shared Training Torino o Ricerca X o più concentrate sulla creazione artistica propriamente detta.

Le strette relazioni avviate negli anni con il territorio hanno permesso una circolazione di pratiche, di idee e di valori fra gli artisti del TRA e la Lavanderia in grado far emergere nuove progettualità sempre più condivise con settori anche non vicini alle arti performative, come nel caso eclatante dell’ultimo nato, il progetto Dance Agency Project, che a ben vedere era già stato avviato nelle utopie comunitarie di Adriano Olivetti che Anna Sagna aveva abbracciato e che oggi la Lavanderia, insieme con Media Dance e Dance Well, può raccogliere e rilanciare come eredità piemontese.

1 Alessandro Pontremoli – Elena Zo, Anna Sagna, UTET Libreria, Novara 2005
2 Rita Maria Fabris, Radici e germogli della danza d’arte e di comunità in Piemonte. Il convegno, le testimonianze e i laboratori, in L. Magnetti (a cura di), PerCorpi Visionari. Percorsi sconfinanti tra danza e performance contemporanea, Fondazione Teatro Coccia Onlus, Novara 2015, pp. 72-87
3 Alessandro Pontremoli (a cura di), Sara Acquarone. Una coreografa moderna in Italia, UTET Università, Novara 2009
4 Compendia le ricerche di danza in Italia Silvio Paolini Merlo (a cura di), Le pioniere della nuova danza italiana. Le autrici, i centri di formazione, le compagnie, ABEditore, Milano 2016

Rita Maria Fabris, Università degli Studi di Torino e danzeducatrice

Uno spazio dove non mi sento mai sola

Uno spazio dove non mi sento mai sola

Tante sono state le esperienze, umane, artistiche e professionali che in questi anni mi hanno portata a frequentare la Lavanderia a Vapore, a cominciare da Ricerca X, che è stato il primo grande stimolo e che ha fortemente favorito la scelta di radicarmi a Torino; per arrivare ai progetti che sono partiti al primo incontro, come Boarding Pass Plus Dance, l’ingresso nella rete European Dancehouse Network, i momenti formali e informali di condivisione di lavori artistici, miei e di colleghi. Vorrei inoltre aggiungere un aspetto relativo ad alcune condizioni strutturali che generano il desiderio di abitare la Lavanderia: l’eccellenza del luogo di residenza e la bellezza dello spazio di lavoro e delle persone che ti accolgono. Infine, ci sono esperienze personali, alcune molto intime, come la sensazione di benessere che si sente entrando in un luogo come la Lavanderia; altre sono più concrete e collettive, come lo sviluppo di progetti condivisi.

Tutte queste esperienze mi hanno portata a individuare due grandi aspetti. 

Il primo: la Lavanderia a Vapore come spazio di incontro. Un luogo di riferimento, fisico e interpersonale, che favorisce un confronto orizzontale e trasversale tra artisti, operatori e istituzioni. Personalmente trovo importante avere a disposizione questo luogo, materico e intimo allo stesso tempo, sapere che posso intercettare percorsi di artisti, costruire e crescere insieme ad una comunità critica. I progetti di ricerca in cui sono stata coinvolta hanno contribuito alla mia visione come professionista e hanno messo a fuoco un mio interesse rispetto ai temi dei diritti e del potenziale ruolo politico e sociale di un artista. Se Ricerca X mi ha permesso di ricercare intorno al rapporto tra il contenuto del processo artistico e la comunità estesa, produttrici di una massa critica, il progetto Boarding Pass mi ha permesso di confrontarmi con il concetto di professionalizzazione di un giovane autore in Italia e con lo sviluppo di strumenti di relazione, dialogo e saperi che gli permettono di rendere sostenibile la sua vita di artista.

Il secondo: la Lavanderia a Vapore come spazio di crescita professionale, dove l’artista può inseguire il suo approccio prismatico, misurandosi con ruoli, linguaggi e obbiettivi diversi: creativi, di condivisione reciproca e politici. Per me è stato un luogo in cui ho potuto trovare fiducia nel percorso, oscillante e fluido, di una creazione artistica.
La possibilità di esistere umanamente in un contesto come la Lavanderia mi ha permesso di considerare e mettere in atto visioni che oltrepassano la produzione coreografica. Credo che un artista, soprattutto se lavora con il corpo e il contatto, sia portatore di una conoscenza essenziale nella dimensione del sensibile. Forse oggi le istituzioni iniziano a comprendere la forza di questo sapere e in Lavanderia trovo progetti che mettono in dialogo artisti, cittadini e istituzioni con un altissimo livello di cura.

Da sempre mi accompagnano due domande: Cosa vuol dire essere un’artista della danza oggi? Qual è la potenzialità della danza nel territorio e nella società? Trovo importante sapermi portatrice di una voce, di un’azione, e sapere che esiste un luogo come la Lavanderia dove posso esprimerle senza mai sentirmi sola.

Teresa Noronha Feio, dance maker

Facciamo luce sul teatro

Facciamo luce sul teatro

Lo spettacolo del futuro è una sala vuota” sosteneva Yves Klein in una conferenza tenuta all’Università la Sorbona di Parigi nel 1959. A distanza di poco più mezzo secolo, lunedì 22 febbraio 2021 le sale teatrali in tutta Italia accendono le proprie luci in assenza di pubblico, restituendo alle rispettive cittadinanze la rappresentazione plastica delle proprie architetture, dalle quali il pubblico è bandito ormai da tempo. Nel momento in cui il pensiero paradossale di Klein è divenuto un dato di fatto, è legittimo chiedersi quale sia il ruolo del teatro e dei suoi artisti in una città in cui gli spazi deputati alla rappresentazione teatrale sono negati alla sua comunità di riferimento, e in un contesto in cui assenza, incertezza, malattia, transitorietà, fragilità, isolamento e distanza continuano a fare parte della realtà con cui ognuno è chiamato quotidianamente a confrontarsi.

A distanza ormai di dodici mesi dalla prima chiusura degli spazi della cultura, la maggior parte della comunità teatrale sembra ancora congelata e in attesa di un cenno per ripartire, pur nella consapevolezza che il pubblico che accoglierà alla riapertura dei propri spazi sarà profondamente segnato, se non addirittura mutato, rispetto a quello da cui si era bruscamente congedato a fine febbraio del 2020. Nel frattempo, il mondo dello spettacolo in generale e del teatro nello specifico non hanno mai smesso di urlare la propria rilevanza, irriducibile a qualsiasi surrogato digitale, facendo tuttavia molta fatica a dire qualcosa di dirimente riguardo al qui ed ora, che non sia il ribadire l’importanza della propria sopravvivenza come categoria di lavoratori o il sottolineare la relativa sicurezza dei propri spazi dal punto di vista sanitario, se messi a confronto con quelli del commercio o della ristorazione.

Sarebbe dunque il caso di distinguere alcuni piani di lettura, per provare a sbrogliare i nodi in cui le rivendicazioni del mondo teatrale, e non solo teatrale, sono incappate in questi mesi, e provare a individuare quali siano i tratti per cui la pratica del teatro sia centrale – se non dirimente – nell’accompagnare un’umanità ferita nell’attraversamento e auspicabilmente nel superamento di questa emergenza sanitaria. Un equivoco in cui molto spesso siamo caduti, è frutto della sovrapposizione frettolosa di tre piani che a rigore dovrebbero rimanere distinti: quello scientifico/sanitario, quello politico e quello etico/filosofico

Partiamo dal primo: se chiediamo alla comunità scientifica quale sia il rimedio ad un problema di natura sanitaria, che mette a repentaglio la stessa esistenza in vita di uno o più esseri umani, la risposta non potrà che essere una ricetta che sottopone alla legge di causa/effetto gli elementi che concorrono alla salute o al degenerare della malattia nell’organismo. Per intenderci, a fronte di una colesterolemia fuori controllo, il medico non ci dirà mai “mangi meno formaggi” ma ce li vieterà, così come a fronte di una situazione polmonare compromessa non ci prescriverà “cinque sigarette al giorno” ma ci intimerà di buttare immediatamente il pacchetto che abbiamo in tasca. Se il problema è arginare un virus, la comunità scientifica ci indica quali sono le condizioni ottimali per cui il virus smette di circolare: abbiamo imparato che questa soluzione si chiama lockdown.

Se passiamo al piano politico, il tema in questione verrà analizzato secondo ulteriori punti di vista: anche a fronte del più duro dei lockdown, con tutta probabilità almeno gli ospedali dovranno continuare a garantire la propria operatività, l’approvvigionamento di beni di prima necessità non potrà interrompersi e con esso la filiera che gli sta dietro. Ben presto ci siamo resi conto che ragionando per filiere non è per nulla scontato stabilire dove si fermi l’essenziale e dove cominci l’accessorio, fino ad arrivare al singolare caso delle profumerie le cui serrande non si sono quasi mai abbassate. Se poi usciamo dall’orizzonte del lockdown pesante, spetta alla politica stabilire quali siano le priorità: ad esempio, la priorità della scuola rispetto ad altre funzioni pubbliche essenziali, l’incidenza di alcune chiusure sull’economia e sull’indebitamento pubblico e privato, e così via. Quando da alcune parti si è cominciato a denunciare la presenza di una “dittatura scientifica e sanitaria” non si è percepito quanto ci siamo invece immersi in un primato della politica quale forse non si rilevava nel nostro Paese dagli anni ’70 del secolo scorso.

Il terzo piano, che dovremmo tenere salvo dalla sovrapposizione con i primi due, è quello etico/filosofico: in questi ultimi dodici mesi abbiamo preso l’abitudine a scindere l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ciò che l’emergenza sanitaria ci ha portato a considerare, in questo senso, è il prezzo della salvaguardia del dato biologico, della “nuda vita” come la definisce Giorgio Agamben, a fronte della sospensione o peggio della perdita della natura collettiva, sociale e comunitaria dell’essere al mondo dell’uomo. Il risultato è stata un’accelerazione verso un abitare solitario tecnologicamente assistito: nel migliore degli scenari possibili una vita isolata, sostenuta da servizi e reti sociali virtuali, senza contare quanti tra gli anziani non siano riusciti a digitalizzare le proprie relazioni o quanti tra i giovanissimi siano stati costretti loro malgrado ad abbandonare gli studi perché le famiglie non hanno avuto a disposizione sufficienti dispositivi elettronici per garantire a tutti i figli l’accesso alla didattica a distanza. 

A fronte di un incremento di tecnologia nelle esistenze di tutti noi, nondimeno in questi mesi abbiamo avuto modo di sperimentare i limiti del surrogato digitale, il dispetto derivante dalla “chattificazione” delle nostre relazioni, lo sconforto conseguente all’irriducibilità delle nostre immagini in video rispetto all’incontro in presenza. In estrema sintesi, il termine ormai comune e che meglio definisce l’esperienza che stiamo vivendo è distanziamento, spazio di separazione, frattura: dell’essere umano rispetto al mondo, dell’individuo rispetto alla sua comunità, della vita come dato biologico rispetto al suo significato. Alla luce di questa frattura, qual è il ruolo del teatro, quel teatro che Paolo Grassi definiva come “il luogo dove una comunità liberamente riunita si rivela a se stessa”?

il Teatro, nella sua natura originaria e alla radice della sua vocazione ad essere rito collettivo, non ha mai smesso di interrogarsi sul senso dell’essere al mondo dell’uomo, in ultima analisi sull’opportunità della vita anziché la morte: il teatro classico porta davanti agli occhi della comunità il dramma – insieme singolare e collettivo – di protagonisti che incarnano la distanza specifica tra il dato biologico dell’essere al mondo e il suo significato, denunciando ad alta voce lo scandalo di una frattura che li rende irriducibili alla circostanza che si trovano ad abitare. Da Medea ad Amleto e oltre, il teatro ci chiede di aprire gli occhi di fronte a questa frattura, che oggi appare oltremodo esplicita e condivisa, e assume nello specifico la forma paradigmatica di una sala vuota. Se proviamo allora a compiere l’ultimo salto, che comporta il guardare alla luna (e cioè al teatro) e non al dito (la sala vuota), scopriamo quanto proprio il teatro più di qualsiasi altro dispositivo sia lo strumento cui l’umanità ricorre da ventisei secoli per leggere e capire se stessa, e che la sala vuota altro non sia che la rappresentazione plastica e drammatica di una vicenda storico-destinale che da ventisei secoli prende il nome di tragedia.

Ecco dunque qual è il compito del teatro oggi: parafrasando ancora Paolo Grassi, il teatro deve avere il coraggio di lasciarsi alle spalle il cerimoniale consolidato, pacchiano, insulso, vuoto, falso, immorale e inconcludente con cui la borghesia celebra se stessa, “non per astio, ma per necessità”, e fissare il proprio sguardo nell’abisso del tragico. Come sappiamo, la tragedia non abbisogna di personaggi, ma di eroine ed eroi: e dunque, il teatro che verrà non avrà tanto bisogno di riprogrammazione, promozione e pubblico pagante, quanto e ancor più di un temperamento eroico a beneficio della comunità intera. 

Un temperamento che va coltivato sin da subito, senza paura di toccare la carne viva, a partire da quella ferita aperta che è oggi, e non sappiamo ancora per quanto, la sala vuota.

Matteo Negrin, Direttore Fondazione Piemonte Dal Vivo – Lavanderia a Vapore