I blogger della redazione itinerante di We Speak Dance restituiscono il proprio sguardo su Un poyo rojo, in scena il 4 febbraio al Teatro Sociale di Valenza e il giorno successivo al Teatro Toselli di Cuneo.
Nello spogliatoio di una palestra due uomini si affrontano, quasi due galli da combattimento, si scrutano, si squadrano, si provocano, si seducono. È il racconto di un incontro d’amore tra danza, acrobatica e comicità. Un Poyo Rojo è una provocazione, un invito a ridere di noi stessi esplorando tutto il ventaglio delle possibilità fisiche e spirituali dell’essere umano.
di Alfonso Baron, Hermes Gaido, Luciano Rosso coreografia Luciano Rosso, Alfonso Baron regia Hermes Gaido interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón produzione Timbre 4 Buenos Aires, Carnezzeria srls
Tu non hai paura dei tuoi istinti? di Giorgia Borgioli
Siamo nello spogliatoio maschile di una palestra, ci sono due uomini e una radio.
I due si vedono, si incontrano, si conoscono, si orbitano attorno a lungo e, alla fine, si desiderano. I loro corpi oscillano tra la competizione e il desiderio, tra la fuga dai propri istinti e l’accettazione. Sembrano chiedersi: tu non hai paura dei tuoi istinti? E sembrano chiederlo anche al pubblico.
Uno di loro va alla radio e cambia canale.
Click.
Parla l’esponente di un partito politico piemontese.
Click.
La ricetta per le lasagne vegetariane.
Click.
Dentro il tempio di virilità dei giorni nostri loro si provocano, e l’attimo dopo si subiscono a vicenda, si sfidano e poi si alleano tra di loro, ma soprattutto con sé stessi. Si riappacificano con quella vocina dentro di sé che dice “è sbagliato”, che ciò che stanno sentendo non si può sentire, che loro sono sbagliati, da soli e insieme.
La scena è un ring, dove una lotta continua tra il soffocamento degli impulsi e la loro liberazione coinvolge il pubblico, fino a divenire danza.
Click.
Le notizie del giorno.
Click.
La hit estiva della scorsa estate.
Click.
I risultati della partita di campionato.
Click.
Ora invece la radio trasmette una canzone dalle note dolci, una melodia inequivocabile d’amore.
Nessun click.
La canzone va avanti e continua fino alla fine dello spettacolo.
È lei è la canzone che mette d’accordo tutti: sul palco, in platea, e ovunque.
Sguardi sulla vanità di Zoe Guindani
Inizia lo spettacolo.
Un armadietto di ferro, una panca, una radio; siamo nel tempio della mascolinità, in un luogo anomalo per una rappresentazione teatrale: una palestra.
Questa apparente nemesi del teatro diventa il palcoscenico perfetto per la crisi identitaria di un uomo e della sua mascolinità.
Ma andiamo con ordine.
Due uomini, una palestra; uno seduce l’altro e l’altro lotta con le sue pulsioni, per sfociare infine in un rosso, rossissimo bacio.
La storia finisce qui, ma lo spettacolo è concentrico: i danzatori continuano a girare in tondo, come attratti da un magnete che in base a come lo si posizioni attrae e respinge dal suo centro: la sessualità.
I corpi di Alfonso Barón e Luciano Rosso, esplosivi, grotteschi e malleabili, esplorano le possibilità dell’attrazione e della repulsione senza vergogna e senza barriere, attraverso prima di tutto, l’animalità.
Da uccelli che non riescono a volare a polli sgraziati sino a pantere sinuose, sembra che gli animali, con i loro movimenti istintivi, nascondano la chiave per capire le profondità umane. Quando i due uomini raggiungono il massimo della tensione, emotiva e sessuale, ecco spuntare alette rachitiche e colli sgraziati: si trasformano in polli.
Lo spettacolo, col suo sguardo divertito sulla vanità maschile, esplora con ironia il confine sottile tra machismo e omosessualità.
Ma se il pubblico è parte integrante di un’opera d’arte, in un paese ancora cattolico e ancora profondamente scandalizzabile come l’Italia, lo spettacolo è un perfetto metro di studio del pubblico italiano.
In un paese in cui la risata è da sempre il modo di esorcizzare la paura, le risa, liberatorie e fragorose, su due uomini che sono uno attratto dall’altro, lungi dal dimostrare una comprensione delle contraddizioni della natura umana, dimostravano un nervosismo di fondo.
Non tanto riguardo l’omosessualità, ma riguardo la sessualità stessa.
Ma se ciò di cui si parla non è risibile, non è grottesco ed esorcizzabile, allora cala un silenzio tombale. Davanti a veri gemiti e a movimenti sinuosi, il pubblico pareva ghiacciato, col fiato sospeso nell’attesa di un risvolto comico per liberarsi del peso che li opprimeva.
Ma un Poyo Rojo nasce in Argentina, in un contesto sociale preciso, quello di un discusso progetto di legge per il matrimonio omosessuale. Nasce come una ribellione, un tentativo di affrontare il tema con leggerezza, di normalizzare i corpi, di amarli anche nelle loro brutture, di giocarvi e di ridervi (lo spettacolo è infatti pieno di sputi, schiaffeggi, risa, urla, scatarrate e sniffate di sudore) e in ciò lo spettacolo riesce perfettamente, ed è lodevole nella sua vivacità.
Credo vi sia l’urgenza di recuperare la valenza morale e sociale di una danza ridicola, che sappia ridere di sé stessa e accettare l’essere umano nella sua totalità di essere in divenire: talvolta incantevole, talvolta irrimediabilmente buffo.
We are so pop! di Eleonora Natilii
Riscaldamento.
It’s getting hot in here!
Siamo uguali, io e te.
Tik Tok.
Chi é?
Sono io, il vuoto. Passavo di qui… Ti va un selfie? Vengo sempre bene.
Hey, relax man.
Sono Clint. Clint Eastwood.
È un po’ difficile, faticosa, tutta questa follia.
Aspe’ ché mi trasformo un attimo.
Aspetta.
Tik Tok.
Chi è?
Fai un balletto.
Fai lo scemino.
Fai un ballettino sciocchino.
Fa un po’ paura, tutta questa follia.
Yeah yeah!
Yo, man!
YEAH!
Tendu.
Allongé.
Bird.
Bird?
Sì, bird.
Il Lago dei Polli.
RELEVÉ!
Sto avendo qualche difficoltà.
Ti spiace stringere un po’ meglio il nodo?
Alla chiappa?
Alla gola.
Facciamo la chiappa, va.
Devo bere…
Accendi la radio ché c’è il derby Inter – Milan.
L’asciugamano mio è quello bianco, quello tuo è quello rosso.
Rojo.
Hey man, ce l’hai una sizza?
Turn up the music, man! Hey, man! Woohoo!
Sono io quello lì allo specchio?
No… quello lì è il vuoto. Tu sei quello dietro.
Forse dovrei smettere di fumare. Magari domani.
Si sta asciugando il sudore sulla schiena. La canottiera di Rorschach.
La canotta tua è bianca, la mia è quella rossa.
Vuoi entrare sotto la luce, nella canotta, nella mia stanza?
È difficile staccarsi, in questa danza.
Com’è divertente, tutta questa follia.
We are so pop!
Come siamo lirici.
Il desiderio è circolare: senza non si può stare.
Sempre, sempre, si desidera qualcosa sempre.
Una storia d’amore.
Pensieri sconnessi e radio per Un poyo rojo, l’Argentina e Cuneo di Mirco Spadaro
«En un vestuario vacío, dos hombres juegan con el movimiento, una radio analógica y unos diminutos pantalones cortos. Los cuerpos atléticos de Luciano Rosso y Alfonso Barón pasan con fluidez de la lucha a la danza, de la acrobacia a la comedia física en una irresistible distorsión de las expectativas de la virilidad. […] Naif, kitch, poncif»; è il 34’ minuto; la radio sfiata su di noi che siamo sotto il palco e stiamo lì a osservare Alfonso Baròn e Luciano Rosso. Uno è seduto su una panca: fuma centordici sigarette e guarda l’altro. L’altro si osserva allo specchio. GOOOOOOOOL! GOOOOOOL! 1-0 INTER, LAUTARO!! Angolo di Calhanoglu dalla sinistra, il Toro colpisce di testa: deviazione di Kjaer, Tatarusanu battuto! Anche i due uomini nello spogliatoio scenografico di fronte a noi applaudono; poi cambiano stazione: ora c’è della musica dance. È una radio vera, ci spiegheranno un po’ in italiano e un po’ no alla fine dello spettacolo: è una radio vera di quello che sta succedendo nel mondo attorno a noi, ora, e al contempo, sul palco, la radio vera di uno spettacolo che accade da 14 anni sui palchi del mondo.
Progetto nato nel 2008, inizialmente dalla mente di Luciano Rosso e Nicolás Poggi, un Poyo Rojo non usa parole: non conosce barriere linguistiche, ma non usa nemmeno musica, almeno non nel senso più convenzionale del termine; dalla buffoneria di Tom e Jerry alla disciplina marziale della marcia soldatesca, sono le espressioni, i movimenti scomposti, mimetici e didascalici fin quasi all’eccesso nel loro voler essere imitazione della realtà, il filo, un poco rosso, della competitività virile e machista che diventa, pian piano, amore e sensualità. Complicità, seduzione, diffidenza, ironia, seduzione e tanta, tanta immaginazione. Il pubblico sugli spalti ride durante l’esibizione; non vedevo una folla a teatro così tanto divertita da tempo. La ragazza sulla poltroncina rossa di fianco alla mia si sganascia; alla fine si alzerà in piedi e applaudirà a piene mani per interi minuti.
E poi c’è quella radio che viene accesa circa a metà della performance; sintonizzata sempre sull’emittente locale del momento e della città dove si trova il duo; la chiamano “drammaturgia del caso”. Un Poyo Rojo continua ancora oggi, che è il 2023, e fino ad qui ha visitato paesi di differenti continenti, dall’Uruguay alla Bolivia, dalla Germania all’Italia, dalla Francia a Nuova Caleidonia.
Mentre siamo sulla navetta che torniamo verso Torino ne parliamo, di un Poyo Rojo; io ho una certa sete. Da stamattina sono in piedi con un solo caffè, uno lungo, e tanto, troppo lavoro arretrato; ascolto più che parlare; appoggiato al finestrino osservo Cuneo che scompare e le colline oltre il guard rail dell’autostrada. La maggior parte di noi sono entusiaste; lo spettacolo ci è piaciuto tanto. Abbiamo però dei dubbi; quello che abbiamo visto ci è piaciuto, sì, ma alcune cose ce le domandiamo, alcune cose le abbiamo trovate, riportate al 2023, in un certo qual modo “vecchie”, in un certo qual modo, ecco, fuori tempo massimo. M’immagino a Ciudanza, a Buenos Aires, a vedere una delle prime rappresentazioni: sicuramente sarebbe stato diverso.
Se si apre Wikipedia, che non è la migliore fonte d’informazione ma sicuramente una delle più usate, come prima alla pagina “Diritti LGBT in Argentina” si legge questa frase: “I diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) in Argentina sono tra i più avanzati al mondo”. Il 15 luglio del 2010, decimo paese nel mondo, il primo in America Latina, l’Argentina ha legalizzato il matrimonio omosessuale; quest’informazione la ricordo: anche da noi se n’era parlato molto. Non solo matrimoni, comunque: i suoi legislatori, dell’Argentina intendo, che seguono dal 1983 una transizione nazionale verso la democrazia, hanno scritto e approvato nel 2012 una legge sull’identità di genere che consente alle persone di cambiare il loro genere sessuale, legalmente, senza dover prima affrontare barriere di terapia ormonale, chirurgia di riassegnazione del sesso o diagnosi psichiatriche di sorta; l’U.S. News & World Report del 4 aprile 2016 di Kamilia Lahrichi e Leo La Valle possono essere un ottimo approfondimento a proposito, così come i numerosi e ben scritti articoli della BBC Mundo. “Siempre hay un efecto dominó, de imitación, tal como aquí se aprobó luego de que se hiciera en España”, disse al tempo César Cigliutti, presidente della Comunidad Homosexual Argentina. Era il 15 luglio 2010; c’è sempre un effetto domino, di imitazione. Mi convinco che sia in fondo questo il grande sentimento che rende ancora tanto attuale un Poyo Rojo; che sicuramente anche lui invecchia, che certi stereotipi sul palco possono essere oggi stati levigati, in un certo qual modo riscritti, ma il messaggio, la sensualità e quella grande dichiarazione, seria e divertente, che certe cose sono umane e non hanno una lingua da capire ma solo dei gesti universali, quello non invecchia mai, non importa la musica della tua radio. C’è sempre un effetto domino, de imitación.
Un gioco a due, a fare sul serio di Maria Rosaria Visone
Esiste un’idea comune, quasi conclamata, per la quale aprire le porte di uno spogliatoio maschile vuol dire entrare in un tempio di esaltazione della virilità e della mascolinità. Come se in questi luoghi non siano contemplate altre forme, idee o generi diversi da quello puramente maschile, riducendosi a mere ipotesi irrilevanti. E da donna vivo nel dubbio, sperando davvero non sia così, che esista ancora spazio per vivere liberamente la propria identità. Eppure, entrare al Toselli di Cuneo questa prima domenica di febbraio ha significato esattamente questo: catapultarmi in una circostanza a me distante, percepire quella latente tossicità che spesso ci circonda, distruttibile solo se si procede senza troppe ringhiere sul cuore.
Da uno dei palchetti centrali del teatro, i miei occhi si sono affacciati su un ambiente riconoscibile, comune, composto di pochi elementi: una panca in legno, degli armadietti grigi, qualche bottiglietta d’acqua, una radio portatile. Il minimo indispensabile per annunciare un “Noi siamo qui. In un semplice spogliatoio per uomini, nel quotidiano di un presente qualsiasi. Inaspettatamente, proprio qui accadrà qualcosa”. Ancora con le luci accese in sala, un semibuio sul palcoscenico mostra due uomini che si riscaldano, ognuno con modi e tempi propri, come se il pubblico non fosse lì ad osservarli. Poi, insieme avanzano verso il proscenio con una presenza fisica inspiegabile, attirando l’attenzione della platea e iniziando un sincronismo gestuale: parte così Un poyo rojo, uno spettacolo imprevedibile, un duello senza troppe regole che, con trovate geniali e inaspettate, incontra lo sguardo divertito e incantato del pubblico.
In scena, i due interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón, con la regia totalmente fuori dagli schemi di Hermes Gaido, sono una potenza estrema. I loro corpi flessibili, acrobatici, guizzanti, esplorano ogni angolo del palcoscenico: a mo’ di sfida giocosa, proprio come dei bambini, indagano possibilità fisiche e mimiche per la mente umana impensabili. E sono queste “probabili impossibilità”, questi continui estremismi fisici, a far sorridere il pubblico. Intermittenti, laute risate invadono la platea, raggiungendo il palco e caricando sempre più la partita tra i due interpreti. Se ne rallegrano, senza mai abbassare la guardia: sono irrefrenabili. Si alternano nella loro disputa immaginaria, che vive tra il comico e il conflittuale. È come un dialogo muto, un passaggio di palla sincero, privo di superbia o pretese di vittoria.
Durante la performance, la coppia sconosciuta comincia a delinearsi. Spuntano fuori le insicurezze di uno, la reticenza dell’altro. Poi la voglia di entrambi, l’incontro e la complicità dei loro corpi. Intanto la radio, sintonizzata dal vivo, accompagna e riflette gli animi dei due interpreti. La musica, le voci delle speakers e dei dibattiti radiofonici attraversano i loro corpi, facendo procedere quella lotta interiore infinita tra ciò che si vuole e ciò che non si vuole mostrare. In balìa del giudizio, della paura, tra le mura di uno spogliatoio qualunque. Eppure, è chiaro: sono corpi desiderosi di aversi, di spaccare tutto, anche gli stereotipi sociali.
Viene da chiedersi qual è stato il momento esatto in cui tutto è cominciato.
Quando è che il gioco è passato a non essere più un gioco.
E chi ha vinto la partita?
C’è mai stata davvero una sfida?
Tra le mani, nessuna risposta.
Resta solo il sapore di un incontro nascosto, a luci rosse.
Un momento intimo, che rimane negli occhi di chi l’ha sbirciato.
E trovare spiegazioni passa in secondo piano: è proprio vero, a teatro si gioca a fare sul serio.
L’opera electrica /ecosi’stɛma/ – in residenza alla Lavanderia a Vapore fino allo scorso 22 febbraio – è un’indagine performativa sulla relazione fra tre universi: il vegetale, il tecnologico e l’umano. La fase di ricerca a Collegno di Flavia Zaganelli e Cecilia Stacchiotti (in arte Ceci Stuck) precede il debutto del lavoro, programmato per il 25 febbraio allo Spazio Kor di Asti, all’interno della stagione NODO PIANO curata da Chiara Bersani e Giulia Traversi. Lasciamo la parola alla danzatrice e alla compositrice elettronica per esplorare alcuni passaggi della creazione.
Da dove deriva la scelta di servirsi di un vasto immaginario vegetale? Quale funzione svolgono, in altri termini, le piante in questa vostra creazione?
FLAVIA: La ricerca prende avvio proprio da una grande fascinazione per il mondo vegetale; un’attrazione sostenuta da letture approfondite, senza tuttavia una vera e propria competenza scientifica in materia. Il nostro interesse precipuo riguarda la creazione di una relazione a tre, tra corpo umano, elemento vegetale e dimensione tecnologica (vale a dire, tutto l’apparato che usa Cecilia per produrre suono a partire dagli impulsi elettrici sprigionati dalle piante). Le piante, dunque, giocano un ruolo di fondamentale importanza. Il tentativo è “stare” all’interno di un meccanismo di relazioni circolari, anziché piramidali: non vi è mai, insomma, un elemento che prevalga, sebbene – a seconda dei momenti – l’uno o l’altro sembri imporsi. Uno dei meccanismi principali del lavoro è l’utilizzo di un dispositivo, o meglio di un circuito arduino di biodata sonification chiamato Midi Sprout, che grazie a dei sensori apposti sulle foglie (simili a quelli utilizzati negli elettrocardiogrammi) recepisce il passaggio di corrente. La “pianta madre” è collegata alle altre due attraverso un filo di rame, che sbuca dal terreno della prima, compie un giro attorno alla seconda e si immerge infine nelle radici dell’ultima: questo percorso amplifica la trasduzione del passaggio di corrente, potenziando quello già esistente per natura. A livello coreografico, cerco di attivare una relazione anche con il corpo. Un corpo – ça va sans dire – il più possibile aperto, rilassato, fedele a quanto percepisco e sento nel preciso istante. Un corpo, insomma, che sta in ascolto, principalmente del sé. All’inizio della ricerca entravo in questo setting rimanendo molto fuori da me stessa, proiettandomi nell’ascolto del campo elettrico esterno. Pian piano però, lavorando su questo aspetto, mi è parso di capire che abbia ben più senso ascoltarsi, per potersi poi virtuosamente aprire alla relazione, di qualunque tipo essa sia. Il dialogo si sviluppa attraverso degli stati e dei gradi di pratica: il primo è il tentativo di aprire il corpo in una situazione di rilascio quasi meditativo. Dopodiché Cecilia si posiziona dietro il mixer e parte la musica. Io, nel frattempo, inizio a esplorare lo spazio, istituendo un dialogo che ha più a che vedere con la mimesi, intesa non tanto come imitazione della forma delle piante (operazione che risulterebbe, in effetti, piuttosto banale), bensì in quanto approccio, riflesso umano autentico. Capita spesso, infatti, pur non conoscendo una persona, di prenderne – quasi istintivamente – le forme, il modo di esprimersi, di gesticolare, di muoversi. Con il tempo ho iniziato ad accettare questa dinamica, sebbene la volessi eliminare in principio perché mi sembrava eccessiva, didascalica. Invece ora la sto assorbendo. Tornando ai momenti dello spettacolo, poco per volta entra – in maniera sempre più preponderante – il suono e quindi anche l’elemento elettrico prodotto dalle piante. Io continuo, attraverso il corpo, a rimanere in ascolto di tutto ciò che avviene a livello sonoro, visivo e fisico dentro di me. E si crea così un pattern, una sorta di 8 che descrivo danzando attorno alle piante. Ed è quello il vero momento di dialogo: lì resto nella mia condizione di movimento, ora spontanea, ora volitiva, ora morbida. Una duplice condizione di ricezione ed emissione.
Nella scheda artistica sono chiarite puntualmente le piante da utilizzare, che assurgono al rango di protagoniste nei crediti dello spettacolo.
FLAVIA: Esatto. Le piante richieste sono appunto queste [le indica sulla scena]. Poi, naturalmente, ogni volta presentano forme diverse, quindi muta anche la relazione che si va instaurare tra me e loro. A destra vedete la Monstera Deliciosa, che appartiene alla famiglia dei rododendri, le prime piante a essere utilizzate in esperimenti con sensori già dagli anni Cinquanta-Sessanta (erano quelli per brevettare le macchine della verità). Questo gruppo vegetale risponde molto bene agli stimoli perché possiede un fogliame molto largo; pertanto si osserva un copioso passaggio di energia, di elettricità, non troppo compressa come invece avviene nelle piante grasse. Sono insomma degli ottimi trasduttori. Per le altre due – il Ficus Lyrata e l’Eugenia Myrtifolia – il discorso è pressoché identico: anch’esse mostrano foglie abbondanti e assai resistenti. Sono tutte e tre – peraltro – piante da interno, abituate a quegli stress necessariamente subiti per via del trasferimento da un luogo all’altro. Sono tenaci, forti. La scelta dipende anche da ragioni di ordine estetico, legate al mercato delle piante. Il Ficus, l’Eugenia e la Monstera sono infatti piuttosto comuni da trovare in uffici e negozi, essendo piante d’arredo, molto gradevoli alla vista. Mi stuzzicava quindi l’idea di utilizzarle per sottolineare l’enorme carica vitale, spesso data per scontata, di soggetti comuni, visibili ovunque.
Passando invece al corpo sonoro?
CECILIA: Nel primo segmento dell’opera-installazione, il mio ruolo è mettere in risalto, in evidenza, attraverso il suono quell’energia che si genera nello spazio. Inizialmente è un piccolissimo microfono, una capsula, a realizzare tale obiettivo: lo muovo io un po’ nell’aria, mettendolo in risonanza. Attraverso degli altoparlanti si crea così un feedback, modulato all’occorrenza dal vivo. Questo già inizia a dar vita a una sorta di tensione. La pianta reagisce frattanto al suono, che la attiva, la mette in moto. Così come mette in moto anche Flavia, la quale comincia nell’ecosistema delimitato dai vasi. In origine avevamo assegnato dei suoni predeterminati a ciascuna pianta. Abbiamo poi virato su altre soluzioni: di fatto, diamo alla pianta la possibilità di scegliere, a seconda degli impulsi che emana, tra specifiche parti di file, che non sono altro che le registrazioni dal vivo realizzate sulla scena. In poche parole, è la pianta che “suona le parti che vuole suonare”. Ci sono poi passaggi in cui Flavia rivolge alla pianta delle parole tramite il microfono e la pianta – specularmente – decide come rileggerle. Nel finale, invece, il corpus vegetale suona un synth producendo una sonorità più violenta, in un crescendo, in una climax, in un’esplosione di elettricità.
Se ho ben capito, quindi, attraverso i sensori voi leggete gli impulsi elettrici che la pianta possiede e che vengono anche provocati da stimolazioni sonore o interazioni con il tuo corpo, giusto? Si crea così un dialogo, amplificato dai tre piani simultanei della composizione.
FLAVIA: Sì, a fungere da collante è il campo elettrico. Nella pianta, di suo, già scorre un’energia vitale, così come accade all’interno di ciascun corpo umano. Chiaramente in uno spazio fisico in cui si trovino delle persone – a maggior ragione se queste si muovono – si altera la carica energetica ed elettrica dell’ambiente, insieme a quella della pianta stessa. Quest’ultima diventa così un trasduttore, un trasmettitore, di quanto percepisco. Tanto più in un teatro, dove si attivano luci e molteplici fonti di calore.
Di conseguenza, a ogni “replica” lo spettacolo è diverso.
CECILIA: Esatto. Infatti la sfida grande di questo lavoro è il restare il più possibile sincere alla relazione che si instaura nel qui e nell’ora. Le piante infatti, da parte loro, rispondono in maniera sempre autentica e quindi imprevedibile.
electrica /ecosi’stɛma/ CORPO VEGETALE Monstera Deliciosa, Ficus Lyrata e Eugenia Myrtifolia CORPO TECNOLOGICO Sintetizzatore analogico, Biodata sonification Device, PC, Ableton Live CORPO UMANO FLAVIA ZAGANELLI // concept, ricerca, creazione, danza, voce CECILIA STACCHIOTTI // ricerca e suono FABRIZIO PIRO // disegno luci ELENA MATTIOLI – LELE MARCOJANNI // video electrica /ecosi’stɛma/ è stato ospitato in residenza da: Santarcangelo Festival, DAS Dispositivo Arti Sperimentali, Fienile Fluò con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza in collaborazione con Crexida, Paleotto11.NO TITLE nella versione EXPANDED ha vinto il Bando Abitante 2021 ed è stato ospitato in residenza da P.I.A. Palazzina Indiano Arte e Corniolo Art Platform, dando vita ad INVISIBILIA, progetto realizzato con il sostegno di Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e di Fondazione CR Firenze
Sabato 11 febbraio, all’interno della cornice di onLive Campus, Kamilia Kard – artista e docente con base a Milano – ha lavorato con alcuni danzatori per sviluppare un pattern coreografico tradotto poi in algoritmo, all’interno dello spazio digitale dell’azione performativa da lei firmata, Toxic Garden – Dance Dance Dance. L’eponimo e venefico giardino – nato da una fase di ricerca avviata presso la Lavanderia a Vapore di Collegno a settembre scorso, nell’ambito delle Residenze Digitali – aveva trovato un primo debutto online tra l’8 e il 10 novembre (scopri di più).
La ricerca di Kard, dottoressa in Digital Humanities all’Università di Genova e docente di Comunicazione Multimediale a Milano e a Carrara, esplora il modo in cui l’iperconnettività e le nuove forme di comunicazione online modifichino e influenzino la percezione del corpo umano, della gestualità, dei sentimenti e delle emozioni. Dal 2011, i suoi lavori vengono spesso esposti presso gallerie, festival e istituzioni di risonanza nazionale e internazionale. La sua ultima creazione, Toxic Garden – Dance Dance Dance, si configura come una serie di performance partecipative online ambientate in un metaverso creato ad hoc su Roblox, popolarissimo massively multiplayer online game (MMO). I partecipanti, attraverso i propri avatar, sono coinvolti in balli di gruppo sincronizzati, su coreografie che combinano passi di danza registrati in motion capture, in collaborazione con performer, e tratti da videogiochi famosi. Il progetto mira alla costituzione di una comunità temporanea i cui membri siano invitati a riflettere su questioni di identità, genere e inclusività nell’ambiente virtuale di Roblox, uno dei principali luoghi virtuali di incontro e socializzazione per gli adolescenti. Attraverso la sincronizzazione del movimento e l’utilizzo di skin speciali disegnate per l’occasione, la danza collettiva diventa un rituale di aggregazione che sprona a liberarsi del fardello del proprio alter-ego virtuale.
Kamilia, quale ruolo svolge, nell’ambiente virtuale da te creato, l’immaginario vegetale?
Parlando di rapporti pericolosi, volevo dar vita a una realtà che rappresentasse al meglio, in modo naturalmente metaforico, questo intreccio di relazioni. Di conseguenza ho pensato a un “florilegio” di piante velenose, a un giardino composto da presenze vegetali che fossero comunque a me comuni, familiari. Non ho scelto, in altre parole, piante tropicali o esotiche, ma figure di cui avessi avuto esperienza diretta, visiva, tattile. Per esempio, la cicuta, che spesso si può osservare nei campi, in grande quantità. Questo perché, come le piante invadono il nostro campo percettivo senza quasi rendercene conto, così le relazioni che viviamo in maniera tossica ci scivolano addosso, automaticamente, blandamente. Certo, a volte lasciano traccia in maniera più forte: dipende dal contesto in cui germinano o dal coefficiente di investimento emotivo (se si tratta cioè di rapporti sentimentali, d’amicizia oppure professionali). Ho tentato quindi di astrarre, o meglio di metaforizzare, questa necessità tramite una flora venefica: i nostri comportamenti diventano in sostanza i “residui clorofilliani” di una sorta di ancestrale ego discendente a sua volta dalle piante, prima forma di organismo vivente. Rimasugli vegetali che ci portiamo dietro e che sfoderiamo all’occorrenza, quando ci sentiamo attaccati.
Proviamo a fare un passo indietro. Da quali suggestioni nasce il lavoro?
Tutto parte da un’osservazione. Durante i mesi di pandemia, ho tenuto dei corsi di programmazione su Roblox – piattaforma che ricalca la struttura di un metaverso – per un gruppo di 6-8 ragazzine tra i 9 e gli 11 anni. Era per loro uno spazio e un tempo collettivo per reagire all’isolamento domestico. Alla prima ora di spiegazione seguiva una seconda ora di gioco. Questo, insomma, il pretesto. Le guardavo giocare, senza un particolare scopo. Ma spesso gli spunti creativi arrivano da sé. Si scervellavano, si struggevano, si lambiccavano letteralmente il cervello per trovare outfit che fossero idonei alle rispettive identità digitali. Al di là di tutta la sub-cultura legata a Roblox, mi impressionò – durante il game play – notare come spesso molte di loro uscivano incontrando determinati avatar, qualificati come “cattivi”. Ho avuto modo di veder insorgere e svilupparsi in quell’ambiente atteggiamenti tossici. Da lì è discesa tutta una ricerca specifica sul gaming. E ho scoperto che i giochi più utilizzati, in particolare da un’utenza di giovani ragazze, erano quelli di danza sincronizzata collettiva, molto entertaining e potentemente comunicativi. L’elemento è poi permasto in Dance Dance Dance. Lo spettatore può infatti chattare online, interagire: compare la classica nuvoletta e puoi conversare con un altro avatar. L’elemento di comunicazione nei videogiochi si è sviluppato tantissimo, specie nei multiplayer.
La chat, quindi, come ulteriore metafora di relazione.
Sì, o quantomeno metafora di un’osservazione. Osservazione del modo in cui si sviluppa una relazione (tossica e non) all’interno di un metaverso e di come l’avatar riesca a influire sulla percezione dell’altro.
Nelle nuove tecnologie tu rintracci il tuo “spazio d’elezione“: hortus conclusus o Eden della ricerca performativa?
Io utilizzo molto spesso le nuove tecnologie per esprimere o sviluppare una ricerca in atto. Mi danno l’opportunità di inserire all’interno dei miei lavori molteplici piani, argomenti. Mi viene… naturale. Si celano nel digitale molteplici risorse: non a caso me ne servo principale medium espressivo, talvolta ibridandolo con forme tradizionali. Talvolta la “digitalità” pertiene al processo, talaltra all’esperienza. Dipende da ciò che voglio dire, comunicare. In alcuni momenti del mio percorso ho sfruttato l’ambiente del videogioco – pensiamo non solo all’ultima creazione ma anche a Loading Instructions (Mansplaining) del 2021 -, in altri la stampa 3D, che genera una scultura, un oggetto tangibile. Mentre nel primo caso il digitale impatta sulla dinamica fruitiva, nel secondo diviene elemento di una più articolata scrittura della scena, ma la liturgia spettatoriale resta consueta. Dipende da quanto desidero che il lavoro sia immersivo: con la VR la penetrazione dello sguardo muta tantissimo; con Roblox, invece, è l’interattività ad essere altissima. Dipende – come dicevo – da quanto voglio coinvolgere il mio interlocutore.
Michele Pecorino, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, ha visto per noi al Teatro Municipale di Casale Monferrato, lo scorso 25 gennaio, la prima nazionale di U(r)topias, concept e coreografia della greca Patricia Apergi per la Aerites Dance Company.
La parola U(r)topias deriva dal greco e significa “non luogo”. Il prefisso “Ur” – ‘antico, primitivo, prototipo’ – simboleggia il percorso per la definizione di una nuova utopia, che rivisita la nostra storia. Che tipo di utopie dobbiamo inventare e costruire nel XXI secolo? U(r)topias sono l’immaginario e i luoghi ideali dove una società e comunità può rintracciare uno stile di vita perfetto, imparando dai fatti della storia e rileggendola. Questo concetto è connesso con l’idea coreografica di una caduta, quella che Patricia Apergi ama anzi definire l’”utopia della caduta”. La sua ricerca si basa sul momento in cui una persona perde il controllo. Il finale è prevedibile per gravità. Ma che cosa accadrebbe se cercassimo di cambiarlo? Se affrontassimo questo movimento in modo non logico? È una maniera per suggerire a una nuova rivoluzione, una nuova resistenza o un nuovo modo di cadere e fallire che potrebbe simboleggiare una grande vittoria.
concept e coreografia Patricia Apergi drammaturgia Roberto Fratini Serafide musica Dimitris Kamarotos set design Dimitis Nasiakos light design Nikos Vlasopoulos costumi Irene Georgakila assistente coreografia Emmanouela Sakellari danzatori Sevasti Zafeira, Fuerza Negra, Giannis Economidis, Kostas Phoenix, Sofia Pouchtou, Haris Chatziandreou, Ilias Chatzigeorgiou produzione Techni choros theatre company, Aerites Dance Company distribuzione Plan B – Creative Agency for Performing Arts Hamburg *The piece was funded by the Greek Ministry of Culture and Sports
Il suono riecheggia veloce, quasi come una rapida scossa. L’azione che prima appariva lenta, non fa che rivelarsi in tutto il suo repentino capovolgimento. Un evolversi improvviso che lo spettatore non si sarebbe aspettato con così tanta rapidità.
In tal modo inizia U(r)topias, l’ultimo lavoro della coreografa greca Patricia Apergi, che vede la sua prima nazionale italiana, presso il teatro comunale di Casale Monferrato.
Tutto ha inizio quando, in sala, le luci sono ancora accese. Qualcuno, come di consueto, sta ancora scattando le ultime foto da aggiungere alle centinaia già presenti nei propri dispositivi. Da qualche altra parte, tra le poltrone color porpora, qualcun altro si mette in posa alla ricerca dell’ennesimo scatto che possa dirsi degno di apparire sui personali canali social. Mentre tutto ciò avviene, accompagnato dalle aspre consonanze di un chiacchiericcio di sottofondo, sul palco fanno la loro comparsa sette danzatori.
L’azione si evolve in una rapida caduta. I corpi rovinano inevitabilmente sulle tavole del palcoscenico. Proprio sul proscenio. Quasi a contatto con quel pubblico in balia di sconosciuti processi cognitivi. Nessuno di essi si abbandona, però, ad un completo rilassarsi dei muscoli. La tensione attanaglia quei corpi, li rende rigidi, statici o meglio statuari. Nella mente un balenare continuo di infinite immagini, poi un attimo di quiete. I corpi in scena, sembrano ripercorrere le ieratiche e bronzee forme di colossi protoclassici. I volti, le mani, gli sguardi, gli arti sono carichi di vibrazioni interne che si propagano impercettibilmente e in continuo equilibrio.
Il pubblico assistendo a ciò velocizza le proprie azioni, cercando di portarle al termine nel minor tempo possibile. Il ciangottio sembra spegnersi, riservandosi ancora qualche residuo refolo. Dalle torbide acque di un ricordo offuscato, sembrerebbero riaffiorare delle parole indefinite. Le bocche dei danzatori appaiono sigillate, eppure qualcosa si è sentito. Qualche sibilo, qualche nota si è infranta contro una articolazione incompleta di lettere. Un suono che, in relazione con ciò che avviene, viene percepito armonicamente. Un baluginio di poesia, un significante privo del suo significato. Quel linguaggio, assemblato mediante sconnesse parole e fonemi, dona alla scena una forte componente sonoro-espressiva.
Finalmente le luci si abbassano. I danzatori si sollevano dalle loro posizioni e in un rapido divenire si mostrano in una ulteriore caduta e poi un’altra ancora. La dissoluzione fisica, assurgendo a mezzo espressivo centrale e conduttore, veicola una visione dove nessun passato è rigettato. Nessun tentativo trascorso, tantomeno la memoria del corpo sono rifiutati. Nella ripetizione ogni sibilare dei corpi danzanti, si arricchisce. La scena si tinge di una intensa azione che avviene mediante un linguaggio del corpo codificato, solido, ma che si scompone per comprendersi.
Il gesto e il movimento coreografico si intersecano in uno stretto contatto con i codici più vari. I costumi, dai colori terrigni, accentuano ancora di più quel senso di caduta frammentaria, mostrandone le viscere. La prossemica dei corpi non fa altro che indicare qualcos’altro che esiste in quell’oltre possibile, ma sconosciuto perché mai indagato.
U(r)topias vede la sua epifania (non a caso ricorro a questo termine derivante dal greco ἐπιϕάνεια, ovvero manifestazione) nel 2021, anno in cui ricorre il duecentesimo anniversario dall’inizio della guerra d’indipendenza greca.
Rivoluzione che, con il sacrificio di numerosi civili, porterà all’ affrancamento dall’Impero ottomano e nel 1832 alla relativa nascita del regno di Grecia.
La coreografa indaga su cosa voglia essere un’Utopia contemporanea, e come questa possa essere possibile. Lo fa attraverso i corpi, attraverso lo spazio che si scompone per poi ricostruirsi tendendo ad indirizzarsi verso multiple direzioni.
Per fare ciò entra all’interno di un rapporto dialettico tra memoria e storia. Il legame con il passato è innegabile. La riflessione filosofica, assai consapevole, è del tutto presente in Arpegi, data anche e principalmente dalla formazione speculativa che ha alle spalle.
Da una Utopia si Passa a una U(r)topia. Il termine utopia deve la sua origine alla penna di Thomas More. Il filosofo inglese lo conierà nel 1512, appositamente come nome di un’isola immaginaria dove si svolgerà la vicenda del suo romanzo dall’interminabile titolo: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”. La parola deriva originariamente dal greco, οὐ (non) e τόπος (luogo), e significa appunto “non-luogo”.
La coreografa aggiungendo il prefisso ur- che in greco significa primitivo, antico, originale, esprime simbolicamente il desiderio di raffigurare una Utopia odierna.
U(r)topias è dunque una Utopia reinventata attraverso un dialogo conscio con il passato. È l’oggetto necessario per un domani prospero. Una materia intangibile, un sogno dalle platoniche affinità.
Patricia Arpegi attraverso i corpi, lo spazio, sente il bisogno di ridefinire il nunc et ora dell’utopia, rendendolo un qualcosa di possibile, almeno attraverso una proiezione verso territori altri. Traccia la strada da poter percorrere tra i fallimentari tentativi di utopie del XX secolo. Porta all’interno di una presa di coscienza sull’impraticabilità di una rivoluzione. I danzatori, in scena, fanno i conti con la contemporanea caduta delle ideologie e con questo ciò che ne concerne. Non è difficile individuare, alla base di questo lavoro, certe analogie con la fenomenologia nichilista e del suo manifestarsi attraverso il pensiero debole. Concetto filosofico che sta alle fondamenta del postmodernismo europeo, di cui Vattimo e Rovatti sono i massimi esponenti.
L’ideatrice del lavoro e di conseguenza i performer, si pongono delle domande riguardo ai momenti in cui i corpi perdono il controllo di se stessi, a causa di molteplici crolli. Una defezione dovuta allo schiacciamento che trova la propria origine proprio in quell’essere indebolito e poroso davanti alle dinamiche di potere di una sovrastruttura invalicabile. Le cadute, sempre più reiterate, compongono una fitta partitura ritmica. Questa si evolve mediante l’esperienza del collasso.
Ebbene, il concetto di nuova e odierna utopia si traduce in ciò che la stessa autrice definisce Utopia della caduta. Un rovinare a terra che si prospetta senza mezzi termini, ma che si cerca in tutti i modi di indagare per poter attuare un cambiamento. Puntare ad una illogicità che non risponda ad uno schema già tracciato, ma che indichi, da sola, un’altra possibilità.
I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Sociale di Pinerolo, lo scorso 21 gennaio, a una replica di Flow, creazione della compagnia svizzera Linga. Qui di seguito le loro restituzioni.
Flow, il flusso, la nuova creazione della compagnia Linga, si ispira all’affascinante spettacolo del mondo selvaggio, al movimento nell’aria degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, al movimento nell’acqua di branchi di pesci o ancora alle migrazioni di greggi di mammiferi. Queste formazioni flessibili e fluide, capaci di cambiare istantaneamente velocità e direzione senza perdere la propria coerenza spaziale, interrogano le leggi di interazione che agiscono sui diversi membri di un gruppo e sulla coordinazione dei loro movimenti.
idea e coreografia Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo interpreti Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vallbona (o Valentin Goniot), Ai Koyama, Valentin Goniot, Clélia Mercier, Csaba Varga, Cindy Villemin luci German Schwab musiche originali Keda (Mathias Delplanque, E’Joung – Ju) scenografia Marco Cantalupo, Emilien Allenbach costumi Geneviève Mathier produzione Compagnie Linga coproduzione Compagnie Lnga, L’Octogone Théâtre de Pully
Un flusso di corpi
di Giorgia Borgioli
C’è una luce flebile: illumina i dischi di sette colonne vertebrali che si muovono in onde uniformi. C’è una musica generata sulla scena stessa, che più che accompagnare si modella sui copri nello spazio e anche loro modellano il suono.
C’è una domanda, che pervade le figure sul palco e poi, gentile, si insinua nella platea.
Poi svanisce.
C’è un insieme di atomi che sembrano essere attratti l’uno dall’altro.
C’è una domanda.
Poi svanisce.
C’è un movimento che ricorda il Tai Chi, fluisce sulla scena fino a divenirne parte.
C’è una domanda.
Poi svanisce, anche questa.
I muscoli sudati si srotolano in un flusso naturale che quando prende potenza scaraventa sul pubblico una serie di domande a cui non c’è risposta.
E la platea non può che riceverle. Le accetta come si fa con un dono, le osserva con curiosità, poi si accorge di non poterne attribuire alcun significato. Ma non è importante, perché proprio mentre il pubblico è lì che cerca di darsi una risposta, prontamente arriva la prossima domanda.
C’è un flusso di corpi che si fondono e la loro lega restituisce a chi li guarda domande alle quali nessuno avrà risposta.
C’è un flusso di corpi talmente potente che chi lo guarda si dimentica di volere da lui delle risposte.
Nel profondo blu
di Ludovica Fioravanti
Acqua siamo e acqua ritorneremo. Oscilliamo, avanti e indietro, fluidi, onde. Nel corpo e nella vita. Fluiamo nello scorrere del tempo. Balliamo come pesci nel mare. Per alla fine trasformarci. Nulla rimane uguale, everything flows.
Siamo spinti nel profondo blu. Acqua salata, rumori ovattati molto lontani. Luce quasi inesistente: uno spiraglio, fioco. I metri cubi di acqua sopra di noi filtrano tutto. La vita che esiste qui vaga nel movimento delle correnti e quasi nessuna vegetazione. Ogni tanto un’alga sparsa si appiccica alle squame di uno del branco. A furia di errare in questa densità blu notte, entriamo come in trans, mentre col branco ci muoviamo senza meta. Respiriamo insieme, in sintonia, siamo come un unico sistema. Siamo in sette diventati uno, oscilliamo per il palco come un feto nella pancia: sospesi, fluidi, densi.
Ma un basso più forte si fa sentire. Forse siamo risaliti troppo in superficie, quasi a galla. Anche la luce è aumentata. La distanza fra noi e fuori è sottile, sentiamo la musica scandita che suona nel mondo dell’aria, ci stiamo risvegliando dal nostro trans.
Iniziamo a danzare insieme, poi liberi. È una festa, saltiamo fra aria e acqua, spezzando l’uniformità che ci accomunava. Ci tuffiamo con vigore, tanto l’acqua attutirà. Fino a che essa non si trasforma in terra, solida, invalicabile, dura. Non facciamo in tempo ad accorgercene. Sbattiamo tutti sul pavimento. È aria e terra, non più acqua. Non siamo più acqua. Tutti corrono alla ricerca di un riparo, in questo nuovo mondo. Rimane un uomo, solo.
Sembra essere arrivato il predatore e siamo tutti all’erta, sospettosi, ci guardiamo come a disagio, senza fiducia, scappiamo, ci seguiamo. La domanda è: chi di noi prenderà? Nella foga impazziamo, stimoli elettrizzano il nostro corpo e così, sotto un cielo di luce bianca, cambiamo di nuovo.
La luna è un’esperienza solitaria. Pare deserta. L’uomo perso è qui un’ovvietà. Tutto si colora di bianco pallido. I suoni sono primitivi, sembra l’inizio della vita. La creazione da un foglio bianco. Come per la prima volta le orecchie sentono suoni, così anche il solitario cerca di farsi suonare con ciò che dispone: il corpo. Ricerca la corrispondenza con il luogo. Fino a quando una donna appare. Lei sembra sapere che musica tira qui. Non pare estranea, ma abituale. Entra un uomo che interrompe il momento. Cerca di fare colpo con capriole e acrobazie. Fortunatamente questa terra brulla è abitata. Ci sono più personaggi. Addirittura, un samurai. Sono una tribù che festeggia, che accoglie. Lo siamo diventati, una comunità in sintonia, un popolo che balla sulla stessa musica.
E ci ritrasformiamo. Siamo di nuovo pesci, siamo tornati nel profondo blu, siamo rimasti in sette ma formiamo un solo organismo. Abbiamo riprese ad ondeggiare, a fluire nel mare.
Corpo di corpi. Corpo di greggi. Corpo di stormi, di banchi di pesci.
Fluire — uno strumento. Di chi è tutta questa vita?
L’astrazione della danza promette più carne della carne stessa.
La coordinazione nei movimenti sincroni collettivi.
Strumento.
Di chi è tutta questa vita?
Osservate in natura, le regole che regolano questa coesione spaziale ci hanno ispirato.
Strumento.
Di chi è tutta questa vita?
Nuova forma di organizzazione nel movimento di gruppo.
Strumento.
Coscienza collettiva nello spazio.
Fluire.
Di chi è tutta questa vita?
Questo progetto ci interroga sul rapporto tra individuo e gruppo.
Fluisco.
I limiti: costruzione — e istinto.
Di chi è…
Fluisco.
Tutta questa vita.
Strumento.
Corpo. Terra. Fungo.
Geomungo.
La leggenda del Geomungo
di Alessandra Perinetto
Lo spettacolo non è ancora iniziato, ma sul palco c’è qualcosa che cattura l’attenzione di tutti in sala, ancora prima dell’ingresso dei ballerini: è uno strumento musicale particolare, che probabilmente gran parte del pubblico non ha mai visto. È il Geomungo (in hangul: 거문고), uno strumento tradizionale coreano. Ha un corpo di legno lungo quanto l’apertura delle braccia di una persona, sul quale sono posizionate sei corde: lo si suona con un particolare bastoncino fatto di bambù o con un archetto.
Secondo una leggenda, la prima volta che il Geomungo fu suonato, dopo la sua invenzione, dal primo ministro del regno Goguryeo nel sesto secolo dopo Cristo, una gru entrò nel palazzo reale ed iniziò a volteggiare sulle note musicali. I ballerini sul palcoscenico sembrano rievocare proprio questo momento, con i movimenti dei loro corpi: volteggiano e corrono, si sollevano l’un l’altro come in volo. All’inizio, al buio, respirano tutti insieme, come un’unica creatura con il sottofondo del vento, poi, quando si sentono le prime note dello strumento, iniziano ad inseguirsi e perdersi, volare e cadere.
Il Geomungo era lo strumento preferito dei discepoli di Confucio per prepararsi alla meditazione e concentrarsi, poiché il suo suono calmava la mente e la ripuliva da qualunque pensiero. Questa tecnica era tanto apprezzata e ammirata in tutta la Corea, quando si unificò sotto il regno Silla, che il re inviò un emissario all’eremo Ok, affinché imparasse dagli eruditi confuciani a suonare il Geomungo. Anche quando le persone di bassa estrazione sociale suonavano questo strumento, dovevano pensare e comportarsi come discepoli confuciani. Anche i ballerini sul palco hanno trasportato gli spettatori in un’altra dimensione, ripulendo la mente del pubblico da qualunque pensiero estraneo al momento stesso della rappresentazione.
C’è un’altra leggenda che riguarda il Geomungo. Nella tarda epoca Joseon (1392-1910), il migliore e più ammirato suonatore di Geomungo era Kim Seong-Ki. Tuttavia, quanto più la sua capacità era apprezzata e più la fama del suo nome cresceva, tanto più egli si vergognava di vendere il suo talento per il prosaico scopo di mantenere la sua famiglia. Decise quindi di ritirarsi e vivere solo, in una baracca sul fiume Hangang e dedicarsi solo alla pesca. Alcuni componimenti conosciuti fino ad oggi sembrano risalire a lui. Come Kim Seong-Ki si sentiva oppresso dalla mercificazione del suo talento, così sui ballerini sul palco cala un pannello bianco che li schiaccia, loro si piegano, sono soffocati da questo peso che li opprime. A differenza del leggendario suonatore, che si ritirò da tutto e tutti, però, i ballerini sul palco riescono ad allontanare la minaccia solo insieme, dopo aver fallito singolarmente. Tentano un ad uno di affrontarlo, sollevandosi e saltando, i loro corpi sembrano quasi rompersi e spezzarsi per la fatica. Solo quando ritrovano la coordinazione e iniziano a muoversi tutti insieme riescono a liberarsene.
Lo spettacolo si conclude con tutti i ballerini che tornano a formare un unico corpo, un’unica creatura, che dopo aver concluso il suo volteggio nell’aria e aver vinto contro chi cercava di ostacolare la sua libertà, può tornare a respirare e, infine, assopirsi.
Flow o il riecheggiare dei passi
di Michele Pecorino
Si ode uno stormire mutevole. È impossibile non scorgere in scena quei tratti cangianti che rapiscono lo spettatore, per portarlo in un mondo altro. Flow, proprio come suggerisce il titolo per nulla criptico, è un flusso incessante. Un procedere ondeggiante e flemmatico dove i danzatori creano relazioni fondate sull’ascolto. Relazioni indissolubili che si poggiano lievi sugli occhi degli astanti. Un continuo avvenire, dove la prevedibilità lascia il passo ad un corso casuale. Dall’osservare si passa al vivere qualcosa che non solo avviene in scena, ma anche in luoghi altri, sconosciuti. Si elevano ambienti delle vaste e sublimi ombre. Il pubblico, restando incollato alle comode poltrone, compie percorsi fluviali, attraversa brividi ancestrali.
I primi suoni vengono emessi, le menti degli spettatori, sin da subito, si attivano nel riecheggio di suggestioni passate. I gusto, un pò acre, della memoria genera immagini nove. Ogni gesto richiama un volto, una forma, un colore, una sensazione. Qualcosa di mai vissuto un racconto mitico, epico. Proiezioni di un mondo vicino ma sfuggevole. Dal canto opposto tutto quello che, fino ad un attimo precedente, sembrava essere lontano, adesso appare vicino. Alla vista sembrerebbe aprirsi un papireto beccheggiante sotto lievi ariette. Lo scorrere dei corpi danzanti, leggiadri e armonici, fa dispiegare le ali affinché si possa intraprendere un viaggio ossimorico. Privo di qualsiasi zavorra che possa far diventare ogni meta di passaggio un punto di ancoraggio. I performer sembrano essere immersi all’interno di un flusso sonoro che li coinvolge. É tutto una riemersione cangiante. Una continua evoluzione.
I ritmi, dalle risonanze orientali, sono dati da una musicista visibile sul palco. Lo strumento, dal quale proviene il suono, è alquanto particolare, per non dire del tutto sconosciuto alla più ampia parte dei presenti in sala. Si tratta di un Geomungo uno strumento originario della Corea settentrionale. Un cordofono, per l’esattezza, simile ad un monocordo pitagorico. La musicista capta ogni gesto, sente ogni intenzione dei danzatori. Le sue dita traducono in note ciò che avviene sulla scena. Impercettibilmente sulle corde scorrono i passi dei corpi tersicorei. Gli armonici crescono in un evolversi graduale, per poi subito assottigliarsi a seguito dell’insinuarsi lento di tinte più tese. Il vibrato, dato da un archetto sulle corde, il pizzicato accennato, simile a uno stillicidio, donano una profondità sonora alla scena. Si innesca un vortice dentro il quale poter fare esperienza di un nuovo un paesaggio uditivo.
La fluidità non trascina i corpi dei performer, bensì diviene luogo abitato in piena coscienza di movimento. Ogni singolo gesto risente della propria autonomia di compostezza. L’armonia è nella presenza stessa dei corpi. Nella dinamica naturale che generano relazionandosi senza schemi rigidi. La scrittura coreutica, carica di molti momenti corali, attraverso il delicato scorrere, si rafforza di immagini sempre più presenti e forti. I frequenti spirti di gennaio che rincorrono, realmente, ma anche in maniera del tutto suggestionale lo spettatore seduto sulle poltrone, sembrerebbero abbattersi con furia infausta in una scena densamente popolata. In tutto c’è una viscerale attesa dell’attimo. La propensione all’evoluzione innesca quel flusso di cui cui questo lavoro è espressione. Il disegno luci si compone di particolari tagli che si spostano da colorazioni calde a più fredde. I riflettori sono calibrati magistralmente, in relazione al movimento cangiante della scenografia. Lo spettro visivo si districa grazie alla presenza del pannello scenografico. Ciò fa che esso sia un elemento scenico polivalente. Da filtro per la luce passa ad essere un telo riflettente. Ma soprattutto è un oggetto di scena che disegna lo spazio che ne da le diverse profondità. Il pannello viene abbassato, rialzato, viene inclinato prima da un lato e poi da quello opposto. Ebbene, il flusso caratterizza e avvolge ogni elemento costruttivo di Flow. Ogni occhio, ogni presenza si abbandona ad esso ed il viaggio continua teatro dopo teatro.
Pensieri sconnessi e e benzinai per Pinerolo, Flow e il mondo che si muove
di Mirco Spadaro
Zugunruhe, tedesco, da Zug, movimento, migrazione, e Unruhe, preoccupazione, ansia; da un- ,particella di negazione e Ruhe, quiete, calma. Zugvögel, gli uccelli che migrano. Lo Zugunruhe, chiamato anche “irrequietezza migratoria”, è l’istinto d’ansia degli animali migratori quando arriva la stagione in cui è tempo di spostarsi, di muoversi, di migrare; anche in gabbia, gli uccelli sentono il richiamo del vento dell’Ovest. È sabato 21 gennaio e stiamo tornando dal teatro Sociale di Pinerolo; lo spettacolo di Katarzyna Gdaniec, Marco Cantalupo e della compagnia Linga si chiama Flow, racconta delle cose che spaziano nel mondo, di corpi che sembrano tanti aironi e sbattono grandi ali come braccia, di grandi greggi d’uomini donne animali che sono tante cose e tutt’insieme formano un’eggregora: movimento. Per me ha parlato anche d’altro: di migrazione. L’ho capito che sentivo ancora la musica e le ruote sull’asfalto passavano di fronte ad un benzinaio che non illuminava la notte, ma la rendeva più misteriosa.
«When a change comes, some species feel the urge to migrate. They call it zugunruhe, a pull of the soul to a far off place. Following a scent in the wind, a star in the sky», quinta puntata, prima stagione, Heroes. Gli storni coordinano i propri movimenti allineandosi con i sette uccelli più vicini: vanno a ritmo, anche loro come i coreografi davanti a noi; anche noi. Noi siamo in movimento; su sette e più di miliardi di abitanti che il pianeta conta, nove o dieci alla fine di questo secolo, più di un miliardo si sta muovendo in questo momento. 232 milioni di persone migrano oltre i confini del proprio paese: il 33% nell’Africa subsahariana, il 21% nel Medio Oriente. Diciotto Paesi attirano più del 70% di queste potenziali migrazioni; tra loro in particolare gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Regno Unito, la Francia, la Spagna e l’Australia. Lo fanno per molte ragioni, alcuni fattori influiscono più di altri: la popolazione anziana da un lato, una giovane e disponibile dall’altro, la penuria di mano d’opera, la disoccupazione, l’accesso alle risorse naturali, i sempre più incalzanti, prementi e terrificanti problemi della quasi insuperabile crisi ambientale; i drammi della politica e del senso di umanità, che ora si perde, che ora si trova, si dubita.
Zugunruhe; anche gli animali sono in movimento: spostamenti verticali in risposta a variazioni di temperatura nei microrganismi d’acqua dolce; il viaggio delle balene dai mari polari a quelli subtropicali; il grande muoversi, pesante e indefinibile, dei boschi, dei deserti, che si guerreggiano lo spazio in battaglie invisibili; lo spostamento terrificante delle nuvole di locuste africane quando la popolazione cresce e il nutrimento scarseggia; la grande marcia dei lemming che si muovono trascinandosi appresso la fame dei compagni loro, morti nel cammino; il mare, la tempesta d’ali dei 50 miliardi di uccelli che coprono il cielo del mondo: una schiera. «Nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosceva il diritto di lasciare qualunque Paese, compreso il proprio, senza però definire il diritto di entrare in un altro. In seguito, il diritto ha compiuto progressi per gli immigrati regolari ma le frontiere si sono chiuse all’entrata. Gli Stati percepiscono spesso la migrazione come una minaccia all’esercizio della loro sovranità sulle frontiere e la migrazione irregolare come una forma di criminalità. Ma i muri delle frontiere sembrano frantumarsi grazie al peso delle reti transnazionali, ai matrimoni misti, alla valorizzazione degli scambi culturali, allo sviluppo dello ius soli e alla doppia cittadinanza, alla consapevolezza della diversità culturale e delle identità multiple, alla lotta contro le discriminazioni […]», scrive Catherine Withol de Wenden nel suo saggio “le nuove migrazioni”.
Erano le nuove migrazioni tanti anni fa; oggi le migrazioni nuove sono ancora più nuove e sono ancora diverse; c’è una nuova linea della metropolitana in costruzione a Collegno, chiacchieriamo sulla navetta che ci porta a casa dal teatro di Pinerolo. Domani, un domani, spostarsi verso Torino sarà diverso; sarà fottutamente più veloce, dico sulla navetta. Tutta la migrazione del mondo che si muove come un unico braccio teso, in ricerca. Anche noi ci muoviamo, come i gabbiani che s’abbarbicano temporaneamente sui neon dell’IP che sbiascica i suoi prezzi un po’ pazzi nel freddo un po’ porco della notte. Si muovono loro e ci muoviamo noi: Torino, Pinerolo; Pinerolo, Torino; Rivoli, Collegno, Torino.
«Flow, c’est la fluidité, le flot, le mouvement qui coule comme en apesanteur. C’est aussi une performance d’une précision rare. […] un spectacle inspiré de ces fascinantes facéties que nous offrent parfois les bancs de poissons capables de former un groupe compact sans se heurter». Le migrazioni riducono le disuguaglianze; ci ho riflettuto mentre guardavo E’Joung-Ju che pizzicava le corde del Geomungo, la cetra tradizionale coreana. Come un braccio, richiudono le distanze. Le musiche sono di KEDA, un duo formato da E’Joung-Ju, musicista esperta di questo particolare strumento, e Mathias Delplanque, compositore di musica elettronica famoso in Francia. Scocca le corde e come una freccia il corpo di Csaba Varga, che ha ballato sotto un cielo che si faceva progressivamente più basso, si tende, si libera, vola, come un airone. Senza quel movimento, senza migrazione, sarebbe un mondo duale con ricchi e vecchi da un lato e giovani e poveri dall’altro, con un potenziale di violenza considerevole dietro confini chiusi e “ignoranti”, inconsapevoli davvero dell’altro e quindi di sé stessi.
Come scrive Badie in Puissants ou solidaires, «Sarebbe anche un mondo senza relazioni, privato degli apporti esterni, demografici, economici e commerciali, politici e scientifici, culturali, etici; un mondo, dunque, destinato al declino. Sarebbe, soprattutto, un mondo insicuro». Penso che i gabbiani questo problema non se lo pongano. Ripensiamo a quello che abbiamo visto, all’esserci sentiti anche noi un po’ animali, un po’ uccelli che prendono il volo verso le cose a cui la gente vola. Anche la lingua migra, nel tempo: una volta tutto questo era Latino. Ci allontaniamo da Flow che più di averlo capito l’abbiamo sentito; un’ansia che c’avvolge d’un vento: movimento.
Nel flow, con il flow, per il flow
di Martina Vianovi
Ondeggiare. Lo spettacolo inizia così, fra le onde.
O forse in un prato: sono fili d’erba, i danzatori, fili d’erba di uno stesso prato, e nel vento ondeggiano, fili d’erba e sciame delicato. L’unità fa la forza ma anche la bellezza,penso.
Il primo gesto forte è una scossa, la prima nota che si stacca dal tappeto musicale uno scossone. Si alza di poco la luce, e la marea gentile si fa tempesta, uno stormo danzante. Qualche elemento si stacca per volare solo, ma subito torna al gruppo come attirato da elastici impercettibili, fili brillanti di tele di ragno. Dev’essere un modo di stare insieme, quello, soli. Un modo di stare soli, insieme.
C’è dell’oriente, qui. Ci sono caverne e suoni ancestrali, antichi e gutturali, archetipici. Poi il mio respiro salta un battito: c’è un soffitto lassù.
Un telo bianco cala, come un coperchio su una scatola di uccellini. Opprime e toglie l’ossigeno, sottrae vitalità, circostanzia. I movimenti diventano spinte e spasmi per lo spazio, ma anche in mancanza di questo: una resurrezione. Ognuno cerca il proprio perimetro e la lotta è solitaria, ma sembra una contorsione che trae linfa da se stessa: più insiste, più recupera vigore. Lo stormo si muove di nuovo all’unisono — ritrovate le forze, recuperato il legame — danza verso l’alto, spinge via il soffitto, punta a scoperchiare la scatola?
A un tratto, entra in scena il rosso (sarà alba, sarà tramonto?) e il sound si scopre più occidentale, quasi un west, mezzogiorno di fuoco nel bianco del telo che si abbassa sui danzatori — su uno solo di loro — mentre il movimento si trasforma e cambia registro, linguaggio, accenti. Tornano tutti gli uccellini, uno a uno, finché, d’improvviso, non realizzano: si guardano attorno, si osservano l’un l’altro, come si scoprissero solo in quell’istante — esistono. Sanno di loro, adesso. E sanno della scatola.
Inizia un’ultima danza. Nuova, e definitiva. Come una confidenza ritrovata col mondo, una prova di spazio, tribale ed elegante insieme, morbida e assertiva, giocata e sensuale. È un rintocco, ma anche scia.
Ecco comparire il giallo (era aurora, dunque), quasi azzurro ora, e in punta di piedi si riforma la coreografia dell’inizio: arricchita del percorso, della liberazione, del ritorno. E con lei, i suoni appena accennati, lontanissimi. Un’alba che è quasi sepolcro. Ma dolce.
Il soffitto della grande scatola scende a coprire la danza, la sposta a terra, la sospinge verso il riposo. La copre, conserva, e protegge. La disarma. Fino al buio, fino al silenzio.
È una domanda che non si cura della risposta — non è quella, che conta. Solo domandare, continuare a domandare. Scoperchiare, con delicatezza.
Come stare dentro il flow. Danzare nel flow. Con il flow, per il flow.