Tra spazio pubblico e ingaggio emotivo: due creazioni a confronto

Tra spazio pubblico e ingaggio emotivo: due creazioni a confronto

Laura Gazzani e Lorenzo De Simone, giovani danzatori e coreografi recentemente impegnati in progetti di residenza presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, penetrano all’interno delle rispettive poetiche coreografiche, provando a riflettere sulla funzione in esse esercitata dalla sfera emotiva e dallo spazio pubblico di relazione.


In che modo la tua ricerca artistica si lega alla volontà di “ingaggio” emotivo delle persone a cui ti rivolgi o con le quali ti interfacci? Nella tua creazione, infatti, si affida uno specifico ruolo alle emozioni, intese quali “strumenti metodologici” (una visione – questa – particolarmente interessante, specie considerando la prospettiva corpo-centrica a cui di norma le pratiche di danza vengono ricondotte).

Laura: «Inizio col dire che Walter è nato da un mio forte bisogno emotivo, dalla necessità cioè di tornare a emozionarmi mentre danzo (o quando vado a teatro) e dall’urgenza di condividere tale motus con gli altri. La spinta principale da cui è germinato l’intero lavoro è stata comunque, in primis, la voglia di “dare possibilità” a un momento del tutto personale. Ero in casa durante il lockdown e avevo scelto – un po’ per svago, un po’ per darmi un tono in camera mia – di ascoltare un vinile di Strauss… Ne è discesa un’emozione forte, che mi ha spinta fino alla commozione, al pianto. Non potevo procrastinare: ho scelto di buttarmi e di seguire la rotta indicatami da quel segnale. In Walter mi servo così del valzer a mo’ di strumento per ricreare un ambiente di incanto e di incontro, pensato per gli esseri umani più disparati. Vorrei insomma dar vita a un ecosistema in cui i soggetti che lo abitano, che ne fanno esperienza, riescano a rintracciare il piacere dello stare insieme, quel puro e semplice ἡδονή di chi va in una ballroom per divertirsi o in piazza per incontrare un amico. Scambiarsi un sorriso, uno sguardo, a volte segreto, furtivo, mantenendo anche una certa segretezza. Come in una relazione fugace, in un flirt, in un incontro inatteso».

Lorenzo: «Variazione #2: Elogio alla Gentilezza si basa su una “drammaturgia scientifica”: il materiale presente nasce infatti da un processo di ricerca sviluppato nel corso del 2020. Partendo da alcuni laboratori con adolescenti, sono state create e selezionate 41 fotografie, disposte – mediante la somministrazione di un questionario e un’analisi quantitativa – in scala dalla meno alla più gentile e contestualmente suddivise in tre categorie. La specifica articolazione di questo corpus iconografico ha indotto nei soggetti una verificabile modificazione a livello percettivo in relazione al costrutto “gentilezza”. Le tre classi cui appartengono le foto sono COGNIZIONE, COMPORTAMENTO ed EMOZIONE. La sequenza categorica rivela innanzitutto come la gentilezza venga percepita attraverso l’emozione. Ma come esercitare l’emozione? Come fare in modo che essa diventi la linea di confine che permette di distinguere la gentilezza da altri comportamenti? Come condurla all’interno di processi corporei affinché il gesto, il movimento, in ultima istanza il corpo stesso, diventino gentili? Credo che una tra le possibili risposte (quella che ho scelto di sviluppare in quanto affine a me e al mio percorso) riguardi lo “spazio tra”, ossia quella dimensione liminale e apparentemente vuota tra due persone, tra due corpi, in realtà fortemente carica di immagini, sensazioni, aspettative, emozioni, pregiudizi, energia. In questo spazio entra ed emerge il concetto di “confine”: quanto l’Altra persona mi vuole vicino? Quanto lontano? Quanto e quando posso travalicare tale confine? Come posso farlo? Uno sguardo, l’avvicinamento di una mano, uno spostamento del proprio corpo in avanti o indietro, un respiro, uno stare accanto… Piccoli gesti, semplici, delicati, ma nondimeno densi e carichi di quell’ascolto, di quella profondità, di quello stato emotivo che consentono di dare sostanza, forma e colore all’inbetween. Obiettivo è incontrare davvero l’Altro, travalicando (simbolicamente) quelle linee di demarcazione (emotive più che fisiche) che ciascuno di noi possiede».

ph. Dario Bonazza

Come lo spazio pubblico diventa “agente destrutturante” (di forme e relazioni di potere), attivando canali di connessione e generando interferenze?

Laura: «Lo spazio pubblico che utilizzo è la piazza, intesa come luogo attraversato da miriadi di persone diverse che lì convergono. Lo spazio pubblico è per me un crocevia, un luogo di quotidiano scambio, vissuto sempre con sorrisi diversi, generazioni differenti: è un ambiente pregno di storia e di storie, che si vanno a costituire e dipanare giorno per giorno. Con Walter ho iniziato a dirottare la mia ricerca sul “cambio del punto di vista”, in relazione alla dualità pubblico/performer. La performance si crea infatti nell’ambiente che la ospita e chiunque sia presente è performer dell’opera stessa. Vorrei destrutturare ogni relazione che ci costringe in ruoli ben definiti e stabiliti una volta per tutte: il valzer, ad esempio, è in sé una struttura di potere… I danzatori dovrebbero attenersi a regole precise, spaziali e motorie. In Walter, perciò, sono partita da questo tessuto normativo, per la precisione dai tre dati all’apparenza più tangibili e restrittivi: il conteggio, il roteare in coppia e la relazione nello spazio. Approdo è stata la loro destrutturazione e la definizione di una nuova armonia entro uno spazio concentrico e attraente. La ricerca si muove così in un sistema coinvolgente pur nella sua rigidità, volendo creare un’esperienza totalizzante. Sono all’inizio di questo processo e so già che non è ancora giunto il momento di veder realizzato questo grande desiderio. Per ora, con Walter, mi sento di aver compiuto un primo, timido, passo all’interno di una vasta e stimolante nebulosa».

Lorenzo: «È una domanda davvero molto complessa, a cui non credo di poter dare una risposta certa. Considerando l’esperienza svolta in Lavanderia, grazie all’aiuto di Elisabetta Consonni, potrei forse dire che lo spazio pubblico non destrutturi tanto le forme, quanto piuttosto permetta di osservarle da una prospettiva altra, ritrovandole certamente, ma con qualità, spazi, tempi diversi da quelli della ricerca intima. Lo spazio pubblico allena e raffina lo sguardo, consente di osservare più declinazioni di un medesimo gesto, sensibilizza gli occhi, il corpo, la percezione. Non so quanto lo spazio pubblica crei “interfenze”: semplicemente amplia la visione e le possibilità di ricerca. Certo sposta il proprio immaginario, lo amplifica, costruisce un ventaglio maggiore di possibilità attorno a quanto si sta cercando (che sia un tema, un movimento, una relazione, un corpo, una sensazione, un’emozione), attivando così connessioni altre tra spazio, tempo, forma e qualità, tra ricerca e azione, tra spazio pubblico e spazio privato, tra Io e l’Altro. Ma non interferisce, semmai moltiplica».

La danza incontra la realtà virtuale: tre voci per Hydrocosmos

La danza incontra la realtà virtuale: tre voci per Hydrocosmos

Hydrocosmos è un’esperienza di realtà virtuale che racconta l’arrivo dell’acqua e l’emergere della vita cosciente in un angolo remoto dell’universo. Una narrazione astratta, presentata attraverso una sinfonia di corpi danzanti, immagini, suoni, luci e ombre. Il film in VR – diretto da Milad Tangshir e prodotto da Tecnologia Filosofica, in co-produzione con Coorpi e in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo – è parte del progetto onLive, cartellone diffuso sul territorio regionale, tra teatro e digitale. Se è vero – come afferma Simone Arcagni (docente presso l’Università di Palermo) – che «la tecnologia non sostituisce la performance dal vivo, bensì la potenzia», onLive mira proprio a questo: ibridare i linguaggi espressivi per sondare possibili traiettorie di sviluppo delle performing arts. Hydrocosmos è visibile al Museo Nazionale del Cinema di Torino, negli orari di apertura, dal 16 al 21 febbraio.


Ho avuto la fortuna di conoscere Francesca e Paolo grazie a una collaborazione tra Piemonte dal Vivo e Film Commission Torino Piemonte. La realtà virtuale rappresenta per me un’opportunità preziosa di sperimentare – grazie alle immagini in movimento – un territorio al di là del mezzo cinematografico. Mi offre cioè la possibilità di interrogarmi e di confrontarmi con il linguaggio visivo di un nuovo medium. Nello specifico di Hydrocosmos, ho usato la VR come campo di fusione fra corpo e immagine. L’atto del guardare mi affascina da sempre. E, in effetti, è una pista che percorro già da diversi anni (si pensi al mio precedente lavoro in virtual reality). Qui ho cercato di approfondire la relazione con la performance dal vivo, in maniera interattiva. La coreografia di Francesca e l’uso dello spazio invitano infatti lo spettatore a prendere parte attiva alla creazione, che si svolge entro la cornice del film, senza alcun taglio di montaggio. Questo flusso crono-topico ininterrotto permette a ciascuno di comporre la propria versione della performance, in una sorta di “coreografia dello sguardo”. Il paesaggio sonoro elaborato da Paolo, poi, intensifica l’esperienza, fornendole un’atmosfera ipnotica e aggiungendo dati acustici alla narrazione. Abbiamo prodotto questo progetto in un momento complesso, per cui vorrei ringraziare tutto il team di lavoro: in particolare, Stefano Sburlati, Aldo Torta, Giuseppe Saccotelli e lo staff di Piemonte dal Vivo e di Lavanderia a Vapore, che ci hanno accolti e supportati durante l’intero processo creativo

Milad Tangshir, regista cinematografico


A muovermi – e commuovermi – sin dall’inizio sono state la visione comune condivisa con Milad, la scommessa lanciata da Matteo Negrin e, ancora, la complicità creativa fin da subito instauratasi con una squadra che ha dato vita a un’intensa esperienza immersiva, tra cinema e performance. Nel dialogo costante tra danza e spazio visivo ho percepito la forza digitale del cinema: in Hydrocosmos lo sguardo, l’occhio, la vista, si incontrano, si toccano, proprio come accade nell’atto performativo. Grazie a Milad abbiamo come avvertito di essere toccati, in un certo senso “chiamati”, dallo sguardo della macchina da presa, fissa al centro dello spazio scenico, con i suoi 6 occhi disposti a 360°. Una presenza forte, che ha orientato il nostro sguardo, attivando una molteplicità di sensi: una costante messa a fuoco del problema della visione dello spettatore, che ascolta, riceve, cerca, vaga, si lascia portare. Ho lavorato a un piano coreografico spaziando tra adiacenze e prossimità, con l’intento di traghettare il fruitore tra correnti calde e fredde, in un arcipelago di atti performativi: l’apparire e il celare dei corpi e degli oggetti, la simultaneità delle azioni, i giochi di luci e di ombre come parti di una scrittura visiva e sonora in costante, cosmica, oscillazione, in un movimento di trasformazione dello spazio e del tempo. La sensazione che mi porto dentro – e che spero possa toccare lo spettatore – è quella di un viaggio onirico, realizzato senza la necessità di narrare una storia, se non quella che ci avvolge tutti quanti quando veniamo guidati dalle stelle.

Francesca Cinalli, coreografa e danzatrice / Tecnologia Filosofica


Era dicembre del 2019. Francesca ed io ci trovavamo ancora nel flusso creativo del nostro ultimo lavoro dedicato all’acqua, Sinfonia H2O, quando Piemonte dal vivo ci ha proposto di immaginare gli sviluppi di un possibile intreccio tra danza e cinema. Dopo aver sbirciato nell’archivio della Film Commission ci colpì un titolo, Star Stuff di Milad Tangshir: decidemmo così di andare a vedere il suo lavoro al Torino Film Festival. Da quel momento è iniziata un’avventura stimolante che si è dovuta confrontare con le complessità mutevoli del periodo pandemico. Non conoscevamo la VR: quando Milad ce ne ha parlato, ci è sembrato un medium intrigante perché rispondeva al nostro desiderio di ricerca sul confine dei linguaggi e all’esigenza di creare le condizioni ottimali per un’esperienza immersiva. Lavorando in sala, ci siamo subito resi conto che immagine, corpo e suono, attraverso la loro spazializzazione, potevano esaltare le qualità “live” della performance, restituendole in un nuovo e ulteriore canale linguistico. Dal mio punto di vista, il percorso è stato una scoperta continua: non potevo chiedere di meglio… Amo ricercare come se fosse la prima volta: oltre a immergermi in qualità di performer-musicista sul set allestito alla Lavanderia a Vapore, ho scoperto il mondo della post-produzione sonora, che considero il 50% del risultato finale. Che cosa mi ha più sorpreso? Il fatto che sia il lavoro artigianale analogico a fare la differenza nel sound-design. Anche in un’opera in VR.

Paolo De Santis, musicista e compositore / Tecnologia Filosofica

Ageism, the prejudice in the dance system

Ageism, the prejudice in the dance system

When I was originally approached to audition for the Dance On Ensemble in its pilot form I hesitated as I didn’t understand what the focus of age in dance had to do with me.  I was 46 years old, dancing in several productions as well as working as artistic assistant and rehearsal director to two different choreographers.  Age didn’t seem to have any bearing on my life or professional activities so why would I want to be in an ensemble that focused on age?  

Even in asking this question I recognised a possible unspoken shame at not presenting myself, my age, and my internalised history in this art form in a profound or proud manner.  

So, without dragging out this narrative too far, I auditioned, was accepted, and am currently the artistic director of the Dance On Ensemble which is in its 6th year of operation with funding from the federal government of Germany.  

I share these original thoughts and doubts as through my work with the Dance On Ensemble I came to understand how important it is for dancers who continue to choose to dance, specifically to dance in other makers work, to not only continue, but to thrive, learn and present their multiple talents to an audience.  

I hadn’t realised at the time of my original contact with the Dance On Ensemble that in several, if not most, structurally subsidised dance companies, be it classical ballet or contemporary dance theater, there is a pre-determined age limit for the dancers employed in these situations.  40 being the most common average of the “ageing out” of a performing career.

In my free lance ignorance I hadn’t realised this was an actual institutional practice.  I myself had never been employed in a ballet company or “stadt theater” situation and had never witnessed this ageism in contract form.  Offering a solution to this practice is one of the core motivations for the Dance On Ensemble.  One of many.

Working in a room with other dancers who have an equal amount of lived experience and dedication to continue working on their art form, through the adversity that any dance career presents, with the added courage of refusing to be told when to stop, was and continues to be, transcendent.  

To support this courage and curiosity, I have attempted to bring a curation of choreographic experiences that has several branches (for lack of a better visual).  My goal has been to present work that allows us to go thorough a process that is new and artistically solid.  As performers with up to 30 or more years of experience each this can be quite a challenge.  The one shared motivation we in the Ensemble all share is a desire to face new challenges, and the avoidance of an easy process or safe artistic choice.  And to have some fun.

For the current project we are working on Making Dances / Dancing Replies we have asked contemporary choreographers and artists to make reactions, responses, or replies to classic, radical modern performance works.   

Works that we have in our repertory for various reasons.

When I started in my role as artistic director of the Dance On Ensemble I knew that one of the first programs I would want to create was an evening of the early works of Lucinda Childs.  I have worked with Lucinda Childs as a dancer since 1991 and as her rehearsal director and assistant since 2009.  In this role I became aware of several of Lucinda’s dances that were no longer being performed.  Works that I read about, saw the choreographic scores for, and on rare occasions viewed the few films that existed of these dances.   Lucinda’s work in the 1970’s consisted of small ensemble creations focusing on the movement of bodies in space, using simple repetitive movements without musical accompaniment.  These Works in Silence as I call them, were profoundly radical for their time and an enormous shift in Childs’s own approach to making dance.  Leaving behind props, text, and assignments, hallmarks of her work at the Judson Dance Theater, she focused exclusively on pure movement and spatial patterns.  These dances created the beginnings of what would be her artistic signature and would have a profound effect on the dance world. 

For the program Making Dances / Dancing Replies I asked Enrico Ticconi and Ginevra Panzetti to make a work in reaction to what they experienced from Lucinda’s works.  They had attended rehearsals of these works, explored the visual scores and asked the dancers about their experience learning and executing these works.  From this information they dove into the idea of the core of the beauty of classical work.  What is the essence, the material, of classical beauty?  For them it was the matter, the matter of many classical forms, which is marble.  In their work titled Marmo they explore the work and the role of the worker in excavating marble from the earth and how the gestures and activities of these workers form abstract performative actions.  It also brings into view the idea of the hidden toil behind the finished product that we see and possibly take for granted in our everyday lives.  By highlighting the beauty, strength, concentration and action of this work they also managed to look back into the history of the work of Lucinda Childs and her early days with Judson Dance Theater which celebrated common activities and pedestrian movement.  However, Panzetti / Ticconi have elevated this commonality into a virtuoso expression of pure abstract dance.  Extreme patterns, rhythmic shifts and an added element of care for each other in very direct ways, catches from falls, assisting each other to rise from the floor and an almost intimate partnering.  All of which reflects the world that they, and we, are living in.  

It was important to me to give Enrico and Ginevra the opportunity to expand their choreographic range beyond the duet form and to work on other bodies.  The fact that these dancers have long histories and the continued curiosity to work with new makers was the perfect storm to allow Ginevra and Enrico the possibility to take risks, ask much from the dancers, and to have the dancers actively assist in the creation of this first work on other people.  

Lavandaria generously allowed for this experiment to take place.  The ability to trust and let the process play out was beyond any of our expectations.  The team was the perfect balance of being present and helping when needed and conversely allowing us to feel like the theater and rehearsal space was ours to use and play with without interruption or judgement.  This without any doubt allowed for the work to progress in a way that it could not have done so otherwise.

Ty Boomershine, Artistic Director Dance on Ensamble

Ageism, the prejudice in the dance system

Il pregiudizio dell’età nel sistema danza

Nota alla traduzione dal testo inglese: i termini usati sempre al genere femminile sono dovuti al fatto che “Marmo”, il progetto ospitato in Lavanderia, ha un cast di sole danzatrici in scena. 

Quando mi è stato chiesto di prendere parte all’audizione per Dance On Ensemble, nella sua prima edizione, la versione pilota, ho esitato: non capivo il focus della proposta relativa all’età né che cosa avesse a che fare con me. Allora avevo 46 anni, ero danzatore in diverse produzioni e allo stesso tempo ero anche assistente artistico e direttore delle prove per due diversi coreografi. La questione della mia età non sembrava pesare né sulla mia carriera né sulla mia vita privata; quindi mi chiedevo perché avrei dovuto prendere parte un’audizione per un ensemble il cui focus di lavoro è proprio ‘la questione dell’età’. Anche nel porre questa domanda ho riconosciuto una possibile vergogna inespressa nel non presentare me stesso, la mia età e la mia storia interiorizzata in questa forma d’arte in modo profondo o orgoglioso. Senza trascinare questa storia troppo a lungo, feci l’audizione e fui accettato e sono attualmente il direttore artistico de Dance On Ensemble, ora al suo sesto anno di lavoro, grazie alle sovvenzioni che provengono dal Governo Federale in Germania. 

Condivido questi primi pensieri e dubbi perché, attraverso il mio lavoro con Dance On Ensemble, sono arrivato a capire quanto sia importante per i danzatori e le danzatrici che continuano a scegliere la danza – specialmente quando scelgono di continuare a essere interpreti per altri – non solo di continuare ma di sviluppare, imparare e presentare i loro molteplici talenti durante le audizioni. 

All’inizio del mio lavoro con Dance On Ensemble non avevo ancora realizzato, che in molte – se non in quasi tutte – le compagnie strutturate e finanziate, siano esse compagnia di danza classica o contemporanea, esiste un limite di età predeterminato per i danzatori e le danzatrici assunte in queste realtà: 40 anni sono diventati l’età media definita “dell’invecchiamento” per una carriera da performer. Nella mia ignoranza da freelance, non avevo mai realizzato quanto questa fosse una pratica diffusa nelle istituzioni. Io non sono mai stato assunto in una compagnia di danza o in un teatro comunale, non ho mai subito né mi è stata mai proposta questa clausola sull’età nei contratti. 

Offrire una soluzione a questo tipo di pratica è una delle motivazioni fondanti del progetto Dance On Ensemble, una delle tante. Lavorare in sala con danzatori e danzatrici che hanno in egual misura esperienza di vita e di lavoro e dedizione per continuare a investire su questa forma d’arte, attraversando le avversità che ogni carriera legata alla danza presenta, con un tocco di coraggio nel rifiutare l’imposizione esterna del “è ora di fermarsi”, è e continua ad essere trascendentale. Per favorire questo coraggio e questa curiosità, ho cercato di portare, con la mia curatela, esperienze coreografiche che hanno diverse diramazioni (in mancanza di una visione migliore). Il mio intento è quello di presentare lavori che ci concedano di attraversare un processo che sia nuovo e allo stesso tempo artisticamente solido. Come performer che ha un’esperienza di oltre trent’anni, raggiungere questo obiettivo può essere alquanto sfidante. La motivazione condivisa all’interno dell’ensemble è il desiderio di porsi nuove sfide, evitare un processo facile o fare una scelta artistica cauta. E divertirsi. 

Per il progetto a cui stiamo lavorando, Making Dances / Dancing Replies abbiamo chiesto a coreografi e coreografe contemporanee di creare un lavoro che fosse al contempo una reazione, ma anche una risposta a coreografie radicali. Lavori che sono già nel nostro repertorio per diverse ragioni. 

Quando ho iniziato come direttore artistico in Dance On Ensemble, sapevo che uno dei primi programmi che avrei voluto ricreare sarebbe stata una serata intera dedicata ai primi lavori di Lucinda Childs. Ho lavorato con Lucinda Childs come danzatore dal 1991 e sono stato suo assistente e direttore delle prove dal 2009. Grazie a questa mia posizione mi sono reso conto che molti dei suoi lavori non erano più stati portati in scena. Il lavoro di Lucinda Childs, nel corso degli anni ’70, consisteva in creazioni per ensemble di numero ridotto, il cui focus fosse solo il movimento dei corpi nello spazio, usando movimenti ripetitivi e senza nessun accompagnamento musicale. Questi work in silence, come li chiamo io, risultarono profondamente radicali per quei tempi e costituirono un grande spostamento nell’approccio alla danza per Lucinda Childs. Lasciare da parte gli oggetti di scena, i testi, i compiti, è diventato il tratto distintivo del suo lavoro al Judson Dance Theater; Lucinda si concentrò esclusivamente sul movimento puro e su partiture spaziali. Queste danze diedero inizio a quella che sarebbe stata poi la sua cifra stilistica e influenzarono in modo profondo il mondo della danza. 

Per il programma Making Dances / Dancing Replies ho chiesto a Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi di creare un lavoro che fosse una reazione a ciò che loro hanno sperimentato dei lavori di Lucinda Childs. Enrico e Ginevra hanno assistito alle prove, esplorato le partiture visive e dialogato con le danzatrici circa la loro esperienza di apprendimento ed esecuzione di questi lavori. Grazie a questa raccolta di informazioni, si sono potuti immergere nel cuore e nella bellezza di un lavoro classico. Qual è l’essenza, quali sono le caratteristiche della bellezza classica? Per loro è stata la materia, il materiale usato in molta arte classica ovvero il marmo. Nel loro lavoro, il cui titolo è appunto Marmo, viene indagato il mestiere e il ruolo dei minatori nelle cave di marmo e come la gestualità e le azioni di questi lavoratori possano diventare una forma astratta e performativa. 

Il lavoro porta inoltre alla luce l’idea del duro lavoro alla base di un prodotto finito a cui spesso non viene data importanza nella vita di tutti i giorni. Sottolineando la bellezza, la forza, la concentrazione e le azioni di questo mestiere, Enrico e Ginevra sono riusciti a guardare la storia del lavoro di Lucinda Childs e i suoi primi momenti con la Judson Dance Theater che celebravano, portandoli in scena, movimenti di uso quotidiano e quotidiani. Inoltre Panzetti-Ticconi hanno fatto in modo di rendere visibili questi lavoratori comuni nell’espressione virtuosistica della danza astratta, usando elementi come moduli molto rigorosi, cambi di ritmo ma anche l’aggiunta dell’elemento cura e dell’attenzione verso l’altro: prese, cadute, aiutare l’altro ad alzarsi dal pavimento ecc…Tutti questi elementi riflettono il mondo in cui loro, e noi, viviamo. 

È stato importante per me, dare a Ticconi/Panzetti l’opportunità di ampliare il loro raggio di azione coreografica, andare oltre alla creazione di un duetto e lavorare con altri corpi. Il fatto che queste danzatrici abbiano una lunga esperienza e continua curiosità di lavorare per altri coreografi e altre coreografe, ha creato la ‘tempesta perfetta’ che ha dato loro la possibilità di rischiare, chiedere molto alle danzatrici e di avere sempre un supporto attivo alla creazione da parte delle danzatrici. 

La Lavanderia a Vapore ha generosamente creato le condizioni di possibilità affinché questo esperimento avvenisse. La capacità di avere fiducia nel processo creativo, lasciare che esso prendesse forma, è andata al di là di ogni nostra aspettativa. La squadra di lavoro ha creato un equilibrio perfetto tra l’essere presente e di aiuto quando necessario e allo stesso tempo ci ha fatto sentire che il teatro e le sale di lavoro erano nostre, da usare secondo le nostre necessità, senza nessuna interruzione o giudizio. Questo atteggiamento, senza dubbio, ha fatto sì che il nostro lavoro potesse avanzare in un modo che non avrebbe potuto generarsi altrimenti. 

Ty Boomershine, Direttore Artistico Dance on Ensamble / traduzione di Valentina Tibaldi – English version

Alla scoperta della Lavanderia a Vapore e dell’ambiente che la circonda con Lorenzo Bianchi Hoesch

Alla scoperta della Lavanderia a Vapore e dell’ambiente che la circonda con Lorenzo Bianchi Hoesch

Square è un’installazione interattiva che prevede un percorso all’interno di un luogo. Connessi a un sito web con il proprio telefono, guidati dal suono in cuffia, attraverso voci, paesaggi sonori e musiche, appoggiamo sul mondo uno sguardo differente che ha più a che fare con il possibile che con il reale. Il suono in cui si è immersi è iper-realistico in modo da generare un’impressione di alter-realtà. Niente a che vedere con la fantascienza o la realtà virtuale, ma piuttosto un sottile dirigere lo sguardo su un possibile sfasamento dell’intorno attraverso il suono.

Square è un’esperienza onirica e contemplativa al tempo stesso che si dispiega durante il percorrere.L’attraversamento di luoghi, resi ambigui da paesaggi sonori sovrapposti e stratificati, è un elemento chiave dell’esperienza.

Square è un meccanismo narrativo, è uno scatola vuota da riempire con contenuti sempre differenti provenienti dai vari luoghi che investe e abita. I contenuti, quindi, emergono direttamente dal posto per cui è concepita e a cui è, in qualche modo, dedicata.

La ricerca per Square comincia da lontano ed è molto personale.  Inizio a studiare il luogo, la sua geografia, il suo passato, la sua letteratura, le immagini, le evocazioni…Con l’aiuto dei produttori, attraverso consigli e indicazioni – in questo caso la Lavanderia a Vapore – mi immergo anche nel presente del luogo e, in parte, nel suo possibile futuro.

Per raccogliere i materiali sonori mi sposto poi in situ. Bivacco, abito, soggiorno e, come un fotografo aspetta la luce giusta per il suo scatto, io registro i suoni per ore ed ore, nel tentativo di cogliere quelle che Murray Schafer chiamava le toniche e le impronte sonore del luogo (a Collegno, per esempio, potrebbero essere i piccoli aeroplani che passano sopra le teste delle persone a passeggio, tutto il giorno). Incontro poi varie persone da intervistare, in qualche modo emblematiche per il racconto che ho deciso di scrivere come filo narrativo del percorso. Questi elementi ed altri più astratti, esotici e musicali sono le componenti base con le quali gioco e costruisco il mio lavoro.

Collegno mi ha accolto in maniera molto aperta e disponibile. Grazie a Carlotta Pedrazzoli e a tutta l’equipe della Lavanderia, il lavoro ha sùbito preso una direzione estremamente fertile. Sono arrivato per restare un paio di settimane, fare una serie di incontri e passeggiare per questo luogo che più di una persona, durante le interviste, ha definito ‘sospeso’. 

Nel restare giornate intere nei luoghi da conoscere, un universo sfaccettato e complesso è emerso in maniera autonoma, senza che io dovessi realmente cercarlo o costruirlo. I tre grandi periodi del posto a cui mi sono interessato: Certosa, Ospedale, Luogo d’arte, sociale e di studi universitari, sono in realtà negli occhi e nelle parole di tutti.

Quasi impossibile parlare di uno senza introdurre l’altro, evocare il secondo senza per forza riassumere brevemente il primo. Vi è sempre una contiguità tra i periodi, o una differenziazione da operare, o una ridefinizione ennesima da inventarsi, insomma la stratificazione spaziale e temporale, nella Collegno che ho conosciuto io e nelle parole delle persone che ho incontrato, è il cemento che tiene insieme i racconti e gli sguardi delle persone. Ne è quindi risultata un’opera corale, con molte voci, timbri, suoni, opinioni. Frammenti di molte esperienze sono organizzati nel racconto e in qualche maniera, astratta ma  a mio avviso coerente, hanno trovato una loro relazione nuova e autonoma.

Io mi trovo d’accordo con le parole di Nicolas Bourriaud che definisce l’artista come un ‘semionauta’, cioè qualcuno che naviga tra i segni del mondo che si trova intorno e il cui compito è costruire nuove relazioni tra di essi, e in effetti ‘Square’ è interamente basata su questo meccanismo.

Nel conoscere la Certosa, poi divenuta Ospedale ed ora Luogo super-eclettico, devo dire che mi sono trovato molto a mio agio nello scoprire che nuove relazioni tra le cose esistevano già ed erano lì ad aspettarmi.

Dopo un po’ di tempo speso nel luogo a camminare e intervistare, infatti, le connessioni tra le varie associazioni e Onlus, il passato recente, il luogo d’arte splendido che è la Lavanderia, i ristoranti, l’università, il liceo, l’asilo nido e l’utilizzo che i cittadini fanno di quel parco, sono risultati ai miei occhi connessi e coerenti, ma di una coerenza sotterranea e costruita con cura e quindi non evidente a un primo sguardo. Legami solidi sottendono tutte le attività del posto, ed è un piacere scoprirne il disegno e i contorni attraverso la calma e l’ascolto necessario.

Square è scritta per un luogo e resta per sempre in quel luogo, come un’opera di land art invisibile; la mia speranza è, quindi, che si inserisca in questa rete umana e associativa complessa e intrigante che ho scoperto, e che crei, nel tempo, delle sue autonome relazioni.

Lorenzo Bianchi Hoesch, compositore e artista sonoro

La foto è di Andrea Macchia.