Palestra del feedback: un atelier intensivo dedicato alla condivisione

Palestra del feedback: un atelier intensivo dedicato alla condivisione


Un progetto a cura di shared training torino, Workspace Ricerca X e Lavanderia a Vapore; partecipano Beatrice Bresolin, Lucia Di Pietro, Lucrezia Palandri, Lorenzo De Simone, Lorenzo Giansante, Doriana Crema, Chiara Ameglio, Angela Fumarola, Marco Betti, Paola Granato


La palestra del feedback – ospitata dalla Lavanderia a Vapore dal 19 al 24 settembre, coinvolgendo un gruppo eterogeneo di artisti e curatori – è uno spazio improntato alla sperimentazione di metodologie di lettura e di feedback relative a materiali creativi ancora incompiuti. La pratica del feedback è un approccio fondante nei processi relazionali, collettivi e creativi nonché un tassello imprescindibile di ogni percorso di accompagnamento artistico. L’allenamento incoraggiato da STT e Workspace Ricerca X propone dunque offrire, ricevere e moderare feedback, muovendo dall’idea secondo cui il lavoro comune parta da posizioni diverse e si sviluppi equamente su tre differenti piani: espressione, ricezione e moderazione del feedback stesso.

Tanzmesse 2022: la bellezza di esserci. Un diario di bordo

Tanzmesse 2022: la bellezza di esserci. Un diario di bordo

Le inviate di Lavanderia a Vapore per la mobilità prevista dal progetto How do you spell dance? incontrano – grazie alla preziosa collaborazione di Boarding Pass Plus Dance – alcune significative esperienze internazionali nell’ambito della creazione coreografica. Francesca Rosso – giornalista e istruttrice di protocolli mindfulness – è approdata a Düsseldorf, per seguire la Tanzmesse (31 agosto – 3 settembre 2022). Qui di seguito, un resoconto del suo viaggio.


La gioia di incontrarsi di persona. La Tanzmesse di Düsseldorf è una fiera di danza che si svolge ogni due anni. L’edizione di 2 anni fa è saltata per la pandemia e quindi quest’anno c’era un fermento, un brivido di gratitudine, una felicità negli sguardi e nelle ossa. Che ci si ritrovi agli spettacoli, ai talk, all’agora che è luogo di incontro fra diverse realtà della danza, ci si sorride. Si scambiamo idee, biglietti da visita, visioni, progetti. Ma soprattutto si sorride, si scambia gratitudine per essere qui, in presenza. E le persone che girano con la borsa di stoffa Tanzmesse sorridendo per la città spostandosi da uno studio a un teatro, contagiano tutti, anche chi non è interessato alla danza.

Qui tutto è fluido, tutto è non binario, dai bagni “all genders” all’abbigliamento, dal trucco ai colori: capelli cortissimi o lunghi, orecchini, unghie colorate, pochette, gonne su gambe pelose e polpacci virili: non ci sono canoni da rispettare. Tutto è danza per corpi con ogni tipo di abilità. Tutto è accessibile: linguaggio dei segni, spazi per muoversi in carrozzina, sgabelli o cuscini in terra per chi sta meglio così. Tutto è confronto e piacere di essere qui.

Riceviamo una borraccia di vetro e ovunque troviamo acque aromatizzate. Ci hanno consigliato di non stampare i biglietti ma di salvarli sui telefoni. La danza oggi è anche attenzione all’ambiente.


I Talk & Connect a cui ho partecipato

La formula del Talk & Connect prevede un Keynote Speech, un discorso di circa mezzora tenuto da una persona esperta su un tema specifico, una Panel Discussion di un’ora con artisti che si confrontano affrontando l’argomento da angolazioni diverse e infine una Group Session, un lavoro di gruppo di un’ora e mezza in cui i partecipanti sono direttamente coinvolti in giochi e discussioni.

L’idea è sempre di aprire a più sguardi e significati e non di fornire lezioni. Quando si esce da questi incontri con più domande che risposte, allora hanno funzionato, hanno seminato germogli.

Il tema del primo giorno era (Un)exptected Relations: si è parlato di collaborazioni inter- e trans-nazionali. Quali residui ha lasciato il colonialismo e quali prospettive ci sono?

Al Talk Entangled Embodiment Jay Pather, professore universitario, coreografo e regista sudafricano si è focalizzato su come i paesi africani abbiano incontrato altre culture e come si siano riflesse nei lavori proposti; come modernizzazione e globalizzazione influiscano sui percorsi creativi e come si sia costruito un presunto primitivismo a uso e consumo di chi manipola gestendo il potere e la finanza. Continua ad esistere un atteggiamento “West and the Rest”.

Nella discussione con Maria José Cifuentes di Tacto dal Cile, Angela Couquet dall’Australia, Soohye Jang dalla Corea e Buse Yitdrim dalla Turchia si è discusso di inevitabilità del ricondurre i corpi alla loro provenienza geografica e del rischio di auto-colonialismo.

Nella group session abbiamo giocato a Values of Solidarity. Abbiamo usato le carte di “The Gamified Workshop Toolkit” sviluppate da Anikó Rácz, Doreen Toutikian e Dorota Ogrodzkae nell’ambito di RESHAPE project, per promuovere la comunicazione collaborativa e abbiamo affrontato scenari di ipotetico conflitto e possibili soluzioni con Anikó Rácz.

Il secondo giorno è stato dedicato al tema (Un)apologetic Bodies con l’artista disabile, “crip” e ricercatrice Kate Marsh che ha parlato di Radical Imagination partendo dal libro di adrienne maree brown (le minuscole sono volute dall’autrice ndr) “Pleasure Activism. The Politics of Feeling Good” e di come spostare l’attenzione dalla rabbia alla gioia, al piacere e alla compassione renda l’attivismo coinvolgente e pieno di amore, dignità e felicità.

Nella discussione si sono confrontati Sindri Runudde dalla Svezia, Saša Asentić, artista serbo che vive in Germania, Brian Solomon di electric moose dal Canada, la cubana Yanel Barbeito di Unusual Symptoms e si è parlato di disabilità. Brian Solomon, artista queer, disabile e indigeno, ha detto che l’unico fenomeno davvero inclusivo, che si può avvertire con qualsiasi disabilità, è il temporale che ha luci, suoni, profumi e vibrazioni percepibili da tutti.

La sessione di gruppo gestita da Charlotte Drath, Jane Dreiß & David Lakotta di planpolitik era su “Empowerment & Allyship”. Dopo aver giocato a uno strano

 “Bingo” fatto di domande per conoscerci meglio abbiamo discusso tutti insieme sui temi proposti.

L’ultimo giorno è stato dedicato a (Un)probable futures. L’uruguaiana Tamara Cubas ha parlato di Artistic Practices as social Experience provocando il pubblico sul fatto che l’arte non cambi il mondo. Dopo aver lavorato con i minori in carcere e con i trans ha parlato del fatto che evitiamo il dolore in tutti i modi ma solo sentendolo possiamo provare a generare cambiamento.

Nella discussione a cui partecipavano Barbara Poček dalla Slovenia, Arkadi Zaides da Israele e Mamela Nyamza dal Sudafrica, quest’ultima ha parlato di come sia più difficile per una donna africana essere artista e quanto il rischio dell’esotismo e di compiacere il pubblico sia sempre presente.

Nella sessione di gruppo abbiamo discusso in piccoli gruppi su cambiamento sociale e ostacoli possibili. Lo abbiamo fatto lasciando risposte scritte alle domande sui tavoli all’aperto sotto il gazebo e trovandoci poi insieme dopo aver camminato fra le parole.

Molto interessante anche l’incontro Punk = dead, Print = dead, Dance = next – The future of dance criticism organizzato dall’associazione Tanz che promuove l’indipendenza del giornalismo di danza.

Giornalisti, studiosi e blogger si sono confrontati sul fatto che sui giornali e sugli altri media ci sia sempre meno spazio per la critica di danza e di come immagini, film e testi proposti sui social dalle compagnie e dai teatri cerchino di manipolare in qualche modo l’audience. Le strategie di marketing sostituiranno la competenza?


Simple

Le Performance a cui ho assistito

Black Noname Sosu (Corea)
Nel buio un piccolo neon illumina porzioni di corpo. Raddoppia, mostra gambe e braccia e schiene che si muovono con gesti fluidi fino a perdere le loro connotazioni di parti anatomiche. Si generano strutture, architetture, costruzioni astratte. Le luci cambiano forma, parallelepipedi inseguono i danzatori e le danzatrici che poi giocano fra equilibri e possibilità. Tutto scorre, lento e ipnotico nel mare nero della scena che tutto inghiotte.

Simple Ayelen Parolin/Ruda (Belgio)
Tre uomini in scena con tutine a macchie colorate giocano ripetendo un semplice e divertente gioco: ora non c’è musica, ora i suoni dei passi diventano colonna sonora, ora si canta. Spariscono tutti e tre, creano un ritmo con dei bastoncini colorati, uno di loro ripropone il movimento buffo del compare ma con una variante, si scherza, si spacca tutto. Giocare è una cosa seria. E la danza fa sorridere.

The Ecstatic Jeremy Nedd & Impilo Mapatansula (Svizzera)
L’incontro-scontro fra sei danzatori di colore e due subculture sudafricane. Da una parte pantsula, una forma di danza energetica nata durante l’Apartheid in cui il lavoro dei piedi, rapidi e precisissimi, è protagonista. Dall’altra la Praise Break, nata nel contesto della chiesa pentecostale. Un dialogo che mischia i confini fra estasi e catarsi nell’alternarsi di ritmi, tempi, suoni, melodie e naturalmente danza.

Arrangement Joe Moran Dance Art Foundation (Gran Bretagna)
Come si possono rappresentare uomo e mascolinità nella danza? Sei uomini giocano in scena incarnando questa domanda. Sono i gesti, l’abbigliamento, l’atteggiamento a generare ambiguità? Fuori dal binarismo c’è un mondo giocoso, potente, rivoluzionario, queer, lontano da stereotipi e barriere, pronto a urlare, a lasciarsi interrogare dal pubblico, a costruire faticose torri umane e sciogliersi nel divertimento.

Francesca Rosso

L’universale nel situato: pratiche di confronto per un’indagine sulla rilevanza della mediazione artistica e culturale

I Paesi europei concordano sull’importanza di un’esperienza artistica e culturale dei giovani per sviluppare la loro creatività, il loro pensiero critico, il loro senso di cittadinanza. Come si concretizzano tali valori nei diversi contesti geografici?

Il 22 giugno scorso il Centre National de la Danse di Pantin ha organizzato una giornata di studio dal titolo “L’EAC en Europe: regards croisés” per interrogarsi sul carattere situato oppure universale dell’educazione artistica e culturale; al simposio hanno preso parte formatori, artisti, manager culturali, curatori e direttori di strutture provenienti da diversi paesi europei: Belgio, Italia, Paesi Bassi, Germania e Francia. La mattinata è stata dedicata a una riflessione sul tema della formazione; la sessione pomeridiana, invece, a una condivisione di progetti per il giovane pubblico. Una giornata di testimonianze e dibattiti, dunque, tra professionisti di disparata origine per ispirare riflessioni e confronti sulle pratiche di mediazione della danza.

Anche la Lavanderia a Vapore, Casa Europea della Danza di Collegno, ha offerto il proprio contributo alla discussione condividendo l’esperienza di Media Dance, progetto di innovazione didattica che – dal 2015, attraverso le arti performative – si rivolge alle comunità di studenti degli istituti secondari di primo e secondo grado.

La richiesta del CND ai relatori è stata quella di condividere l’esperienza tramite una pratica rappresentativa dell’approccio metodologico portato all’attenzione degli intervenuti. A tal scopo, è stato coinvolto il coreografo e regista multimediale Salvo Lombardo, dal 2021 artista associato della Lavanderia a Vapore, con il quale, in questi anni, l’area “Innovazione & Ricerca” si è spesso interfacciata per sviluppare preziose progettualità; l’artista era altresì presente in rappresentanza della propria categoria professionale, una categoria che ha proficuamente partecipato alla costruzione delle visioni alla base delle traiettorie del Centro di Residenza (e del settore “I & R” in particolare).

Da un lato, la condivisione di una domanda, che dischiude una comune via di ricerca; dall’altro, lo sviluppo di progettualità in dialogo con le comunità che fruiscono di tali proposte, immaginate e poi realizzate. Sono – questi – i due elementi metodologici che, in questi anni, hanno guidato lo sviluppo di progettualità complesse. Una complessità raggiunta proprio perché costruita progressivamente, grazie al dialogo, alle competenze, alle conoscenze messe a sistema da un gruppo di interesse interdisciplinare composto da creatori, mediatori, traduttori culturali e beneficiari di uno specifico contesto. Spazi di convergenza, sostenuti dalla fiducia reciproca, in cui confluiscono punti di vista diversi capaci di esercitare il potere dell’intelligenza collettiva e di costruire percorsi di senso e di valore comune.

Dal 2015 a oggi la domanda da cui Media Dance ha preso avvio è sempre stata: “In che modo il linguaggio dell’arte della cultura e il luogo teatro possono rappresentare un valore e un senso per la comunità scolastica?”. Un interrogativo – questo – che ha guidato la costruzione della relazione con gli insegnanti, permettendo l’individuazione di uno spazio di senso per il mondo della scuola rispetto alla fruizione delle arti performative. E all’interno di questo perimetro si è stato strutturata la progettualità, di concerto con gli artisti.

Media Dance, nel tempo, ha visto comporsi e intersecarsi una serie di azioni: dapprima una stagione di danza dedicata ai ragazzi, programmata secondo criteri condivisi con la comunità scolastica; dopodiché residenze d’artista a scuola per esplorare nuovi approcci alla didattica e laboratori dedicati alla coesione del gruppo classe al benessere degli insegnanti nonché alla mappatura dei rispettivi bisogni. A rivelarsi fondamentale in un’ottica di sviluppo, è stata anche la condivisione della domanda di cui sopra con altri comparti della società civile, interessati a specifici aspetti dell’universo dell’istruzione, dalla promozione della salute all’innovazione didattica. Dal 2019, infatti, l’Ufficio scolastico territoriale di Torino, l’Università degli Studi di Torino, l’Università di Milano Bicocca, così come Dors Piemonte e l’Asl To 3 sono divenuti parte del progetto in qualità di membri del Comitato Scientifico.

In definitiva, nel corso di questa giornata a vocazione europeista promossa dal CND di Pantin, appassionante e partecipata, la pratica dello sharing di domande e interrogativi, vissuta in un contesto di vasto respiro, ha spalancato prospettive e potenziali immensi di sviluppo, sottolineando però anche la necessità di approfondire ulteriormente questo confronto internazionale a livello locale, per riconoscersi negli altri e quindi incontrare sempre di più l’universale nel situato, indagandone la rilevanza.

Mara Loro, direttrice di Hangar Piemonte

Tra performance, ecologia e lirica alle porte di Deptford. Uno sguardo sulle note marine di Sun & Sea

Tra performance, ecologia e lirica alle porte di Deptford. Uno sguardo sulle note marine di Sun & Sea

La climate opera ricreata su una spiaggia fittizia – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2019 – raggiunge i sobborghi di Londra, inserendosi nella cornice del LIFT Festival, nota kermesse teatrale a vocazione internazionale, nata nel 1981 nella capitale inglese.

Immagina una spiaggia – ti ci ritrovi dentro, o meglio la osservi dall’alto: il sole cocente, la crema solare, i costumi da bagno scintillanti, i palmi delle mani e le gambe completamente sudati. Le membra stanche si distendono pigramente su un mosaico di asciugamani. Immagina lo strillo occasionale dei bambini, le risate, il rumore di un furgone dei gelati in lontananza. Il ritmo musicale delle onde sulla spuma del mare, un suono rilassante (in questa specifica spiaggia, non altrove). Lo scricchiolio dei sacchetti di plastica che volteggiano nell’aria, il loro silenzioso galleggiare in superficie, simile a quello di una medusa. Il rombo di un vulcano, o di un aereo, o forse di un motoscafo. Dopodiché, un coro di canti: canti quotidiani, canti di preoccupazione e noia, canti pieni di “quasi nulla”. E, al di sotto, il lento crepitio di una Terra esausta, che sussulta.

Così Lucia Pietroiusti, curatrice di Sun & Sea (Marina) nonché fondatrice del progetto General Ecology alle Serpentine di Londra, azione strategica e inter-organizzativa volta all’attuazione di principi ecologici grazie a specifici programmi per il pubblico delle Galleries. La nota performance, firmata da un team tutto al femminile di artiste lituane, raggiunge così la periferia londinese, albergando temporaneamente presso un pittoresco sobborgo a Sud del Tamigi in cui gli incidenti fra biciclette e monopattini diventano occasioni per insoliti abbordaggi.

È dunque dall’incontro tra la drammaturga Vaiva Grainytė, la visual artist e filmmaker Rugilė Barzdžiukaitė e la musicista Lina Lapelytė che germina questo strano concerto balneare, tenuto a battesimo tre anni fa a Venezia, ivi ottenendo l’agognata palma come Miglior partecipazione nazionale. Replicato nelle stagioni a seguire al BAM di New York, a Mosca, al MOCA di Los Angeles e all’Argentina di Roma, lo spettacolo – la cui tournée lambirà nei prossimi mesi anche Helsinki, Barcellona e Lisbona – ha fatto appunto tappa, dal 23 giugno al 10 luglio, al LIFT Festival d’Oltremanica, votato per quest’edizione al grido del “Back to Earth”.

I groundling vengono accolti al piano superiore dell’Albany e – armati di libretto – si dispongono circolarmente lungo la galleria superiore della sala, una sorta di balconata metallica che strizza l’occhio in chiave postmoderna alle playhouse elisabettiane di South Bank. Per quanto Sun & Sea non ne sia certo l’artefice, lo schema scenico a pianta centrale con visione dall’alto – qui adottato – risulta comunque assai suggestivo, a tratti ipnotico. La performance operistica, in rotazione continua con slot di fruizione della durata di circa 30 minuti, riproduce fin troppo didascalicamente il setting di una spiaggia affollata, con creme solari, costumi da bagno, palloni in plastica, asciugamani, sandwich e sdraio. La luce che si spande nell’ambiente è però, a ben guardare, tutt’altro che estiva: i numerosi fari incatenati alla graticcia si proiettano infatti a terra in maniera fredda, angosciosa, analitica, vivisezionando oggetti e corpi come se fossero disposti sopra un tavolo settorio.

A determinare un interessante contrasto con queste “nature vive” e iper-dettagliate (la cui più emblematica ipostasi risulta essere il cane che scorrazza attorno all’ensemble, descrivendo da parte sua un’imprevedibile linea drammaturgica) sono le litanie del quotidiano, intonate a turno – ora in assolo, ora in duetto, ora in coro – dagli attori-salmodianti: sprazzi di storie che scivolano tra il sinistro e il surreale, tra il mondano e il banale (nel senso di ordinary).

Gli spettatori-testimoni, frattanto, scrutano l’happening dall’alto, liberi di muoversi scegliendo un proprio focus d’attenzione. La spiaggia e i suoi inquilini, tuttavia, sembrano tradire la promessa di mesmerismo annunciata nel foglio di sala: difficile infatti non cogliere in Sun & Sea, pur giustamente acclamato dai grandi del «The Guardian» e del «New York Times» (e, in effetti, lavoro di cesello e cura delle cromie sono qui indiscutibili), un certo voyeurismo, che sfocia occasionalmente in una sorta di melodrammatico virtuosismo o comunque nell’incapacità di catturare a pieno l’osservatore, di istituire con lui un’interazione emotiva. Insomma, di immergerlo nella battigia.

Raffinato e amabilmente sarcastico è il testo, che – oltre a rinverdire la tradizione operistica, data dai più per morta – suona come un epigrammatico monito: se altrove stride, Sun & Sea riesce quindi perfettamente nell’intento di esplorare – a livello tattile e insieme sonoro – la relazione tra invasione antropica e pianeta, tra corpi e natura, configurandosi (in questo senso sì) come una performance ecologica.

Matteo Tamborrino
(ringrazio – per alcuni spunti di riflessione – Alice, Monica, Riccardo e Valentina, che hanno condiviso con me questa visione)

Un’opera-performance di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė
testi Vaiva Grainytė
traduzione inglese dal lituano Rimas Užgiris
musiche e direzione sonora Lina Lapelytė
regia e scenografia Rugilė Barzdžiukaitė
curatrice Lucia Pietroiusti
produzione (tournée) Aušra Simanavičiūtė
produzione e direzione di scena Erika Urbelevič

Vista a Deptford (London), The Albany, il 10 luglio 2022

Danzare la scrittura con How Do You Spell Dance: un reportage

Danzare la scrittura con How Do You Spell Dance: un reportage

Come si può danzare con le parole? Da questo interrogativo ha preso avvio il progetto HDYSD, laboratorio intensivo per imparare a “danzare attraverso la scrittura”. Un’occasione per evocare l’intima essenza di un lavoro coreografico mediante l’uso consapevole di pratiche e tecniche compositive.

Nell’atto di guardare, la retina scompone e ricompone l’immagine. Se l’immagine è in movimento, gli occhi scrivono una coreografia di connessioni tra frame, un montaggio mentale fatto di associazioni e ri-significazioni, come quando, guardando fuori dal finestrino, il ritmo del treno seziona il paesaggio a scatti per restituire una nuova geografia: se la visione, poi, è esercitata su un processo in azione, su un corpo vivente, questo ci riguarda e, interrogandoci, riscrive l’immagine che abbiamo di noi stessi.

HOW DO YOU SPELL DANCE, campus immersivo ideato da Lavanderia a Vapore, insieme a Springback Academy e Scuola Holden, in collaborazione con Aerowaves e con il supporto di Boarding Pass Plus Dance, ha abitato gli spazi del Centro di Residenza di Collegno dall’8 al 10 giugno, riunendo attorno al tema del dance writing oltre venti tra operatori, artisti, formatori e studiosi provenienti da tutta Italia. 

Oonagh Duckworth e Sanjoy Roy di Springback Academy è spettato l’onere di “aprire le danze”, preparando i partecipanti alla visione mediante l’allenamento dello sguardo a qualsiasi tipo di movimento: “un esercizio di pulizia da sovrastrutture e pre-concetti che spesso si frappongono nella visione di una performance o di un gesto artistico”. Dopo una breve sessione di tête-à-tête conoscitivi, il gruppo si è trasferito in esterna tentando di cogliere quella danza naturale, urbana e cosmica troppo spesso celata agli occhi dell’essere umano: insetti, automobili, fronde. Un viavai impercettibile di suoni e gesti. Il successivo confronto con forme codificate di uso dal corpo – dalle azioni rituali dei tennisti allo scattoso (super)marionettismo di Buster Keaton – ha permesso di chiarire quali ricettori fosse più opportuno attivare nell’atto dell’osservare. La sfida lanciata a questo punto dal duo Duckworth/Roy è stata quella di scomporre alcune pillole di danza – proposte in video – mediante l’ausilio di tre direttrici altamente atipiche: hearing (quali suoni evoca la danza?), smelling (che odore ha?), in the body (che cosa avviene nel corpo?). La giornata si è conclusa, nuovamente a coppie, con un bizzarro “gioco di ruolo”: ai players veniva richiesto di assumere o la parte del coreografo o quella del cronista, sperimentando così due posture completamente opposte di racconto dell’evento artistico.

Nei due giorni a seguire, a prendere il timone di HDYSD è stata Marta Pastorinodocente Senior nella Didattica della Scuola Holden in Academy. Tra pratica fisica ed esercizi di scrittura, ciascun partecipante è stato condotto alla restituzione in forma scritta dell’esperienza vissuta nel corso della serata dell’8 luglio, momento della visione di ESERCIZI PER UN MANIFESTO POETICO, opera prima del Collettivo MINE, proposta nella cornice di Interplay Festival.

Ciò che porto con il mio insegnamento – spiega Marta – nasce dall’intento di unire due mondi, corpo e scrittura. In questo laboratorio mi sono proposta di sostenere e guidare chi danza, o chi lavora in questo ambito, a cercare le parole nel corpo e non altrove, soprattutto non nella testa. Le parole nascono dal corpo, dalle sue esigenze, dalle sue risposte. Contemporaneamente, ho condotto il percorso in direzione contraria, provando a sostenere chi scrive a trovare il corpo nelle parole, perché a volte vengono usate parole scollegate, astratte, vuote, difficili, addirittura incomprensibili, che rischiano di essere respingenti. Scrivere di danza può invece essere chiaro e facile, soprattutto aderente all’oggetto raccontato: una coreografia con i suoi codici ben precisi. Così mi sono appoggiata alle principali strutture narrative e alle principali strutture del movimento per creare questo rapporto, un legame naturale e profondo, che mi pare sia tutto da riscoprire.

Ai dance writers è stato dapprima richiesto di scomporre a livello semiologico il fenomeno scenico, minuziosamente analizzato nella sua grammatica oggettiva, nei suoi fonemi primi; dopodiché, di trasferire tale visione – sezionata con atteggiamento certosino – nell’analogico flusso del proprio intimo, estrapolandone percezioni fisiche, riflessioni intellettuali ed emozioni nascoste. Il tutto condito da eserghi e immagini. Obiettivo ultimo, l’elaborazione di un testo finale in tre formati – lungo, medio e breve – rivolto a un preciso target e afferente a una specifica tipologia stilistica o narrativa (dalla recensione critica al foglio di sala, dal racconto al podcast).

Numerose le pratiche motorie e fisiche intarsiate da Marta Pastorino all’interno dello scavo verbale, a partire dal lancio di palline da tennis per instillare nel gruppo un bisogno di relazione, fino a raggiungere esplorazioni fisiche – ora collegiali ora solitarie – dello spazio della sala prove. E ancora: esercizi di prossemica, esperimenti di rilascio corporeo, pause di rilassamento.

Reportage a cura di Matteo Tamborrino


Si pubblicano qui di seguito alcuni esiti del campus di HDYSD…

Lettera immaginata

Caro Enea,
la luce accecante che a intervalli sorprende i miei occhi abituati al buio delle gallerie mi ricorda le notti in cui bussavi alla porta della mia stanza. Toc toc toc toooc, toc toc toc toooc. Improvvisamente accendevo la luce, il giallo invadeva lo spazio.

Il procedere regolare del treno, lampo di luce dopo lampo di luce, mi porta in salvo dal rigore che ho assorbito guardandoti, ma che non mi appartiene. Vado in bagno. Osservo nello specchio il mio volto ingrigito dalla luce fredda. Lampo, buio, lampo, buio, tum, tum, tum, tum.

Fuori dalla stazione riconosco quella che sono diventata nei soldatini sovraesposti sotto la luce forte di mezzogiorno. Vanno a tempo. Non si guardano, non si parlano, non si scontrano, procedono ritmicamente con gli occhi rivolti verso il proprio orizzonte. Anche i carretti trainati da mucche bianche sussultano, si sfiorano ma non si scontrano. Mi imbarco verso l’isola, è un viaggio lungo, il molleggiare non mi dà tregua. Soffro il mal di mare, sento la fatica di chi questi chilometri li farebbe correndo. A Stone Town salgo su un furgoncino non ammortizzato; percepisco ogni imperfezione dell’asfalto, sento le mie articolazioni sgretolarsi all’impatto col terreno. Quando finalmente arrivo a Nungwi non mi libero dal ritmo del mondo. Sussulto, sussulto, sussulto, sussulto. Incontro il mio host, la sua voce è un tamburo: «jambo jambo». Mi consegna le chiavi, scalino scalino, tic toc. Giro la chiave nella serratura (clic), la porta sbatte (bum), lascio cadere a terra il mio zaino pesante (bu-bum).

Mi sveglio sotto la luce prepotente di un soleggiato pomeriggio tropicale. Una sagoma scura fa ombra sul mio corpo e improvvisamente si sposta. Quando riacquisto la vista mi trovo circondata da quattro ragazzi africani. Ci scambiamo qualche occhiata a vicenda. Immagino il battere dei loro cuori (bu-bum, bu-bum). Poi la sagoma, nell’abito tipico dei masai, mi mostra qualche salto tribale. «Prima volta qui?».

Benedetta Colasanti, dottoranda e critica teatrale

Viaggio dall’1 al 5 all’1
(lancio promozionale dello spettacolo da parte di un ipotetico membro della compagnia)

Cinque come i cerchi olimpici, cinque come una squadra di pallacanestro, cinque come il 4 con del canottaggio. Cinque corpi, un unico organismo che si muove formando linee e motivi nello spazio come uccelli in migrazione, sciami di insetti, api in viaggio. L’uno si scioglie nel noi, il coro diventa individuo, ciò che non si può dividere; l’uno diventa cinque, numero primo, indivisibile.

Una riflessione sulla società della performance che traduce il linguaggio dello sport in danza. Cinque corpi in scena vestiti di bianco come tennisti Anni Settanta. Una pulsazione ritmica e continua che sembra un passo di aerobica. Fin dal titolo. Lo spettacolo “Esercizi per un manifesto poetico” del collettivo Mine è un lavoro sull’esercizio fisico che è concentrazione, resistenza, ascolto del corpo e degli altri mentre il sudore colora gli abiti bianchi e i visi si fanno rossi. Poetico nel senso della “poiesis” del fare. Quanto lo sforzo fisico è appagante, sfidante e coinvolgente? Quanto è drogante vivere nella modalità del fare e non dell’essere? Cosa succede quando ci si ferma?

Un salto diventa leitmotiv dello sforzo, dell’abilità e della resistenza. Accompagnati da una musica pulsante e che cresce in modo lento e costante i cinque performer saltano da un piede all’altro, prima poggia il piede esterno, subito dopo l’altro. Le imperfezioni danno valore al tutto. Da cinque diventano uno, come un pensiero in movimento, un unico sistema corpo-mente. Un unico cervello che è pancia-cuore-piedi e ci invita a riflettere sulla perdita del sé nella società dell’efficienza a tutti i costi ma anche ad accogliere l’Altro e farsi assorbire dal suo abbraccio.

Francesca Rosso, giornalista

Lo spettacolo fatica
Ipotetico discorso che un membro del Collettivo MINE potrebbe utilizzare come pitch per presentare e pubblicizzare il senso del proprio spettacolo.

La maggior parte delle volte le persone guardano uno spettacolo e non vedono la fatica che ci sta dietro, il sangue, il sudore, le lacrime. La maggior parte delle volte le persone vedono il risultato, la bellezza finale, senza contare l’allenamento, senza riflettere sullo sforzo di pensare alla coreografia e mettersi a provare e provare ancora e ancora e ancora.

Eppure, lo sforzo c’è, esiste negli allenamenti e nelle prove, tra un tentativo e l’altro, tra un fallimento e un successo. La fatica c’è dall’inizio alla fine, dalla prima idea avuta al momento in cui le luci si accendono per la prima volta e per la prima volta in platea c’è qualcuno a guardare. Persone che hanno pagato un biglietto per essere intrattenute, per essere affascinate, per immergersi in un mondo che noi abbiamo creato per loro.

Durante il nostro spettacolo, dal primo momento in cui cominciamo a muoverci, uno-due, un passo dopo l’altro, è la fatica la protagonista al centro del palco, illuminata da riflettori laterali e narrata tramite i nostri gesti, uno-due, tre-quattro. Il nostro sangue, il calore, il nostro sudore. Non raccontiamo una storia o un’immagine. Raccontiamo un sentimento: la fatica, passo dopo passo. Lo stesso sentimento che abbiamo provato tutti almeno una volta: lo sforzo di fare sempre la stessa cosa ancora e ancora, la ripetizione, la routine, la vita di tutti i giorni.

È la fatica che si muove tramite i nostri cinque corpi, la coordinazione che ci lega, che conta, uno-due, passo-passo, uno-due, tre-quattro, saltello dopo saltello. E conta come una mente unica, e noi ci muoviamo come una mente unica, siamo una cosa unica. Lo sforzo, le lacrime, il sudore.

Non tutti gli spettacoli hanno il coraggio di mostrare la fatica che c’è dietro.

Pietro Carraro, studente Scuola Holden

Nella società di M.I.N.E. le persone non camminano. Saltano.
Si spostano nello spazio saltando, in perfetta sincronia. 
Ogni tanto qualcuno decide di prendersi una pausa, per poi ripartire insieme al resto del gruppo.
A volte capita che qualcuno vada fuori sincrono. Questo però non è un problema.
Nella società di M.I.N.E. non esiste l’errore. Non esistono le categorie di giusto e sbagliato, attraverso le quali riconoscere un fuori sincrono come un errore.
Chi si trova fuori sincrono decide per quanto tempo rimanerci e decide quando tornare insieme al gruppo.
Altre volte invece, più che prendere queste decisioni, lascia che accadano da sé.
I 5 membri della società si accordano su come organizzarsi nello spazio e nel tempo secondo logiche a noi ancora sconosciute.
Quello che sappiamo è che ciascuno di loro ha pari responsabilità verso la società.
La società di M.I.N.E., altrimenti nota come la società bianca, si autodefinisce come uno spazio-tempo sincronico delle possibilità. Accetta l’ingresso di nuovi membri ogni 4 anni. 
Se siete interessati, segnate sull’agenda il 1° gennaio 2432.

Francesco Dalmasso, danzatore e coreografo

Solo un altro giro

Buio.

Luce.

Cinque corpi entrano in scena e iniziano a saltare; a destra e a sinistra, destra e sinistra. Saltano, cambiano posizione sul palco. E saltano. Cambiano direzione. E saltano. Qualcuno si ferma, prende fiato, poi torna a saltare. I vestiti bianchi si attaccano alla pelle, intrisi di sudore. Le loro facce sono paonazze, le gambe si muovono senza controllo.

E tu, seduto tra il pubblico, li guardi saltare a destra e a sinistra e anche tu ti muovi a destra e a sinistra. Ti senti in dovere di seguirli, se non lo fai ti senti in colpa. Nessuno di loro può cedere, tu non puoi cedere. E allora il corpo ti asseconda in questa spasmodica fuga dal fallimento. Sei intrappolato dentro un vortice dal quale non riesci e non vuoi uscire. Come quando da bambino andavi al parco. Alcuni bambini si avvicinavano a te e ti invitavano sul girello, sali sopra, ti dicevano. E tu ti lasciavi convincere, anche se al parco ci eri andato per fare lo scivolo, perché la velocità ti dava fastidio. Iniziavi a girare, sempre più forte. I bambini intorno a te urlavano e ridevano. Ti sentivi il corpo spingere verso l’esterno del girello, se ti fossi lasciato andare saresti volato a terra e loro ne sarebbero stati divertiti. Ma tu no, ti veniva il voltastomaco e ti girava la testa; il tuo corpo era molle e incapace di reagire. Volevi dire a quei bambini che basta, ti girava la testa e volevi solo scendere e fare lo scivolo. Ma ti rimettevi seduto; non dicevi niente, chiudevi gli occhi e continuavi a girare. E così, loro continuano a saltare e tu sei uno di loro. Nessuno può mollare. È la performance della società: la società della performance.

Poi, dopo un tempo che pare infinito, i corpi si fermano. Il loro sguardo si fa vivo e si guardano, quasi a dire: ma cos’abbiamo fatto fino a ora?

Sorridono. E, uno dopo l’altro, tornano a saltare, a destra e a sinistra.

Buio.

Giorgia Borgioli, studentessa Scuola Holden

A seguire, due recensioni di taglio nettamente speculare, nate in seno ad HDYSD come ludiche “prove di stile”, senza alcuna pretesa di rispecchiamento del reale pensiero delle penne scriventi (anzi, volendolo piuttosto ribaltare ed esacerbare). Così, ponendosi su versanti opposti e rivolgendosi a platee divergenti, i due dance writers – “giocando con le parole” – hanno tentato di parteggiare calorosamente o, viceversa, di stroncare amaramente lo spettacolo in oggetto.

Incarnare il proprio tempo
(per un tentativo di recensione che può restituire spessore al lavoro coreografico)

Gli sguardi lanciati davanti, verso un futuro che non accade mai. Individui vicini che non si sfiorano, non collaborano, non interagiscono: si muovono insieme, ma nessuno è realmente compagno di strada. Corpi giovani, prestanti, efficienti, competitivi che incorporano i valori culturali del nostro tempo, dell’autonomia, dell’autocontrollo, della produttività. Il Collettivo Mine sembra incarnare il concetto di società liquida formulato da Z.Bauman abitando lo spazio scenico nella ripetizione ostinata di saltelli, un movimento continuo che non conduce realmente in nessun luogo, ma che occupa il tempo e comprime gli spazi, trasformando continuamente la formazione in scena. Un riposizionamento continuo richiesto dalla flessibilità e dalla precarietà della nostra società. Il cambiamento è l’unica cosa permanente e possibile, come una solidarietà organica ai ritmi circostanti. È nella stasi – una pausa necessaria ai performer quanto al pubblico – che gli sguardi diventano vivi e gli interpreti si riconoscono comunità, nella forma aggregante del cerchio, lasciando da parte per un attimo il bisogno di apparire al pubblico per esistere. Il bianco asettico della scena si scalda in ambra, i corpi si intuiscono in penombra, si sciolgono nella fatica. I costumi evocano l’aspetto ginnico, sostenendo la cifra stilistica coreografica. Gli esercizi per un manifesto poetico, sono quindi l’allenamento quotidiano a cui la generazione degli interpreti è sottoposta suo malgrado. Resistenza fisica come resistenza civile. Una pièce di denuncia, necessaria e profonda.

Federica Loredan, danzatrice, musicista, antropologa

Interplay Festival. Cinque nerboruti anatroccoli per un manifesto non poetico
(per una stroncatura talmente assurda e paludata da suscitare il riso)

Che noia questi Esercizi per un manifesto poetico, prima prova del Collettivo Mine, germinato dall’incontro (alquanto infelice, verrebbe da dire) fra Francesco Cavaliere, Siro Guglielmi, Fabio Novembrini, Roberta Racis e Silvia Sisto. Lo spettacolo delude su ogni fronte le aspettative del pubblico, che spera di trovarsi dinanzi a un biglietto da visita ma vede piuttosto una neonata compagnia impegnata nel proprio canto del cigno. È un cigno spennacchiato, peraltro, un brutto anatroccolo mai sbocciato. La performance – della durata (infinita) di appena tre quarti d’ora – si riduce a una sequela di azioni fisiche di estenuante frontalità, al bisogno ripensate in nuove ed egualmente inconsistenti geometrie, compiaciute quanto basta, sterili come poche. Tanto per dirne una, i saltelli venuti a un certo punto a infrangere la monotonia dello step (senza tuttavia riuscirci) non danno al pamphlet coreografico alcuna progressione. Nessun turbamento dell’ordine costituito: gli interpreti, appagati dal proprio stesso sudore, si spingono fino allo strenuo delle forze, mossi esclusivamente da un edonistico autocompiacimento. Non bastava iscriversi in palestra? Ci avremmo risparmiato tutti. Purtroppo questi Esercizi aerobici non stanno in piedi, non spiccano il volo. Sembrano anzi condotti con il pilota automatico: vacillano stancamente sotto il peso ossessivo della ripetizione. Unica nota positiva, l’ostentata tornitura dei corpi, vigorosi invero, benché intabarrati in look da tennisti, francamente oziosi. Il montaggio delle azioni resta tedioso, debole nonostante lo sforzo, mal assortito. I danzatori non sono neppure rigorosi nel coordinarsi: qualcuno si ferma, qualcun altro prosegue; qualcuno irrigidisce le braccia, qualcun altro è più lasso. Peccato per Siro Guglielmi, che ci aveva deliziato in passato al fianco di Silvia Gribaudi. Insomma, un manifesto poetico che spuzza di testamento.

Matteo Tamborrino, dottorando, operatore culturale e critico