30 Nov 2022

“Scrivere lo spazio” #1 | Buon compleanno, Lavanderia!

Nel corso delle ultime settimane, la Lavanderia a Vapore è stata “teatro” di due importanti avvenimenti: dapprima – il 12 novembre (tra astronauti, amache e dance floor) – si è scatenata nei festeggiamenti dei 7 anni di gestione Piemonte dal Vivo, che cura appunto dal 2015 – in qualità di capofila – le attività del Centro con un Raggruppamento Temporaneo di Organismi, costituito attualmente anche da Coorpi, Didee, Mosaico Danza e Zerogrammi. Qualche giorno più tardi, tra il 18 e il 19, l’antica ala del Manicomio di Collegno ha ospitato un eccentrico e trasognato Research Camping, co-progettato insieme a Workspace Ricerca X, aperto all’immaginazione collettiva di artistə e curiosə. Entrambe le esperienze, lavorando sulla ridefinizione dei luoghi e delle liturgie dello stare (con un ritmo più accelerato nel party, più lento invece nel “campeggio stellare”), si sono configurate come forme virtuose di “scrittura dello spazio”, pensate per invadere il palcoscenico e stimolare drammaturgie di comunità. Ma cominciamo dalle 7 candeline…

A partire dalle ore 15 e fino a notte inoltrata, la Lavanderia a Vapore e la circostante cornice del Parco della Certosa sono state letteralmente invase, solcate, o per meglio dire “scritte”, “coreografate” – tra formati immersivi e spazi diffusi -, da una ricca pletora di corpi danzanti. Per un quadro completo sul long-durational-event, clicca qui.

In generale, al centro di questa giornata di celebrazioni collettive, ça va sans dire, l’immancabile nozione di cura, bussola delle attività del Centro di Residenza per la stagione in corso. Dalla cura nella micro-politica del corpo si è pian piano passati alla cura nella macro-politica delle relazioni interumane, in una festa che ha preso progressivamente forma fino all’epilogale eccitazione dionisiaca. Se nel pomeriggio l’amaca di Paola Colonna ha reso possibile una sorta di lieve “ablazione” dell’io, la tenda di Elisabetta Consonni e Fatima Ferro ha stimolato invece al proprio interno un’indagine sui saperi del corpo provenienti dalla tradizione non-occidentale. Il tutto – grazie alla collaborazione con Cooperativa Atypica – negli spazi dell’ex Hammam di Villa 5, luogo tradizionalmente deputato alla cura di sé (e sede peraltro di una lecture-performance di Giorgia Ohanesian Nardin). Collateralmente, si è svolto – tra la Stireria e il Parco – un laboratorio sulla lentezza per gruppo ristretto di partecipanti, all’interno del quale Consonni e i suoi collaboratori sono riusciti a trasmettere una certa qualità di slow-motion, di rallentamento fisico e creativo da paradosso zenoniano, sfociato poi in un allunaggio itinerante per le strade della città. Antipasto degli eccessi serali è stato infine il DISCOBOX di Fabritia D’Intino e Federico Scettri, accolto nel tepidarium di Villa 5, un interessante esperimento immersivo a cavallo tra l’installazione interattiva e il dj-set in cuffia.

A nutrire l’intero progetto, un fondamentale interrogativo: in che modo, da una ri-centratura del proprio corpo, è possibile ri-concepire la relazione con l’altro? Altrimenti detto: dalla cura del sé, che diventa cura del corpo, come si approda alla cura dello spazio e di chi lo abita? È in effetti la cura a consentire l’edificazione di mondi possibili, l’emersione di riflessioni sul tema del piacere fisico, la generazione di pause di rallentamento del tempo. Di quel prezioso tempo “non produttivo” della festa avvinto a filo doppio all’idea – provocatoria e paradossale – di wildiana memoria di “inutilità dell’arte”.

Acme dei “trattenimenti”, INTO THE OPEN di Voetvolk, collettivo di danza e performance con base tra Anversa e le Fiandre. “Un folle concerto di danza – così lo ha definito Ewoud Ceulemans sulle colonne del «De Morge» – in cui tre musicisti punk e quattro performer dalle gambe snodate danno vita a una festa selvaggia”. I sette protagonisti in scena incarnano il groove e condividono con il pubblico in sala l’energia della musica. Spronandosi a vicenda con il krautrock ruffiano o con il tema ripetitivo dei Can incrociato all’alta tensione dei Chemical Brothers, la formazione è riuscita a invitare tutti i partecipanti a “un salto collettivo […] nel limbo”.

concept Lisbeth Gruwez e Maarten Van Cauwenberghe
coreografia Lisbeth Gruwez e performer
performance Francesca Chiodi Latini, Celine Werkhoven, Artemis Stavridi, Misha Demoustier, Maarten Van Cauwenberghe, Frederik Heuvinck ed Elko Blijweert
musica Dendermonde
drammaturgia Bart Meuleman
repetitor Francesca Chiodi Latini
light design Yann Windey
costumi Jean-Paul Lespagnard
in collaborazione con Muriel Kunkel e Marcelo Chaviro
suono Bart Van Immerseel
tecnico Kevin Deckers
produzione Voetvolk vzw
coproduzione KVS – Royal Flemish Theatre, AB – Ancienne Belgique, Theater Im Pumpenhaus, Dansens Hus Oslo & Vooruit Ghent

INTO THE OPEN – da un lato chiusura del compleanno di Lavanderia – ha funto tuttavia al tempo stesso anche da lancio della rassegna diffusa di danza contemporanea We Speak Dance, ideata da Piemonte dal Vivo sul territorio regionale. A tal proposito è nata – sulla scia di How do you spell dance? – una redazione “errante” di giovani penne (che seguirà alcune tappe del progetto) provenienti dal DAMS/Università di Torino e dalla Scuola Holden, cui viene affidato il compito di tradurre in parole e immagini la visione coreografica, sperimentando svariati formati e output. Ecco qui di seguito i loro contributi per questa prima data:

A mo’ di entrée, in 600 battute
di Federica Siani

Quando i confini vengono meno ed il limitare di territori vari (e vasti) è trascurato. Quando la certezza di cosa sia (o non sia) la danza vacilla. Quando il suono di due chitarre e di una batteria prende ulteriore vita attraverso chi si esibisce solamente con il proprio corpo, ma che in realtà anche canta e anche suona. Una performance totalizzante, un concerto performante che si fa danza ed una danza che si fa concerto. Una prova che si colloca al confine tra una disciplina e l’altra, rendendo necessaria una sospensione dei generi, e che prevede l’amalgamarsi di diversi campi artistici. Anche questo è stato Into the Open, l’apertura della rassegna We Speak Dance del 12 novembre 2022 presso la Lavanderia a Vapore.


Corpi di nebbia
di Martina Vianovi

La prima cosa è la nebbia.

Quella fuori (inizia a far freddo, brina sui prati qui attorno) e quella dentro, sinuoso regalo delle macchine del fumo. Le due brume ci lusingano con false aspettative: che ad attenderci sia uno spettacolo morbido e sospeso, in qualche modo velato.

Invece a questo show piace mettere le cose in chiaro. Lo fa subito, sputando fuori dal retropalco i performer uno ad uno, ciascuno a prendersi il proprio tempo sotto la luce geometrica dei neon colorati. Ci vengono incontro con un’aria divertita e un sorriso da flirt, ci guardano, si guardano, e questo palleggio suggerisce un gioco sottile — Non sapete cosa vi aspetta. Noi sì.

Non è solo danza, questa. È concerto e danza insieme, senza dubbio e senza confini, la batteria che si prende un terzo di palco e i chitarristi che si annodano ai danzatori in una ragnatela di movimenti elastici e dita su corde elettriche e bacchette indiavolate su tom e rullanti. Alla coreografia piace lasciare spazio al dubbio, invece: che non sia gabbia ma solo suggerimento, una raccomandazione da leggere negli accenti dei  corpi — una spalla improvvisa, un ginocchio di lato, la mossa repentina di un fianco — ma sempre con un margine di libertà da riempire a piacimento. E che a piacimento viene riempito.

Hanno l’aria di non toccarsi mai, queste creature da palco, anche quando si toccano. Restano a distanza anche vicinissimi, quasi un campo magnetico li proteggesse dal respiro altrui, ballano un gioco interiore con se stessi più che con gli altri, come quando le feste iniziano e l’imbarazzo invischia i movimenti. Ma lo spettacolo dà un colpo di coda e il loro confinarsi si sovverte in un rallenty: alcuni si spogliano di qualche indumento, eppure non sono solo pezzi di stoffa a rimanere indietro, è un vero e proprio liberarsi. Un rivelarsi. Da lì, la dinamica è ribaltata: adesso sì che si toccano, anche da lontano. E lo sappiamo, è nel toccare che qualsiasi festa inizia davvero.

È difficile restarsene a chiappe incollate alla sedia con questa musica, questo rock che sbatte sulle pareti e vibra sulla nostra pelle e scende giù nelle orecchie, eppure a farci desiderare il movimento non è il palloncino gigante che hanno liberato in platea perché giocasse con le nostre braccia e non è neanche quel flirt di sguardi, è che questi hanno l’aria di divertirsi sul serio. Se il pubblico lasciasse la sala, se sciamasse via dagli spalti e fuori dalla Lavanderia a vapore, se togliesse la brina dal tergicristalli e volgesse verso casa, si spogliasse del cappotto, entrasse nel pigiama, rispondesse al miagolio del gatto o allo scodinzolio del cane con uno sbadiglio e si mettesse a dormire per prepararsi all’indomani, nel frattempo questi matti non farebbero una piega, sarebbero ancora qua a suonare, a ballare, a farsi attraversare il corpo di energia e a spararla fuori, ad agganciare le note alla colonna vertebrale per trasformare le terminazioni nervose in frastuono di movimenti.

Forse stava proprio lì, il cuore di tutta la faccenda — a un certo punto lo capiamo. A fine spettacolo, ai bis e ai tris invocati a gran voce si impasta un invito a raggiungere lo spazio scenico. Di più: a invaderlo. Ma è l’invasione di un luogo già nostro, anche se ancora non lo sapevamo. È la festa ultima e definitiva, perché dentro quella musica forsennata entriamo tutti ora, la settantenne della seconda fila e l’adolescente venuto giù dall’ultima, corrono fra i cavi e gli strumenti a mescolarsi coi performer, coi musicisti, con la benedizione del sudore e con il sentire di quei corpi vivi finalmente, inchiodati, o stanchi o vecchi o ridicolmente giovani, ipotetici, mancanti, dimenticati, ma liberi adesso, e senza censure e senza lacci a trattenerli.

Corriamo tutti in centro palco, e questo era il dove a cui approdare: Into the open. A cielo aperto, in bella vista, allo scoperto.

La prima cosa era la nebbia.

Ma dentro ci abbiamo visto benissimo: la festa esplosa dei corpi da abitare. I nostri corpi, tutti i corpi.


INTO THE OPEN. Vale a dire una danza folle e dirompente, dai ritmi Punk
di Michele Pecorino

Tra la nebbia autunnale, che si poggia live e silenziosa sul ciottolato del parco della Certosa , si distinguono chiaramente gli elementi strutturali della Lavanderia a Vapore. Le sue ampie finestre lasciano filtrare all’esterno una luce cangiante, diversa da quella a cui si è usualmente abituati. Gli ultimi passi sono calamitati dal chiacchiericcio quasi trepidante, proveniente dal Foyer. Una volta dentro l’atmosfera che si respira è quella di festa. In questo sabato 12 novembre, il clima caldo e coinvolgente, creatosi sin dal primo giorno della fondazione della Lavanderia a Vapore, è più che necessario per festeggiare il suo genetliaco. Il pomeriggio, già ricco di eventi, non è potuto che tradursi in una serata fuori dalle righe, con lo Spettacolo Into The Open. L’opera è frutto della compagnia di danza e performance Voetvolk. Gruppo che nasce dall’idea di due danzatori quali Lisbeth Gruwez & Maarten Van Cauwenberghe.

L’avvenimento spettacolare, oltre ad inserirsi all’interno della cornice degli eventi per il settimo anniversario dell’istituzione, ha inaugurato  la rassegna di danza contemporanea We Speak Dance. Questa rassegna diffusa sul territorio regionale è curata dalla fondazione Piemonte dal Vivo. Entrando in sala, lo spettatore, sin da subito, si è trovato davanti ad una scena alquanto insolita. Forse molto distante da quella che qualcuno si sarebbe immaginato pensando ad uno spettacolo di danza. Il classico biglietto, recante la fila e il numero assegnati, non avrebbero mai fatto supporre ad un interesse, da parte dei performer, per un coinvolgimento attivo. Su di una piattaforma mobile, grazie alle ruote di cui è dotata, è posizionata una batteria dalle dimensioni generose. Non appena tutti hanno già preso posto, a comparire dal fondo della scena è il batterista che, stappata una lattina di birra e messosi comodo, inizia ad incalzare con ritmi punk. Seguendo il groove, scandito dalla batteria, fanno il loro ingresso un bassista e un chitarrista. L’essere introdotti da questo groove, sempre più arricchito, sembra quasi rimandare alle dinamiche dei Leitmotiv wagneriani. Per ultimi fanno la loro comparsa, sempre dalle quinte, quattro danzatori dai movimenti fluidi. Sembrano incarnare, con i loro corpi snodabili, il ritmo folle della musica. La carica d’adrenalina nello spettatore viene fatta crescere sempre più. L’azione in scena si crea in relazione con quella che è la presenza dello spettatore. Il pubblico occupa, legittimamente, quella dimensione aggressiva che potrebbe fare pensare ad un concerto Rock o Punk. Gli stilemi, oramai classici che sono rientrati a tutto diritto nel linguaggio riconosciuto di questa musica, si interfacciano con nuovi orizzonti comunicativi, con nuovi codici espressivi. La danza frenetica segue un climax che si specchia nello spettatore attraverso la sua esperienza personale, ben radicata. Non si fa fatica a ricondurre quello che si sta ascoltando ad altre esperienze musicali che hanno segnato un epoca culturale. Il terreno fertile su cui si fa strada il groove di Into The Open,  è lo stesso spazio sonoro prolifero ed entusiasmante generato dall’ascolto dei Ramones dei Nirvana, di Jimi Hendrix.

Il ritmo, nella sua crescita costante, è soprattutto reso attraverso l’attenta partitura ritmica delle luci. Si è così all’interno di un luogo dove la particolare compenetrazione tra panorama sonoro e quello visivo, crea uno spazio. Una relazione. Per la costituzione di questo spazio, naturalmente, un’importanza rilevante l’assumono i corpi. Corpi attraversati da un movimento pre-esistente e che è quasi visibile negli attimi precedenti all’inizio dell’evento.  La presenza dei corpi rivendica la necessità di andare oltre. L’interagire di codici e linguaggi apparentemente diversi, permette di affrontare un discorso di senso che riguarda, da vicino, il tema della presenza.Un discorso cosciente dei costrutti del corpo e che ci lavora, per aprire una nuova riflessione.

I movimenti accattivanti e provocanti risuonano nel pubblico, come una carica dirompente. I performer alternano momenti diversi. La partitura del movimento si struttura attraverso relazioni differenti tra luce e danza. Un primario momento di rottura della barriera tra il pubblico e la scena, è quando la piattaforma sulla quale è posta la batteria, viene tirata in avanti. Altro momento, altamente coinvolgente, è il lancio sul pubblico di un enorme palloncino di gomma. Gli spettatori iniziano a farlo rimbalzare senza sosta. Il movimento lento e leggero del pallone, che a tratti ricorda la leggerezza della nebbia che nel frattempo scende più fitta fuori, entra in stretto contrasto con la musica dai tratti spigolosi e taglienti. Lo spettatore cessa di essere assoggettato alla sua pars costruens interiore e si getta a capofitto nella relazione con altri corpi. Questo avviene gradualmente: prima sospingendo il palloncino e dopo gettandosi direttamente sullo spazio scenico. La scrittura scenica si fa dunque cangiante e travolgente, in una performance che conosce la strada da cui proviene e che non ha timore delle vie inesplorate che le si aprono d’avanti.


Allo scoperto
di Maria Rosaria Visone

Il palco come una mente appena sveglia: uno spazio quasi ordinato, sgombro ma non troppo, pronto per essere attraversato e vissuto, mentre una leggera foschia e uno strano silenzio lo invadono.

In questa calma, dal fondo della scena, sopraggiunge una figura. È come un segnale: il primo pensiero della giornata. Un pensiero leggero, disinvolto: tranquillamente, raggiunge la sua postazione, stappa una lattina di birra, sorseggia ed è subito pronto a partire. Si tratta di Frederik Heuvinck, batterista e percussionista della compagnia belga Voetvolk, colui che scandirà il tempo e il ritmo della performance e del gruppo. Ma Frederik non è solo: ad accompagnarlo e a creare con lui una vera e propria “macchina ritmica”, i due chitarristi Elko Blijweert e Maarten Van Cauwenberghe. Poi, come nella mente ad un pensiero se ne accumulano tanti altri, anche sul palco, accanto a queste prime tre figure, se ne avvicendano altre più “sfocate”: sono le tre danzatrici Artemis Stavridi, Celine Werkhoven e Francesca Chiodi Latini, insieme con il danzatore Misha Demoustier.

Into the open si apre così al pubblico della Lavanderia a Vapore di Collegno, con estrema naturalezza e spontaneità, nel giorno del suo settimo compleanno. Una pacatezza che poi si trasforma in un vortice inarrestabile, che non dà adito a pensieri negativi: può solo catturare e attraversare vigorosamente e in profondità gli spettatori e le spettatrici.

I/Le performer si palesano alternandosi in sfilate, invadendo progressivamente lo spazio, quasi sfidando la realtà che si apre di fronte a loro. Sfacciatə, sembrano inizialmente voler nascondere le loro personalità, le stesse che il pubblico, durante la performance, non potrà fare altro che riconoscere e adorare. Perché ogni performer rappresenta il mondo tutto, nelle sue peculiarità, nei suoi innumerevoli colori e nelle sue molteplici forme e sfaccettature. Sono come noi tuttə vorremmo essere: liberə dai preconcetti, dalla paura di essere giudicatə o di mostrarci per ciò che siamo realmente. E, come balzati fuori dalle tenebre dopo tanto tempo, basta loro un momento, un attimo, per rivelare tutta la loro essenza e potenza quasi sovrumana. Consapevoli di avere gli occhi del mondo addosso, finalmente si mettono a nudo, allo scoperto, senza filtri. Ostentano, mettono a soqquadro, lottano, producono sinergie ma anche illusioni.

Corpi, voci e musica compongono insieme sulla scena un ineluttabile compromesso legato alla vita: non può esistere forza senza momenti di debolezza e non può esserci fervore se prima non si attraversa la tranquillità. In questo alternarsi di emozioni, la musica rock incontra necessariamente la danza: una danza non codificabile o classificabile, una danza che esprime semplicemente un bisogno fisiologico. È il bisogno di muoversi, di dare respiro al proprio corpo in più direzioni, individualmente e/o con altre persone, in connessione con i/le performer.

Il palco diventa così anche il riflesso dei nostri impulsi più animali, quelli che quotidianamente mettiamo a tacere per restare saldi e stabili in superficie. E da luogo ordinato e sgombro, la nostra mente non può che popolarsi di nuovi input e stimoli: pubblico e performer si incontrano per partecipare insieme ad una grande festa, per creare un disordine “scomodo” alle vite ordinarie. È come un rito euripideo, dalle forme e dalle melodie tutte dionisiache. Una volta concluso, di esso restano dubbi, dilemmi e interrogativi, ma non hanno un sapore amaro: tutt’altro, sono accolti e avvolti da un’energia autentica, inaspettata, che permea e sopravvive irrimediabilmente nell’animo e nella mente di chi l’ha vissuta.


E tu, lo ricordi quand’è stata l’ultima volta?
di Giorgia Borgioli

Quand’è stata l’ultima volta che hai mosso il tuo corpo senza pensare a niente?

Quand’è stata l’ultima volta che hai agitato la testa così forte da non renderti più conto di ciò che era intorno a te?

Quand’è stata l’ultima volta che le gambe hanno molleggiato sul pavimento senza controllo?

Loro, quei quattro ragazzi sul palco, lo sanno come fartelo ricordare.

Lo sanno così bene che compaiono sul palco sfacciati, disinvolti come se davanti a loro non ci fosse una platea di persone, ma solo un gran desiderio di perdersi nella musica senza pensare.

Arrivano, e uno dopo l’altro si aggiungono alla musica. Iniziano a muoversi tra i piatti della batteria, tra l’asta del microfono disposti sulla scena; i muscoli si lasciano intravedere tra shorts di jeans, canottiere di cotone e strass.

Fidatevi di noi, qui c’è solo da divertirsi, sembrano dire.

E allora tu, tra il pubblico, ti fidi davvero: la tua testa inizia a muoversi insieme alla batteria, insieme a quei quattro folli che saltano di qua e di là sul palco, scattano e poi si rilassano a ritmo di musica.

In un attimo la platea è inglobata nel ritmo, il teatro è trasformato in una discoteca anni ’90.

La libertà è un teatro popolato di luci al neon e musica a palla.

Un’enorme pallone rosa volteggia tra il palco e la platea.

Quando loro sentono che l’energia si sta esaurendo, ecco che la palla in lattice viene lanciata verso il pubblico che così si ricarica subito di energia e colore.

La musica dance aumenta di volume e forza fino a un limite che sembra essere fatto per essere superato.

E allora superiamolo questo limite, dicono loro.

Tutto è festa. Tutto è energia. Tutto, qui dentro, è materia viva che pulsa.

Si respira libertà. Qui la felicità è un fianco che sbatte contro l’altro e endorfine che si disperdono per tutto il teatro.


e
Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE