Proviamo ad attivare un processo di traduzione, a creare qualcosa…
Salvo Lombardo è l’artista scelto per una sperimentazione al Liceo Alfieri di Torino dal progetto Media Dance +, estensione su scala europea dell’omonimo percorso di innovazione didattica curato dalla Lavanderia a Vapore: un video-racconto dell’esperienza, svoltasi tra l’aprile e il maggio scorsi.
Il 25 maggio scorso, a Genova presso Casa Paganini – InfoMus, il progetto Danzarte è stato protagonista del laboratorio organizzato da Compagnia di San Paolo nell’ambito del Cultural Wellbeing Lab, per favorire nel nord-ovest lo sviluppo di nuove competenze e progettualità partendo dalla consapevolezza del profondo impatto della cultura sul benessere di persone e comunità.
La pittrice e artista visiva polacca, nata a Opoczno ma con base a Torino, autrice dei murales campeggianti sul muro di cinta della Lavanderia a Vapore, racconta la propria esperienza di “traduttrice simultanea” di alcune performance recentemente svoltesi a Collegno. Può la danza trasformarsi in traccia iconografica?
ph. Andrea Macchia
La mia volontà di trasformare il gesto coreografico in atto pittorico è venuta a galla circa vent’anni fa: praticavo danza Butō in un gruppo diretto da Stefania Lo Maglio; proprio in quel frangente realizzai i miei primi lavori sul corpo in movimento. Esperienza fondativa in tal senso è stata la collaborazione con la danzatrice e coreografa Silvia Moretti: durante la performance, direttamente in scena, captavo il gesto dei performer, lo interpretavo e lo riportavo a segno su lunghi rotoli di carta.
Catturare il movimento con la pratica della pittura è da sempre una delle sfide che più mi affascinano. Prediligo la pittura dal vero, di soggetti animati o situazioni in evoluzione, per i quali non esistono ripensamenti. L’errore risulta infatti inscritto in questo tipo di pratica, parte integrante del suo esito finale. Ma qualora mi accosti alla danza – che è già di per sé una forma d’arte, una diretta espressione del corpo articolata diacronicamente nel tempo – devo essere ancor più concentrata per poterla ritrarre, ancor più veloce, cercando di catturare l’essenza di ciò che essa trasmette. È un ulteriore stimolo per il mio lavoro, un ottimo allenamento.
Con Chiara Bersani, Silvia Gribaudi e Daniele Ninarello ho vissuto tre momenti stupendi in Lavanderia. Munita di una canna di bambù come prolunga, estensione, del mio pennello, ho dato vita ad altrettanti murales: una sequenza di Daniele danzante (semplicemente lo seguivo con lo sguardo per poi restituirne in scioltezza il movimento o quantomeno ciò che riuscivo a coglierne), dopodiché un vero e proprio ritratto di Chiara, in posa sul prato, e infine – pochi giorni fa – il segno depositato per PESO PIUMA – solo, la performance multidisciplinare di Silvia realizzata in occasione della serata conclusiva del progetto SWANS NEVER DIE, all’interno di Interplay Festival.
Si può “danzare” un’opera d’arte? È possibile percepire un quadro con sensi diversi dalla vista? Può la visione di un’opera d’arte essere cura per il corpo? L’approccio applicato da noi coreografe a sostegno del progetto DanzArte ha l’obiettivo di accompagnare ogni individuo in un’esperienza estetica capace di integrare risorse emotive e cognitive. Alla base della nostra proposta risiede la concezione di corpo inteso sia come esperienza sensoriale sia come dimensione conoscitiva interiore. Questo orientamento e il metodo utilizzato sono frutto di una pluriennale esperienza in ambito somatico, coreutico e terapeutico, sperimentato in diversi contesti: formazione e produzione con danzatori professionisti e amatori, nell’ambiente scolastico a partire dagli 8 anni e con varie declinazioni della fragilità.
Ispirandosi alle scoperte in ambito neuroscientifico[1] che offrono nuove prospettive sia in ambito performativo che in quello pedagogico, il nostro approccio, utilizzato all’interno del progetto DanzArte, fa riferimento ai forti legami tra l’ambito dell’apprendimento per imitazione motoria e l’ambito della neuroestetica che ha come oggetto di studio le basi biologiche dell’esperienza estetica [2]. Considerando la persona come fine cui tendere e il processo come mezzo per raggiungere l’interezza dell’individuo, proponiamo lo sviluppo di azioni che radichino in una pedagogia somatico-immaginale, capace di portare i fruitori a sperimentare una pratica completa e profonda, orientata a una traduzione cinestetica delle opere d’arte ponendo in dialogo arti visive e movimento/danza.
Raffaello, Madonna d’Alba, 1510, olio su tavola
Luca Cambiaso, Riposo durante la fuga dall’Egitto, 1527-1585, olio su tela
Il nostro orientamento si sviluppa in una narrazione semplice ma approfondita dal punto di vista tecnico e linguistico con un utilizzo sapiente della parola, in grado di orientare alla sensorialità e alla fluidità motoria, qualità fondamentale per garantire un’esperienza di benessere. Attraverso alcune semplici pratiche e l’ascolto delle connessioni suscitate dalla visione, si può arrivare a modulare la propriocezione corporea, le risposte gestuali ed emotive, alimentando il complesso processo di costruzione del proprio sé.
Pertanto, in riferimento al progetto DanzArte, abbiamo tradotto graficamente le linee di movimento ispirate alle opere di L. Cambiaso originando un collegamento empatico e formale [3]. Successivamente abbiamo organizzato partiture gestuali a loro ispirate, validate dai medici del dipartimento di cure geriatriche dell’Ospedale Galliera di Genova, affinché potessero rispondere a diversi livelli di complessità, tenendo in considerazione alcuni elementi tecnici: innanzitutto, allineamento posturale e organizzazione nello spazio, con una particolare attenzione alle strutture osteo-articolari e alla coordinazione motoria.
In conclusione, abbiamo cercato di riportare la parola “estetica” alla sua origine, aisthesis, alla percezione della bellezza attraverso i sensi, la cui radice rimanda alla nozione di “accogliere” e “inspirare”: quel trattenere il fiato dalla meraviglia che è risposta primaria [4]. Collaborare al progetto DanzArte ha significato per noi porre nuovamente al centro il senso di estasi e rivelazione, guardando le cose nella loro unicità sensibile e facendo riemergere in ogni corpo la possibilità stessa di rivelarla giacché la Bellezza è una necessità ontologica, che fonda il mondo nella sua molteplice particolarità sensibile.
Francesca Cola e Debora Giordi, coreografe
NOTE [1] V. Gallese, L. Fadiga, L. Fogassi, G. Rizzolatti, Action Recognition in the Premotor Cortex, «Brain», II, 119 (1996), pp. 593-609; G. Rizzolatti, L. Fadiga, V. Gallese, L. Fogassi, Premotor Cortex and the Recognition of Motor Actions, «Cognitive Brain Research», II, 3 (1996), pp. 131-141; D. Freedberg, V. Gallese, Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic Experience, «Trends in Cognitive Sciences», V, 11 (2007), pp. 197-203. [2] B. Calvo-Merino, D.E. Glaser, J. Grèzes, R.E. Passingham, P. Haggard, Action observation and acquired motor skills: an FMRI study with expert dancers, «Cereb Cortex», XV, 8 (2005), pp. 1243-1249. [3] S. Zeki, Inner Vision. An Exploration of Art and the Brain, Oxford University Press, Oxford-New York 1999, p. 126. [4] J. Hillman, A Blue Fire, Adelphi, Milano, 1996, p. 440.
Laura Gazzani e Lorenzo De Simone, giovani danzatori e coreografi recentemente impegnati in progetti di residenza presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, penetrano all’interno delle rispettive poetiche coreografiche, provando a riflettere sulla funzione in esse esercitata dalla sfera emotiva e dallo spazio pubblico di relazione.
In che modo la tua ricerca artistica si lega alla volontà di “ingaggio” emotivo delle persone a cui ti rivolgi o con le quali ti interfacci? Nella tua creazione, infatti, si affida uno specifico ruolo alle emozioni, intese quali “strumenti metodologici” (una visione – questa – particolarmente interessante, specie considerando la prospettiva corpo-centrica a cui di norma le pratiche di danza vengono ricondotte).
Laura: «Inizio col dire che Walter è nato da un mio forte bisogno emotivo, dalla necessità cioè di tornare a emozionarmi mentre danzo (o quando vado a teatro) e dall’urgenza di condividere tale motus con gli altri. La spinta principale da cui è germinato l’intero lavoro è stata comunque, in primis, la voglia di “dare possibilità” a un momento del tutto personale. Ero in casa durante il lockdown e avevo scelto – un po’ per svago, un po’ per darmi un tono in camera mia – di ascoltare un vinile di Strauss… Ne è discesa un’emozione forte, che mi ha spinta fino alla commozione, al pianto. Non potevo procrastinare: ho scelto di buttarmi e di seguire la rotta indicatami da quel segnale. In Walter mi servo così del valzer a mo’ di strumento per ricreare un ambiente di incanto e di incontro, pensato per gli esseri umani più disparati. Vorrei insomma dar vita a un ecosistema in cui i soggetti che lo abitano, che ne fanno esperienza, riescano a rintracciare il piacere dello stare insieme, quel puro e semplice ἡδονή di chi va in una ballroom per divertirsi o in piazza per incontrare un amico. Scambiarsi un sorriso, uno sguardo, a volte segreto, furtivo, mantenendo anche una certa segretezza. Come in una relazione fugace, in un flirt, in un incontro inatteso».
Lorenzo: «Variazione #2: Elogio alla Gentilezza si basa su una “drammaturgia scientifica”: il materiale presente nasce infatti da un processo di ricerca sviluppato nel corso del 2020. Partendo da alcuni laboratori con adolescenti, sono state create e selezionate 41 fotografie, disposte – mediante la somministrazione di un questionario e un’analisi quantitativa – in scala dalla meno alla più gentile e contestualmente suddivise in tre categorie. La specifica articolazione di questo corpus iconografico ha indotto nei soggetti una verificabile modificazione a livello percettivo in relazione al costrutto “gentilezza”. Le tre classi cui appartengono le foto sono COGNIZIONE, COMPORTAMENTO ed EMOZIONE. La sequenza categorica rivela innanzitutto come la gentilezza venga percepita attraverso l’emozione. Ma come esercitare l’emozione? Come fare in modo che essa diventi la linea di confine che permette di distinguere la gentilezza da altri comportamenti? Come condurla all’interno di processi corporei affinché il gesto, il movimento, in ultima istanza il corpo stesso, diventino gentili? Credo che una tra le possibili risposte (quella che ho scelto di sviluppare in quanto affine a me e al mio percorso) riguardi lo “spazio tra”, ossia quella dimensione liminale e apparentemente vuota tra due persone, tra due corpi, in realtà fortemente carica di immagini, sensazioni, aspettative, emozioni, pregiudizi, energia. In questo spazio entra ed emerge il concetto di “confine”: quanto l’Altra persona mi vuole vicino? Quanto lontano? Quanto e quando posso travalicare tale confine? Come posso farlo? Uno sguardo, l’avvicinamento di una mano, uno spostamento del proprio corpo in avanti o indietro, un respiro, uno stare accanto… Piccoli gesti, semplici, delicati, ma nondimeno densi e carichi di quell’ascolto, di quella profondità, di quello stato emotivo che consentono di dare sostanza, forma e colore all’inbetween. Obiettivo è incontrare davvero l’Altro, travalicando (simbolicamente) quelle linee di demarcazione (emotive più che fisiche) che ciascuno di noi possiede».
ph. Dario Bonazza
Come lo spazio pubblico diventa “agente destrutturante” (di forme e relazioni di potere), attivando canali di connessione e generando interferenze?
Laura: «Lo spazio pubblico che utilizzo è la piazza, intesa come luogo attraversato da miriadi di persone diverse che lì convergono. Lo spazio pubblico è per me un crocevia, un luogo di quotidiano scambio, vissuto sempre con sorrisi diversi, generazioni differenti: è un ambiente pregno di storia e di storie, che si vanno a costituire e dipanare giorno per giorno. Con Walter ho iniziato a dirottare la mia ricerca sul “cambio del punto di vista”, in relazione alla dualità pubblico/performer. La performance si crea infatti nell’ambiente che la ospita e chiunque sia presente è performer dell’opera stessa. Vorrei destrutturare ogni relazione che ci costringe in ruoli ben definiti e stabiliti una volta per tutte: il valzer, ad esempio, è in sé una struttura di potere… I danzatori dovrebbero attenersi a regole precise, spaziali e motorie. In Walter, perciò, sono partita da questo tessuto normativo, per la precisione dai tre dati all’apparenza più tangibili e restrittivi: il conteggio, il roteare in coppia e la relazione nello spazio. Approdo è stata la loro destrutturazione e la definizione di una nuova armonia entro uno spazio concentrico e attraente. La ricerca si muove così in un sistema coinvolgente pur nella sua rigidità, volendo creare un’esperienza totalizzante. Sono all’inizio di questo processo e so già che non è ancora giunto il momento di veder realizzato questo grande desiderio. Per ora, con Walter, mi sento di aver compiuto un primo, timido, passo all’interno di una vasta e stimolante nebulosa».
Lorenzo: «È una domanda davvero molto complessa, a cui non credo di poter dare una risposta certa. Considerando l’esperienza svolta in Lavanderia, grazie all’aiuto di Elisabetta Consonni, potrei forse dire che lo spazio pubblico non destrutturi tanto le forme, quanto piuttosto permetta di osservarle da una prospettiva altra, ritrovandole certamente, ma con qualità, spazi, tempi diversi da quelli della ricerca intima. Lo spazio pubblico allena e raffina lo sguardo, consente di osservare più declinazioni di un medesimo gesto, sensibilizza gli occhi, il corpo, la percezione. Non so quanto lo spazio pubblica crei “interfenze”: semplicemente amplia la visione e le possibilità di ricerca. Certo sposta il proprio immaginario, lo amplifica, costruisce un ventaglio maggiore di possibilità attorno a quanto si sta cercando (che sia un tema, un movimento, una relazione, un corpo, una sensazione, un’emozione), attivando così connessioni altre tra spazio, tempo, forma e qualità, tra ricerca e azione, tra spazio pubblico e spazio privato, tra Io e l’Altro. Ma non interferisce, semmai moltiplica».