Danzando la scrittura con My Body Solo

Danzando la scrittura con My Body Solo

Sono qui di seguito pubblicati alcuni contributi nati nel corso della seconda edizione di How Do You Spell D-A-N-C-E?, svoltasi in Lavanderia a Vapore tra il 7 e il 10 giugno. Un laboratorio per “danzare la scrittura”, ideato dal Centro di Residenza per la Danza con Scuola Holden e condotto quest’anno da Marta Pastorino e Laura Trascritti. Il workshop – che mirava a fornire strumenti utili per imparare a catturare e a restituire l’atto coreografico prima attraverso il corpo e poi tramite le parole – è stata un’occasione di ricerca condivisa sui processi di scrittura e storytelling delle arti performative: uno scrivere con e non solo a proposito di danza, al tempo stesso oggetto e processo dello scrivere. L’attività della comunità di dance writers si è focalizzata in particolare sulla visione di MY BODY SOLO di Stefania Tansini (peraltro vincitrice del bando AiR 2023), presentato la sera del 7 giugno a Collegno all’interno di Interplay.



È un solo intimo ed evocativo in cui la danz’autrice esplora il lato vulnerabile dell’individuo esponendosi con generosità e accettazione della propria precarietà. Con My body solo Stefania Tansini continua il suo percorso di ricerca sul corpo e sul movimento, in una forma di espressione autentica e in un contatto profondo con l’altro. In uno spazio metà nero e metà oro, un suono accoglie l’ingresso del pubblico e tre luci ne guidano l’incontro con il movimento, il respiro e la voce della danzatrice.

di e con Stefania Tansini
musica originale Claudio Tortorici
luci Matteo Crespi
produzione Nanou Associazione Culturale
foto di Luca Del Pia
con il sostegno di Centro di Residenza Emilia-Romagna Teatro Petrella di Longiano, DNA appunti coreografici 2020 (Centro nazionale di produzione – Compagnia Virgilio Sieni di Firenze, Centro per la Scena Contemporanea/Operaestate Festival del Comune di Bassano del Grappa, Gender Bender Festival di Bologna, Triennale Milano Teatro, Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale)
Artista associata alla Fondazione Teatro Grande di Brescia
Vincitrice del Premio UBU 2022 Miglior Interprete Under35
prima regionale
durata 40′

Entrare, sedersi e aspettare, come di consueto, in una stanza buia. Un tappeto sonoro minimale e tre piccole luci in alto a sinistra accompagnano la visibilità morbidamente intermittente all’eclissarsi della figura di Stefania Tansini. Non si vede e poi si rivede, con il suo tronco rosso trasparente. Entra in scena come se non vedesse, sembra essere guidata dalle mani delicatamente sospese in aria, quasi davanti al volto. Nell’oscurità si muovono come a disegnare qualcosa: la conduzione di un’orchestra composta dai suoi segmenti corporei che, prima di attivarsi sono preceduti da espiri, fiati sonori simili a pronunce francofone senza significato. In questo avvento sembra che lei stessa stia cercando di capire come usare il suo vocabolario addentrandosi in una peregrinazione su più livelli. Oltre all’abbraccio dell’intera area del pavimento nero e oro, il contenitore spaziale viene continuamente mutato dallo spazio di una scrittura che mentre viene prodotta è anche analizzata. L’alfabeto Tansini è fatto di macro e microsegni, logogrammi colmi di dettagli scopribili aguzzando la curiosità come quando si apre la matrioska più grande e si vuole arrivare a quella più interna. Il livello energetico è legato ad un flusso candido, gasato da climax così potenti da dare la sensazione fisica, assistendo, di avere nervi in movimento sollecitati dai famosi neuroni specchio qui resi vulnerabili. Osservando lentamente, è possibile riconoscere alcuni movimenti che ritornano, cambiati, in nuove prospettive e combinazioni. La ricerca approda fino ad una esegesi delle sonorità corporee generate dal contatto con il pavimento. Dopotutto è un gioco, curioso e urgente, quasi autistico, un viaggio pragmatico necessario. Quello con Stefania Tansini è un incontro inizialmente incomprensibile, da subito ammaliante, che ha bisogno di essere accolto con gentilezza. My body solo va accolto a braccia aperte per superare la soglia di una perlustrazione al microscopio e diventare, così, una condivisione con la danzatrice che sembra essere stata mossa dall’urgenza di creare, delineare, conoscere e parlare la sua lingua per incontrarci.  

Sofia Bordieri


Possiamo portare la foto di un presente complesso danzando?
Mentre guardo dentro, cosa accade fuori?
Ci sono tre luci calde che rendono l’atmosfera intima. Sento il battito del cuore nella musica, ma anche un suono costante che indica la presenza, e delle parole. Mentre Stefania sussurra, dialoga con il suo corpo che alterna pose quotidiane, organiche perché necessarie al passo successivo. Come le esperienze della vita, servono sempre a restituirci pezzi di noi. Così Stefania ci prende per mano e ci porta a casa, nel presente. Mentre la guardo mi rilasso, perché squarcia il presente e ci entra dentro. Mentre parlo cosa succede al corpo? Se parole e corpo fossero allineati quale sarebbe la mia danza? Il non detto è materico? Nel silenzio apparente, ginocchia e mani fanno suono, il corpo suona come le parole e il respiro.
La drammaturgia di My body solo è un processo graduale in cui si costruisce un discorso a partire dal corpo. Stefania si muove in modo chiaro e pulito come quando sei allineato a ciò che pensi. Quando non parlo come dico? Come un vulcano che sembra spento ma in realtà lavora nelle sue profondità. Stefania si fa canale di un dialogo incessante tra il dentro ed il fuori dell’essere complesso che siamo. Un discorso che scorre nel sottosuolo del corpo, ciò che accade nel presente, al corpo durante un discorso, fatto o pensato. Le ginocchia quando toccano la terra, producono un suono, sono quindi parole?

Graziana Di Stefano


La luce non ha densità. 
Non ha massa, non è materia, dunque non ha densità. 

Eppure Tansini, in My body solo, riesce a dargliela. Mentre entra piano, dall’angolo più remoto del palco, che sembra distare anni luce dalla platea, il pubblico in sala trattiene il respiro. È immersa nel buio e, piano, come spostasse fronde di vegetazione lussureggiante, si fa spazio tra i raggi di luce, verso i tre fari che, per tutto lo spettacolo, la faranno ondeggiare tra il buio e la luce, tra la metà nera del palco e quella dorata. 

Così, mentre un vecchio giornalista seduto in sala borbotta, senza abbassare abbastanza la voce, ma è tutto così? il resto del pubblico non riesce a strappare gli occhi da quel punto preciso del palco in cui il corpo di Tansini, ormai illuminato, sta prendendo possesso della luce per iniziare a modificarla, a manipolarne la consistenza. 

My body solo, che è stato fino a questo momento un denso fluido, diventa una linea spezzata. I movimenti diventano fotogrammi interrotti di un unico segno, che si succedono con un ritmo sempre più incalzante, accompagnati da suoni che non sono un canto, ma qualcosa di più atavico, che ricorda gli elementi primi di un canto tribale.  

Il punto focale, quello a maggiore densità, si sposta costantemente, e adesso anche il vecchio giornalista tace, incapace tanto di individuarlo quanto di ignorarlo. Ora è interno, perché, come dice Tansini, “in un movimento c’è lo spostamento di un’intera esistenza”; ora esterno, oscilla tra i riflettori che si accendono e si spengono, tra le due metà del palco, nella trama della musica e dei suoni, si appoggia sui movimenti, tra moto e stasi. Ma c’è un ultimo elemento, più sottile: lo spazio negativo, cioè quello dove Tansini non c’è, dove la densità dovrebbe essere nulla ed è invece altissima. La parte vuota del palco e la platea vengono invasi o abbandonati ora dalla luce, ora dagli sguardi, ora dall’ombra di quel corpo che, a questo punto, non abita più soltanto il palco, ma ogni cosa. 

Francesca Dentis


Il silenzio della sala è un bene collettivo che condividiamo, finalmente.
I piedi che entrano nello spazio sono leggeri come piume d’uccello.
Un mantra si fa strada nel corpo e attiva un ritmo preciso.
Scandisce l’arrivo del braccio e la partenza del piede, dice alla gamba quando salire e quando scendere. Un ritmo cardiaco che apre, chiude, risuona.
Ho mai detto che il ritmo mi piace? Mi è sempre piaciuto…
Rapide gambe spostano nello spazio intenzioni. La danza è gesto inafferrabile, nello stesso secondo in cui si è compiuto è già svanito e il prossimo gesto è pronto ad essere il decisivo.
La danza è come la vita. Incombenze, decisioni, incastri, aperture, telefono, semafori.
Rosso rosso rosso. Semaforo rosso a cui sostare.
Ma dietro quel semaforo ci sono dei seni morbidi, dolci, sono la carne della vita, sono il modo in cui si cresce e respira.
Hai visto come poi le parole svaniscono? meglio chiedersi: sono incombenza? precarietà? abitudine? Sviluppo lo smarrimento. Abbandono il codice e sviluppo lo smarrimento.
Cosa sono queste gambe, ginocchia, piedi, fessure, connettori se non il potere che ho, la più profonda delicatezza concessa, strumento, gabbia ed elevazione.
Sto nel corpo come un uccello sta nelle sue piume. Ma perdo il ritmo cardiaco, divento un corpo così molle difficile da articolare. Entro nell’ombra-divento ombra, solo allora riposo, mi sdraio.
L’arte che conosco è dedizione sottile continuativa nei giorni che confondo con il respiro.
Velate di trasparenze, come petali nel vento le gambe, giungono su una sabbia d’estate, su cui battono confini, certezze e incertezze. Ho un corpo per una ragione, lo so, ed ora ve lo mostro (questa ragione però è la mia, ricordate, non la vostra).
E poi diciamolo, la danza è libertà sempre presente ma latente che quando però afferro, ballo!
Allora la luce. La luce come direzione in fondo al tunnel si fa strada nel viso.
Nell’espressione finale, un viaggio che arriva al luogo predestinato.
Arrivo, venite, vi tendo la mano, venite con me.

Barbara Lanzafame


Qui ed ora  

È una calda e umida sera di inizio giugno e la sala della Lavanderia a Vapore di Collegno è pronta ad accogliere gli spettatori. A poca distanza dal fluire dell’audience che sarà condotta nella coesistenza sensoriale di My Body Solo, la scena è completamente avvolta nel buio.  Due accecanti, accesi ad illuminare la sala brulicante di presenze, gradualmente calano di intensità spegnendosi. Gli occhi degli astanti si liberano mentre le luci, in flemmatico crescendo, varcano la coltre nera.  Sono tre i bagliori che si avvicendano a bagnare da sinistra il corpo di Stefania Tansini che entra da un angolo in fondo alla scena.  Lenti ma curiosi i tanti sguardi si poggiano su di lei che appare come sospinta da un refolo impercettibile. Ogni suo passo, iscritto su un tappeto sonoro minimalista, traccia il territorio liminale dove equilibrio, sbilanciamento, vuoto, pieno, suono, silenzio, luce, ombra, vicino, lontano, nero e oro si incontrano. Dialogano, si scontrano, cadono e si rialzano.  

La scena nel suo evolversi mostra un’incessante palpitare. Dal corpo della performer si irradiano movimenti,  gesti e  parole incomprensibili dal forte sentore francofono. Come raggi diramatisi da una forza centrifuga raggiungono ogni partecipante aprendo spazi altri. Nella mente di chi osserva, al suono frusciante delle lettere sibilline dell’interprete, le immagini si susseguono: ritornano ricordi di fiamme che si divincolano in camini di pietra, di temporali estivi scroscianti e umidi. Improvvisamente si ha come l’impressione di stare su di un gozzo che si dibatte tra le onde in tempesta. Ognuno, schiacciato sulla propria seduta, fa esperienza di sensazioni che mutano all’evolversi dei ritmi.  

In scena non avviene nessuno spettacolo bensì accade qualcosa di altro: il cedere e rialzarsi della danzatrice, le variazioni luminose e i suoni si ripercuotono nelle membra osservanti. Forse in molti avrebbero voluto soltanto uno spettacolo e invece ricevono in dono una condivisione.  

Attraverso il flusso di My Body Solo, il pubblico incontra la propria soglia, il proprio respiro, incontra il proprio corpo. Ognuno parla a sé stesso, nascosto nell’ombra e sospeso tra il presente e il divenire. 

Michele Pecorino 


Decido di sedermi fra persone sconosciute, di lato, per allungare meglio le gambe che alla sera d’estate fanno sentire la loro pesantezza… Scelgo di isolarmi e di guardare lo spettacolo un po’ da lontano, per la prospettiva, per la distanza, per vedere anche oltre. 

Entra di taglio, in diagonale, capelli lisci, sguardo lontano, altrove. I piedi sono nudi, le dita allargate mi stupiscono per come sanno portare il corpo. Il corpo sottile scivola sul linoleum nero, lo attraversa spezzettando ogni singolo movimento, come una carta meticolosamente piegata e tagliata alla perfezione con la taglierina. Colpi secchi, decisi, senza sbavature, imprecisioni. È tutto vero. E mi incolla. Mi riguarda. Ci riguarda.  

Non so se lei lo sa. 

Mi chiedo chi sia quella ragazza, gonna nera corta e maglietta rosso scuro semi trasparente, capello liscio, senza rughe, sincero. 

Mi chiedo cosa stia provando a dirci in questo frastuono, fracasso di mondo… e percepisco la platea muta, quasi in apnea per la densità dell’ascolto, del dialogo che è appena iniziato e che si fa via via sempre più stringente, intenso… Lei non molla e manco noi. 

La vedo avvitarsi, balbettare, emettere suoni respiro che immagino un suo alfabeto, suoni per dire che si è vivi, ma non si sa a chi… suoni che sanno di francese, di bimbo, di gioco, ma anche di fenicio, di antico, di sconosciuto. Un geroglifico magico… e mentre lei con tre fari di lato puntati all’altezza dell’addome si muove, io provo a nominare tutte le parti del corpo che conosco e che mi vibrano guardandola.  

Procede, insiste il suono basso che non ti lascia scampo, dinoccolata, sghemba, forse cieca. 

A me fanno male le mandibole. Quando lei distrutta si inarca a terra pare crocefissa, in sacrificio. Ma è un attimo, … è solo una posa mi dico.  

Poi un filo, un ponte, un ago, una terra di mezzo si apre ad un gioco di anche e sbilanciamenti sempre più ampi. Un modo di attraversare, di avanzare, un po’ di qua e un po’ di là, un’oscillazione sbilenca atterra nella zona oro del palco dove il gioco è nella ripetizione, nel suono prodotto da ginocchia, piedi che sbattono fra di loro sul pavimento.  

E io tiro il fiato…  

Sto con lei e respiro un divertimento e penso al momento in cui per la prima volta è uscito questo movimento dal suo corpo, al piacere di fissarlo, di scriverlo immaginandolo sul tappeto danza oro… 

Ma ricomincia la nigredo. Di nuovo. E intuisco la vita, il suo processo, avanti e indietro poco lineare. E anche il suono insiste, martella, e il corpo impazzisce, si divincola, non riesce a stare… Mi chiedo a quanto può arrivare l’intensità di questo male… quanto possano essere grandi i draghi che abbiamo dentro… e che comunque, ad un certo punto, ho sentito anche un uccellino. 

Carlotta Pedrazzoli


Lei arriva da lontano. La sua camminata è densa e i piedi sono prensili perché vogliono quanto più possibile protrarre il piacere provocatogli dal contatto con il suolo. 

Senza preavviso emette un sussurro tiepido, poi suoni più sicuri con cui sembra confidare: “ho una voce, quindi esisto”.  

Sono due le attività identitarie che le sono state donate: una voce e un corpo. E ogni movimento si può fare vibrazione delle corde vocali e ogni emissione sonora può farsi corporea. Ma quando il silenzio si manifesta il suo corpo procede incauto, producendo suoni sul territorio via via incontrato e-o su sé stesso. Il suo corpo vuole esserci ancora, vuole esistere ancora perché le parole sono un atto attraverso cui affermarsi. “Ho una voce quindi esisto”.  

In questa solitaria affermazione di sé, non è sola: ha persone care che la proteggono giocando a nascondino fra le ombre.  

My body solo è un monologo di un corpo, quello di Stefania Tansini che abita un luogo tanto immaginario quanto concreto perché in grado di donare una dimensione potentemente onirica anche se il pizzicotto è per davvero percepibile sulla pelle.  

Federica Siani


Lo spremere i corpi

Le arance come corpi spremuti.  

Con le prime ci fai delle cose; tra queste, puoi raccoglierle. Ci sono dei momenti in cui farlo è più semplice; t’allunghi sui piedi, sali la scala – tu soffri di vertigini – e quando le stacchi, lo senti nel corpo: se non sono mature, tiri, la schiena fa per chinarsi all’indietro; o cadi, o tieni l’equilibrio: comunque, l’arancia non si spremerà. Se invece è novembre – immagina che lo sia – l’arancia non tende il ramo: ti cade in mano; la tagli a metà, la infilzi nella polpa con la forchetta e mentre torci quest’ultima dentro la carne del frutto, morbido, ecco il succo che, limpido, scivola dalla buccia alla bocca e dalla bocca al mondo; tale è il lavoro dell’artista col corpo. 

Ecco che cosa puoi farci, coi corpi: raccontarli, raccogliere arance, farne una musica intensa o renderli silenzio. My Body Solo indaga le nostre domande sui corpi; è novembre, l’artista si spreme per il tempo del raccolto. Stefania Tansini è la forchetta, l’arancia la sua pelle, la polpa i muscoli, la mano che stringe l’utensile il titolo, la musica, il palco.  

Prima che si riaccendano le luci in sala pensi che la risposta sarà definitiva: ti sbagli; la scorza è dura e il corpo si porta dietro altre domande. La performance non si chiude del tutto e non viene lasciata totalmente aperta: My Body Solo è uno studio. 

Mi alzo che Stefania è andata via e le sedie attorno a me sono vuote; penso che scriviamo con le parole, amiamo con la mente e mangiamo arance con le mani.  

Mirco Spadaro

Balliamoci sopra

Balliamoci sopra

Benedetta Colasanti su NOBODY NOBODY NOBODY It’s Ok Not To Be Ok (Appunti, celebrazioni e proteste di un corpo vulnerabile), visto ai Cango di Firenze lo scorso 12 maggio. L’ultima creazione di Daniele Ninarello, nata grazie a fasi di ricerca svolte alla Lavanderia a Vapore di Collegno (in particolare nell’ambito del progetto di innovazione didattica Media Dance), è stata recentemente selezionata per la NID 2023, in programma dal 30 agosto al 2 settembre a Cagliari.


Pavimento bianco, luci piene, una musica elettronica ripetitiva, quasi alienante, un corpo semi-nudo. Così il pubblico viene introdotto senza mezzi termini nella prima delle tre “stanze” di NOBODY NOBODY NOBODY It’s Ok Not To Be Ok, l’ultimo lavoro di Daniele Ninarello. Sulle sedie della platea di Cango (Cantieri Goldonetta, Firenze), giace una lettera:

Cara spettatrice e Caro spettatore,
Ti ringrazio per essere qui con me oggi.
Questa sera vorrei condividere con te una danza, una denuncia, una protesta. Esisterà solo qui, solo questa volta, solo attraverso questi gesti, solo davanti ai tuoi occhi […].

Ninarello, autore e interprete, è solo in scena. Indossa una camicia, una giacca e dei pantaloncini, rievocando i tempi delle riunioni online dell’epoca pandemica, quando bastava rendere presentabile la metà superiore del nostro corpo. La performance gioca fin da subito col contrasto tra musica sperimentale – spesso percepibile come rumore – e silenzio; in quest’ultimo ogni minimo rumore risuona, amplificato. La coreografia è un climax. Nella “prima stanza” i gesti proposti sembrano essere in bilico tra automatismo e resistenza a quegli stessi gesti, tra il tentativo disperato di comunicare, di esprimere qualcosa, e la difficoltà di farlo apertamente, forse nella paura di non essere capiti. In questo senso la ricerca del contatto visivo col pubblico è concettualmente significativa ed emotivamente forte. Il linguaggio del corpo rimanda anche al rapporto complicato tra burnout, overthinking e horror vacui; tra chiusura e apertura; tra difendersi e schierarsi. La protesta di Ninarello risiede in parte nella rinuncia – nella prima porzione coreografica – a una vera e propria estetica: si opta d’altro canto per una riflessione personale e soggettiva ma di base comune a molti.

La musica sperimentale ed elettronica è la protagonista della “seconda stanza” di NOBODY NOBODY NOBODY It’s Ok Not To Be Ok. Il prodotto di una chitarra elettrica, “suonata” dal vivo dallo stesso coreografo-danzatore non secondo i canoni, è la colonna sonora di un caos interiore, di un dolore esistenziale che troppo spesso la società tenta di nascondere. Il rumore è stridente, a tratti insopportabile. Intanto il gesto viene progressivamente esasperato, le manifestazioni corporee si fanno più urgenti ed evidenti: la coreografia appare ora come una lotta continua tra mondo esteriore e pensieri. Infine, Ninarello imbraccia la chitarra elettrica, avvicina il microfono alla propria bocca, respira, si schiarisce la voce; suona e canta una canzone orecchiabile: E la luna bussò di Loredana Bertè. È la parte più pop dell’intera performance, ma il successo italiano viene reinterpretato in chiave malinconica e le parole assumono un nuovo significato, un nuovo sapore.

La “terza stanza” è preceduta da una chiamata alle armi o, meglio, alla presenza. Daniele Ninarello si rivolge a ognuno degli spettatori, leggendo i nomi da una lista compilata prima dello spettacolo. Poi la canzone di Bertè si propaga ad alto volume, questa volta nella versione originale, mentre il danzatore esegue l’ultima coreografia, scomposta, articolata, ricca di spunti. È come il ballare degli adolescenti chiusi a chiave nelle loro camerette. L’uscita di scena prima della fine della canzone, permette anche al pubblico di danzare da solo, almeno nella propria mente.

Segue un incontro con l’artista, come di consueto a Cango, coordinato da Pietro Gaglianò. Ninarello espone con sincerità la genesi di NOBODY NOBODY NOBODY It’s Ok Not To Be Ok: è un lavoro quasi interamente costruito nella sua cucina durante il primo lockdown, un periodo di riposo, di riflessione, di paura, di vulnerabilità collettiva in cui ognuno – in solitudine – ha forse avuto modo di fare i conti con i propri fantasmi. La performance è frutto di un percorso di rimozione del trauma fisico, della necessità di non prendere la posizione di vittima né quella di carnefice, della possibilità di sentirsi sporchi. Infine, emerge la volontà di decolonizzare il corpo, liberandolo da sovrastrutture e pregiudizi: un corpo pieno non ha spazio per l’ascolto. NOBODY NOBODY NOBODY It’s Ok Not To Be Ok richiama una dimensione del danzare che non è altro che un rituale moderno: poter dimenticare ballando a ritmo di musica è un atto liberatorio al pari del flusso di coscienza. La dichiarazione dell’hic et nunc spettacolare e il coinvolgimento del pubblico sono forse i due elementi che rendono questa performance consapevolmente collocabile nella storia della danza ma anche in un terreno fertile di nuove sperimentazioni e sviluppi.

Benedetta Colasanti


creazione e danza Daniele Ninarello
accompagnamento alla creazione Elena Giannotti
drammaturgia Gaia Clotilde Chernetich
musica Daniele Ninarello
elaborazioni sonore Saverio Lanza
direzione tecnica Eleonora Diana
sguardo esterno Vera Borghini
produzione Codeduomo / Compagnia Daniele Ninarello
coproduzione Oriente Occidente
con il supporto di Fondazione Piemonte dal Vivo/Circuito Regionale Multidisciplinare di Spettacolo dal Vivo, Lavanderia a Vapore/Centro di Residenza per la Danza, Centro per la Scena Contemporanea-Bassano del Grappa e DiR-Dance in Residence Brandenburg, progetto di cooperazione di fabrik moves Potsdam e TanzWERKSTATT Cottbus. Programma creato in cooperazione con Pro Potsdam, Burgerhaus am Schlaatz, fabrik Potsdam e the Brandenburg State Museum of Modern Art | Dieselkraftwerk Cottbus e con il supporto di DIEHL+RITTER/TANZPAKT RECONNECT, fondato da the Federal Government Commissioner for Culture e the Media come parte di NEUSTART KULTUR, the State of Brandenburg, the City of Potsdam e the City of Cottbus.
Realizzato nell’ambito della ricerca sull’innovazione didattica del progetto Media Dance-Lavanderia a Vapore di Collegno.
in collaborazione con Mart-Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Atelier delle Arti Livorno

Ricostruire gli abbracci

Ricostruire gli abbracci

Lo sguardo di Benedetta Colasanti su PERÒ CHIAMAMI_movimenti diversi, visto lo scorso 30 aprile al Teatro Niccolini di San Casciano in Val di Pesa, per il circuito di Fondazione Toscana Spettacolo. L’opera – che coinvolge performer con disabilità – si pone come punto d’arrivo di un viaggio iniziato dall’urgenza di esserci, di rispondere a una chiamata. “Trovarsi e ritrovarsi – si legge nelle note di regia – in un mondo modificato, ma non per questo privo di sogni e case. Un viaggio di ricerca di sé, dei propri spazi e delle proprie aspirazioni”. Sul palco si fondono così in un’unica danza equilibri e solitudini, spazi vuoti e pieni, razionalità e impulsività.


La luce di un film d’animazione proiettato sullo sfondo della scena irrompe nella sala buia del teatro Niccolini di San Casciano Val di Pesa (Firenze); una sagoma procede con andatura decisa in controluce. Nell’ambito della Giornata Internazionale della Danza, va in scena per la prima volta “PERÒ CHIAMAMI_movimenti diversi”, prodotto dalla Compagnia Xe. La melodia e il ritmo della colonna sonora di Little Miss Sunshine ci introducono in un mondo realistico e ordinario, fatto di persone, di peculiarità e di differenze dalla cui interazione nasce qualcosa di sempre nuovo e speciale. Il canone e l’omologazione sono elementi deleteri per la nostra società; imitando la natura, spettacolare poiché variegata, anche l’uomo dovrebbe forse non appiattire le differenze ma esaltarle.

Realizzata all’interno del Laboratorio 2 di “Personae”, progetto di danza inclusiva nel quale la Compagnia Xe si impegna dal 2000, la performance propone un delicato lavoro di incontro, di ricerca sul gesto e sulla voce, di esplorazione dello spazio scenico, di interazione tra biologie per natura dissimili. Sul palco sono presenti tre giovani adulti diversamente abili che agiscono insieme alla coreografa Giulia Ciani e alle assistenti alla coreografia Alessandra Passanisi e Viviana Angelillo.

È proprio la diversità a rendere interessante lo studio sul movimento. Fabrizio Mangani, Luca Muratore Scarpi e Lapo Sieni dimostrano familiarità con la scena, voglia di esibirsi, forte capacità di comunicare messaggi ed emozioni a un pubblico spesso poco attento ma in questo caso sicuramente attratto da ciò che i performers propongono. Camminare, correre, abbracciare, stringere la mano altrui: sono tutti atti che nella nostra quotidianità devono ritrovare la propria ragione di esistere. La camminata e la corsa, ad esempio, sono azioni automatiche; ci rendiamo veramente conto dei nostri percorsi giornalieri? Dei punti di partenza e dei punti di arrivo? Esprimiamo mai gratitudine nei confronti delle nostre gambe e dei nostri piedi che ci permettono di percorrere tanta strada? Gesti come l’abbraccio e la stretta di mano sono diventati talvolta difficili, imbarazzanti, persino superficiali e mendaci. Riscoprire l’importanza di tali contatti è un punto di partenza fondamentale non solo nella ricerca teatrale e di danza sul corpo e sulle relative potenzialità, ma anche per recuperare una socialità perduta o data per scontata. Lo stesso vale per l’uso della voce: il danzatore contemporaneo spesso si riappropria della propria voce, mostrandola a spettatori per secoli abituati a guardare la danza ma non ad ascoltarla. 

L’uomo adulto, a causa di preconcetti e sovrastrutture, tende poi a perdere la spontaneità e la schiettezza che invece contraddistingue ancora i bambini o le persone diversamente abili. Questi ultimi possono probabilmente re-insegnarci la bellezza del roteare su sé stessi o del cercare di afferrare le stelle, tendendo le mani al cielo. In questo senso il lavoro di Ciani, Passanisi e Angelillo – che denota grande consapevolezza richiamando anche elementi fondanti della storia della danza contemporanea come la contact improvisation di Steve Paxton – è particolarmente importante e meritevole. “PERÒ CHIAMAMI_movimenti diversi” è piacevole e degno di nota anche dal mero punto di vista estetico. Si avvale di un ottimo gioco di luci e di ombre, di costumi perfettamente in linea con l’attuale gusto contemporaneo di danza, di spezzati coreografici visivamente attraenti.

Benedetta Colasanti


coreografia Giulia Ciani
assistente alla coreografia Alessandra Passaisi, Viviana Angelillo
in scena Viviana Angelillo, Giulia Ciani, Fabrizio Mangani, Luca Muratore Scarpi, Alessandra Passanisi, Lapo Sieni
costumi Loretta Mugnai
luci Alessandro Ruggiero
proiezioni video tratto da Rooms Francesco Margarolo
organizzazione Lorenza Tosi
assistente Sara Ladu
produzione Compagnia Xe
con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune San Casciano Val di Pesa
in collaborazione con Fondazione Toscana Spettacolo onlus
con il contributo di Fondazione CR Firenze

Danzare il silenzio, danzare la quotidianità

Danzare il silenzio, danzare la quotidianità

Benedetta Colasanti riporta lo sguardo della classe di Dance History dell’Accademia Europea di Firenze su Op. 22 No. 2 di Alessandro Sciarroni, artista associato del CENTQUATRE – PARIS e della Triennale Milano Teatro 2022-2024. L’opera è nata da un’idea di Emanuele Masi, nell’ambito di “Swans Never Die” , un progetto di rete che nella stagione 2022/’23 ha riunito Lavanderia a Vapore, Operaestate Festival Veneto e CSC – Centro per la Scena Contemporanea Bassano del Grappa, Triennale Milano Teatro, Fondazione Teatro Grande di Brescia, Festival Bolzano Danza – Fondazione Haydn, Gender Bender Festival, “Memory in Motion. Re-Membering Dance History (Mnemedance)” – Università Ca’ Foscari Venezia e DAMS – Università degli Studi di Torino.

Ho attualmente il privilegio e il piacere di insegnare storia della danza presso l’Accademia Europea di Firenze. La mia classe è composta da nove studentesse e danzatrici della Elon University (North Carolina), in visita in Italia per un’esperienza di studio. Quando si tratta di spettacolo, l’atto di posizionarsi “dall’altro lato” della cattedra non può prescindere dalla consapevolezza che la storia del teatro, della danza, della musica, del cinema, non può limitarsi alla lezione frontale. Specialmente parlando di contemporaneo, bisogna riconoscere che la storia si sta ancora scrivendo e che nel capoluogo toscano, a Cango, quella storia è tutt’oggi in divenire. Il festival La Democrazia del Corpo propone, tra le tante cose, Op. 22 No. 2 di Alessandro Sciarroni, uno dei coreografi attualmente più interessanti e più in vista sulla scena contemporanea italiana ed europea. È un’ottima occasione per le studentesse, un valido caso di studio. Propongo loro di andare a vedere lo spettacolo, di portare penna e taccuino. Domenica 12 marzo 2023 attendiamo nella piccola sala di Oltrarno l’inizio della performance; c’è curiosità e aspettativa.

Op. 22 No. 2, interpretata dalla danzatrice Marta Ciappina, è una breve opera strutturata in due tempi: una sequenza coreografica si ripete con variazione. La prima parte è danzata senza l’accompagnamento musicale, o meglio, la musica esiste soltanto nelle orecchie della danzatrice, che indossa degli AirPods.

When she is wearing the earphones, she is completely in her own world, hearing her own thoughts and looking out into the world with only her lens.
Isabella Sessa

Durante la seconda sezione, Ciappina ripete la stessa coreografia, questa volta indossando dei tappi per le orecchie, mentre il pubblico – a sua volta – ascolta la musica. La dicotomia risulta particolarmente interessante per lo studio della danza contemporanea, perché permette di cogliere le sfumature di significato e le differenze estetiche tra l’adozione della musica e la scelta del silenzio.

Audience members could clearly hear the contact between the shots and the floor, which often contradicts today’s desires. The effort of the performance could be heard rather than having an effortless nature. […] The lack of music and strong use of silence was awkward. Silence in my eyes is only a useful element if the movement can stand alone. With the constant use of repetition, the movement did not feel like it could stand alone. The dance became lack luster and predictable.
Gabrielle Cataldo

L’assenza di musica non è in realtà sinonimo di silenzio assoluto. A teatro, fuori dal loro contesto, i rumori quotidiani sono amplificati e diventano quasi imbarazzanti.

I think a big theme is sound. Ciappina wears heeled shoes so the audience can easily hear her walking. […] There were also a lot of sounds produced by the body. During the silent section, I could hear her breathing and the sounds her body made when it came in contact with the floor like when her knee would hit the ground.
Isabelle Mao

Sciarroni veste i suoi danzatori ispirandosi al mondo della moda, collocandoli tuttavia a metà strada tra passato e presente tramite l’adozione di riferimenti a volte chiari e a volte fuorvianti. Marta Ciappina indossa una gonna lunga a quadri, una camicia e scarpe con tacco basso che da una parte simulano semplici passi, dall’altra rimandano a danze profondamente ritmiche come il tip-tap. Sono abiti che richiamano la vita di tutti i giorni, segno del desiderio di vedere sul palco persone “vere”.

I think the piece piece symbolized the noise in everyday life, physically and mentally.
Madeline Trigilio

Marta Ciappina fa il suo ingresso in una scena bianca, abbondantemente illuminata, a richiamare il debutto di Op. 22 No. 2, che aveva avuto luogo in uno spazio illuminato dalla luce del sole. Il coreografo dichiara inoltre di non voler mettere in ombra i suoi danzatori. 

The whole stage was lit the whole time and only occasionally did it fluctuate in brightness.
Maggie Adams

La coreografia si ispira al poema sinfonico del compositore finlandese Jean Sibelius, Tuonelan Joutsen, tratto a sua volta da un mito nordico poco conosciuto. Dopo la performance, Alessandro Sciarroni e Marta Ciappina incontrano il pubblico con la moderazione di Alessandro Iachino; tra le altre cose raccontano la genesi dell’opera. Sciarroni spiega che Op. 22 No. 2 gli è stata commissionata da Emanuele Masi; Ciappina svela che lei stessa ha chiesto a Masi di commissionare a Sciarroni il lavoro, perché desiderava danzare sulla musica di Sibelius e farlo da sola, per motivi terapeutici, per non sentirsi schiacciata da un gruppo di colleghi.

The dancer was visibly looking very hard to execute the movement, and it seemed like there was an intense amount of effort and purpose in the dancing, but then to do all that “for show” and then to take a moment to stop, look at the audience and be like “see what I just did”?
Hannah Burnett

Dopo una relazione artistica duratura, fatta di libertà e di fiducia reciproca, i due mettono in scena il cigno di Tuonela, diverso da quello de Il Lago dei Cigni: si tratta di un animale sacro che un eroe medievale vuole uccidere, senza riuscirsi. Il coreografo aveva già lavorato sulla musica di Sibelius in Folks; è una musica drammatica, grave, che sembra condurre l’artista sull’orlo di un precipizio. Lo spazio di Cango sembra adattarsi perfettamente alle esigenze della pièce.

The piece was performed in an intimate space with a small audience that was seated just up until the edge of the performance space. Along with lighting, this gave the impression that the audience was in the space with the dancer rather than a separate entity observing a piece being performed.
Emma Stenger

Marta Ciappina rivendica la sua posizione di interprete, mentre Sciarroni si descrive come un coreografo che non ha mai studiato danza. Il singolo movimento sciarroniano, portato agli estremi, ripetuto all’infinito, viene qui espanso grazie alla collaborazione con la danzatrice.

Much of the movement was slow and flowy, but then followed by a few sharp and fast movements. There were many moments of stillness that gave the dancer time to breathe, and the audience time to digest the movement.
Madeline Trigilio

Il gesto è evocativo, sembra simboleggiare ora il potere, ora il soccombere; ora l’insegnare, ora l’apprendere; ora l’accoglienza, ora il subire violenza.

There was much repetition in movement, specifically in her arm and torso movements, focus, and fall and recovery from the floor. Choreographically, the movement was a mix of linear/placed movements that were recognizable to classical modern dance, while also less placed movements that felt very human. I appreciated the use of everyday movements that are recognizable across cultural and language barriers.
Jessica Werfel

La danza contemporanea italiana ed europea si contraddistingue per una continua ricerca che supera le “classiche” dinamiche e le ragioni dell’intrattenimento.

The piece was based on delivered a message of a future and past self that had fear for something. While I was unsure of how this was conveyed through the piece, I was able to understand a timeline and the sense of fear.
Haley Asbury

Nel nostro presente Op. 22 No. 2 non può che richiamare la femminilità. L’ascoltare privatamente qualcosa tramite l’uso delle cuffie fa pensare alle imposizioni sociali, a volte invisibili e sottili, eppure talmente influenti da convincere la donna di essere una vittima sacrificale. Al contrario, il privarsi del senso dell’udito tramite i tappi, è simbolo di un isolamento che ha effetti diversi ma altrettanto deleteri.

After watching Sciarroni’s piece, I found that there is more to anything in life. Meaning, here is a dancer that has lavers unseen. There is more than just a dancer standing on the stage in silence. There is more to life than what people can only see.
Isabella Sessa

Benedetta Colasanti


di Alessandro Sciarroni 
con Marta Ciappina
musica Jean Sibelius (Op. 22 No. 2,”Tuonelan joutsen”)
costumi Ettore Lombardi
cura, promozione e sviluppo Lisa Gilardino
produzione esecutiva Chiara Fava
cura tecnica Valeria Foti
commissione Festival Bolzano Danza | Tanz Bozen
produzione MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale, Corpoceleste_C.C.00#
in coproduzione con Festival Bolzano Danza | Tanz Bozen
con il sostegno di NOI Techpark Südtirol / Alto Adige

L’inenarrabile ordinario dell’universo: visioni della rivoluzione di “Principia”

L’inenarrabile ordinario dell’universo: visioni della rivoluzione di “Principia”

Lo sguardo di Michele Pecorino, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, su Principia, l’ultimo lavoro di Alessio Maria Romano (Leone d’argento alla Biennale di Venezia 2020), in prima nazionale al Teatro Astra di Torino dal 18 al 23 aprile. Lo spettacolo ha debuttato all’interno del cartellone di Palcoscenico Danza di Fondazione TPE dopo una fase di ricerca creativa alla Lavanderia a Vapore, svoltasi tra gennaio e aprile (clicca qui).


Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo che un ghirigoro fra tanti.

Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014

Le porte della sala si aprono, il pubblico lentamente inizia a defluire. Entrando, la scena cattura immediatamente l’attenzione dell’audience che, con il biglietto in una mano e l’immancabile cellulare nell’altra, si districa tra le file della gradinata alla ricerca del posto assegnatogli precedentemente in biglietteria.  

Il sipario è assente, la scena è visibile dal primo istante. Due sfere di colore platino sono sospese sulla diagonale invisibile che taglia, dall’angolo anteriore sinistro a quello posteriore destro, un ritaglio quadrangolare  di tappeto danza grigio. Impossibile non pensare al pendolo a cui il fisico francese Jean Bernard Léon Foucault si affidò nel lontano 1851 per dimostrare il moto di rotazione terrestre. Il resto del palco è invece coperto sempre da un tappeto danza, questa volta di colore nero. Ogni quinta è assente, così come la tela di fondo. Sui lati del palco è possibile vedere le uscite di sicurezza e le corde di graticcia diligentemente annodate ai rispettivi mantegni. 

Un essenza architettonica finita, quella del Teatro Astra, in cui si trasfigura l’inenarrabile dell’universo, tanto grande quanto sconosciuto. In contemporanea alla ricerca del proprio posto a sedere, in alcuni casi rocambolesca, si ode una voce (Marta Pizzigallo) che traccia pensieri. Dei riflessi, suscitati dall’ordinarietà umana. La raffinata penna è quella di Linda Dalisi, dramaturg dello spettacolo e figura resasi indispensabile durante l’intero processo creativo attivato dal coreografo e regista Alessio Maria Romano.  La voce nel suo narrare svela il luogo da cui sta provenendo: una navicella di ritorno dallo spazio sulla terra. Gli accecanti rivolti sul pubblico pian piano si spengono. Gli ultimi ritardatari prendono finalmente posto. Parte un countdown sonoro. Allo scadere del tempo, in uno stato di semioscurità, fanno la loro comparsa i due danzatori (Francesca Linnea Ugolin e Mattéo Trutat) che si dispongono ai lati opposti della scena. Ad accompagnarli il suono. La scena inizia ad illuminarsi attraverso delle luci di taglio dal colore freddo.  Un ulteriore proiettore posto sul proscenio, a destra, inizia a ruotare in senso antiorario, ora illuminando la scena ora il pubblico. 

Il suono e la luce sono quei codici che guidano lo spettatore a percepire dei corpi, della materia. In contemporanea le due sfere iniziano a ruotare tracciando delle ellissi sempre più ampie. Le leggi quantiche sembrano ritagliarsi il loro spazio sul palco. I due danzatori per tutta la prima parte non si sfiorano, eppure tra di loro si intesse una interazione gravitazionale uguale a quella che si instaura tra le due sfere. I performer reiterano una sequenza definita, arricchendola mediante l’improvvisazione. Le direzioni verso cui si muovono sono molteplici. Entrano vicendevolmente in collisione con le traiettorie dell’altro e con quelle tracciate dalle sfere. Le orbite collidono creando della nuova materia composta da particelle sconosciute. Il tempo e lo spazio si curvano lasciando apparire e scomparire la materia oscura. Tutto in scena appare per poi negarsi. La prevedibilità ordinaria cede il passo ad un’azione in cui tutto sembra accadere casualmente. 

La materia ordinaria, i corpi dei danzatori, la materia artificiale entrano in contatto con la materia cosmica. Ad attrarre i due danzatori è il centro della scena. Lì dove si incontrano le orbite dei loro corpi e delle sfere i movimenti e i gesti si accelerano. Attraverso il plasmarsi della  luce e dei differenti ritmi musicali, che danno lo spazio tempo, prende forma la gravità, l’incontro tra i due danzatori. I performer si perdono, si ritrovano. In un crescendo di sguardi, sfioramenti e passi sfuggevoli i due danzatori arrivano a toccarsi attratti l’uno dall’altro. Inizia così una penultima sezione dove entrambi sono il centro della gravità dell’altro. Dopo questa ultima sezione, escono di scena. I due corpi artificiali, i due grossi pendoli riprendono a ruotare sempre più velocemente, quando ad un certo punto inizia a fuoriuscire da questi della sabbia nera. Si stagliano così sulla scena le ellissi tracciate dal loro movimento. Gli spettatori sembrano inebriarsi  dell’interazione gravitazionale  che si instaura tra differenti corpi. In questo idilliaco vagare, sconosciuto e vasto, tra l’universo inenarrabile si vanno a perdere così quei piccolissimi punti di materia ordinaria quali siamo. Si compie la rivoluzione e tutto ricomincia.

Michele Pecorino

progetto di AMR/DALISI
regia e coreografia di Alessio Maria Romano
cast Mattéo Trutat, Francesca Linnea Ugolini
voce di Marta Pizzigallo
dramaturg Linda Dalisi
drammaturgia sonora Franco Visioli
spazio scenico Giuseppe Stellato
progetto luci Giulia Pastore
costumi Giada Masi
assistente alla creazione Riccardo Micheletti
consulente scientifico Prof. Enrico Trincherini (Scuola Normale Superiore)
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa
in collaborazione con Lavanderia a Vapore, centro di residenza per la danza
nell’ambito di PALCOSCENICO DANZA
foto Andrea Macchia
si ringrazia Infini.to Planetario di Torino
Pensieri sconnessi e parcheggi per Racconigi, Olivier Dubois e il valore del corpo di un’artista

Pensieri sconnessi e parcheggi per Racconigi, Olivier Dubois e il valore del corpo di un’artista

Il 18 marzo scorso Mirco Spadaro, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, ha visto al S.O.M.S. di Racconigi MY BODY OF COMING FORTH BY DAY, in replica il giorno successivo al Teatro Toselli di Cuneo.


Per questo nuovo spettacolo, Olivier Dubois è solo sul palco. Azionando qualsiasi artificio o rete di sicurezza, è vittima consenziente di un gioco che ricorda a turno un’udienza in tribunale, un peep show e una vivisezione. Il coreografo e ballerino, seguendo un percorso casuale costruito dal pubblico secondo regole prestabilite, rivisita alcuni dei sessanta spettacoli a cui ha preso parte dall’inizio della sua carriera. Ispirato dall’antico Libro dei morti egiziano intraprende un viaggio attraverso un mare di frammenti di danza alla ricerca dell’artista, scrutando il corpo dell’esecutore per scoprire cosa rende un capolavoro e leggendo dalle sue viscere i segni del destino. Una stella è rinata!

creazione e interpretazione Olivier Dubois
luci e suoni François Caffenne
produzione Compagnie Olivier Dubois I COD
coproduzione Festival BreakingWalls / Le Caire – Le CENTQUATRE-PARIS

Spumante? Sigarette? Lo spettacolo non è ancora iniziato; siamo a Racconigi e stiamo per vedere Olivier Dubois, Pour sortir au jour, My body of coming forth by day. Ci siamo venuti in macchina, io e la Giorgia, e a trovar parcheggio abbiamo fatto non poca strada. No dai, non sedetevi lì, più vicino, s’il-te-plaît. Come si dice una sigaretta in francese? tu as une cigarette, s’il-te-plaît? Ecco tieni; è una sigaretta italiana. I-ta-lia-na; in Francia costano undici euro, un-di-ci. La gente scavalca le frontiere per pagare meno le sigarette, già. Dubois ci accoglie, ci sediamo attorno a lui; indossa degli occhiali per leggere.

«Buonasera, sono felice e onorato di essere tra voi, di fronte a voi, questa sera a Racconigi! Per l’occasione mi sono messo in ghingheri; vi voglio far notare il mio nuovo e bellissimo costume acquistato al Cairo; è un po’ approximatif, molto usato. È fatto per questa sera. Questa sera. Questa sera per ergere alla luce. Questa sera per ergere alla luce il mio corpo; il mio corpo come il libro dei morti, come lunga memoria. Conservo dentro di me migliaia di movimenti, gesti, emozioni, litri di sudore e sangue. Centinaia di ferite e cicatrici. Un sacco di felicità e di dolore. Cosa è rimasto di tutto questo? Dove possono condurmi le memorie del mio corpo? […] Noi, artisti, potremmo considerarci delle opere d’arte per il semplice fatto che i nostri corpi sono la sostanza delle arti performative, degli spettacoli dal vivo e, quindi, della danza. Se così fosse, quanto lo valutereste? […] Vi propongo un gioco, che potrebbe trasformarsi in un tribunale, un’indiscrezione sicuramente. Iniziamo a giocare».

Agitateur de la scène contemporaine française, Olivier Dubois a signé ces dix dernières années quelques- unes des œuvres chorégraphiques les plus radicales. Directeur du Ballet du Nord de 2014 à 2017, élu l’un des vingt-cinq meilleurs danseurs au monde en 2011 par le magazine Dance Europe, il jouit d’une expérience unique entre création, interprétation et pédagogie”. Direttore del Ballet du Nord dal 2014 al 2017, eletto tra i venticinque migliori danzatori del mondo dal magazine “Dance Europe” nel 2011; Karine Saporta; Angelin Preljocaj; Jan Fabre; Dominique Boivin; Sasha Waltz; il “Cirque du Soleil”; Bérangère Jannelle; “Balletto Nazionale di Marsiglia”; l’Opera di Vienna, la Scuola Nazionale di Danza di Atene; la Compagnia di Balletto dell’Opera del Cairo: Troubleyn/Jan Fabre, il Balleto Preljocaj; la Scuola di Belle Arti a Monaco.

Quanto vale il corpo di un artista?

Non credo mi piacciano le sigarette accese nei teatri. Mentre siamo seduti ai bordi del palco, Olivier Dubois ha 50 anni. Ce lo ricorda lui seduto dietro la sediola, il mixer ed il computer; prima ci ha offerto sigarette e spumante. Ce lo ricorda il suo corpo, la sua pancia; quasi ne mostra di più. Abbiamo rifiutato le convivialità, ma ci siamo comunque sentiti a casa; sarebbe stato difficile il contrario: il palco è un luogo dove difficilmente non ti senti a casa. Inizia così la dissezione del corpo di un’artista: ha un odore acre, un po’ di carne che va a male e di fumo che s’accumula sotto la lingua: è di una bellezza spettacolare, quest’artista che si fa a pezzi per noi. Grotowsky diceva che l’attore è un uomo che, lavorando in pubblico con il suo corpo, lo dà pubblicamente. Ciò che colpiva allora quando si pensava al mestiere dell’attore, era il 1968, era il suo squallore: l’appalto su un corpo che viene sfruttato dai suoi protettori, i direttori e i registi, cosa che a sua volta fomentava un’atmosfera d’intrighi e di ribellione. Olivier ha denudato il suo corpo per noi; abbiamo scaglionato la sua memoria, quella privata e quella pubblica, per quasi due ore: da buste a caso prendevamo lo spettacolo, da altre buste a caso la musica; lui ballava per noi e qualcun altro lo spogliava. Io ho preso il suo anello; me l’ha messo all’anulare, Dubois, che sembrava un matrimonio; l’ho poi restituito; pesano gli anelli degli artisti, manco avessero da percorrere all’incontrario tutta la strada verso il monte Fato. Pensavo fosse un elemento del costume: credo non lo fosse.

Abbiamo visto Olivier muoversi per noi fino allo sfinimento, danzare fino all’infarto; ci ha chiesto, sudato e ansimante, se volessimo il bis. Noi abbiamo risposto di sì, e quasi il teatro s’è fatto un po’ maniacale: la bellezza incognita delle cose inaspettate indossa spesso una crudeltà un po’ affettata; chi recita da tanto tempo un po’ lo sente addosso, questo tessuto. «non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile», avrebbe detto Artaud; non è crudeltà o sadismo, più un rituale magico: un dissacrante spogliarello dell’anima che ci ricorda dei vestiti che abbiamo addosso, a suo modo, come solo lo spettacolo dal vivo sa fare, il prodigio per cui anche una bestemmia est modus per ricordare et amare Dio.

«Raccontare la mia privacy è di poca o nessuna importanza. Ciò che invece il mio corpo e la mia memoria possono scatenare come sensazione intima in chi la osserva è l’essenziale. È qui che l’arte è forse l’atto più democratico. Poiché la ragione del processo artistico, il libretto in un certo senso, è irrilevante, è importante solo la percezione intima dello spettatore. E qualunque sia questa percezione, è legittima ed equa. Non ci sono interpretazioni errate di un’opera. Il lavoro appartiene solo allo spettatore!», Olivier Dubois in un’intervista a Michele Olivieri.

Finito lo spettacolo m’è sembrato di rompere un bicchiere, come se dovesse esserci dentro ancora qualcosa; credo sia perché questo genere di rappresentazione non ha una vera e propria fine: ti lascia sete. Io e Giorgia siamo andati dopo a berci un qualcosa, dopo; ne abbiamo parlato. Le spiego che non sono convinto che abbia senso domandarsi quale sia il valore del corpo di un artista; è una domanda un po’ retorica, dico, quasi pretenziosa. L’arte – concordiamo che il corpo di un artista sia arte – ha valore solo per chi la compra. Però me lo domando; ecco, se c’è qualcuno che forse poteva dargli una risposta, ecco, quello era Dubois stesso; qual è il valore del corpo di un artista per un artista? Ci rifletto; non è una domanda che porrò perché non è una domanda a cui voglio una risposta.

Mentre in macchina torno a vedere le luci della collina di Torino, penso che sia tardi, che Dubois è una sirena, che We Speak Dance sia quasi finito, che i corpi si muovono, si muovono costantemente, anche se le ruote sull’asfalto si fermano e i pensieri sono sconnessi.

Oh, don’t you stop (Don’t stop, you’re moving me) Baby, don’t stop (Don’t stop, you’re moving me) Don’t stop (Don’t stop)

You’re moving (You’re moving, you’re moving me).

Mirco Spadaro