7 Dic 2022

Una luce da trovare: le “illuminazioni” di Gianni Staropoli

Gianni Staropoli – light designer, docente a progetto presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e tre volte Premio Ubu per il Miglior disegno luci (dal 2017 al 2019) – è tutor del bando τέχνη | téchne di Lavanderia a Vapore, quest’anno rimodulato in una residenza collettiva per cui sono stati recentemente selezionati i progetti di Fabritia D’Intino, Concerto_The invisible (realizzato con Federico Scettri), e di Teodora Grano, Daughters (clicca qui per approfondire). Abbiamo avuto modo di incontrarlo e di discorrere con lui – tra folgorazioni antiche e recenti illuminazioni – di drammaturgia della luce.


«Di solito uso uno spazio scenico molto vuoto, non c’è quasi niente, il che rende molto complicata la recitazione degli attori […]. In effetti lo spazio scenico lo descrivo con le luci, sono molto visionario; la luce ha una parte essenziale e la ricerca dello spazio scenico per quello spettacolo, già dal punto di vista dell’immaginazione, deve renderlo adatto anche a intercettare la luce e a riproiettarla […]. Quindi, la luce come determinazione dello spazio scenico. E non solo. Se un attore recita con una luce azzurra, se ne è cosciente, lo fa in modo diverso che non con una luce rossa. Non solo dal punto di vista estetico, ma anche della carica entusiastica, delle pulsioni. Sappiamo benissimo la forza dei colori sullo spettatore. Ma questo funziona anche sugli attori. Comunque faccio teatro in modi molto diversi: una volta ho recitato con quaranta candele e un tamburo, altre volte con dei neon, oppure con delle luci antinebbia brutte, assolutamente brutte. Agisco a seconda di quello che voglio trovare o che voglio ottenere, ma non per un effetto decorativo.»

Leo de Berardinis, Dialogo sull’attore, a cura di Giorgio Zorcù, Effigi, Arcidosso 2012, pp. 36-37.

Partiamo da una questione di “sottopancia”. Ti senti più luciaio o light designer?

Avverto la scissione tra questi due termini, che inquadrano entrambi un mestiere, un’esperienza. Vi è però una notevole differenza tra l’uno e l’altro. Sul palcoscenico mi sento infatti luciaio, nelle fasi di montaggio, nel corso dell’allestimento, durante le prove, quando tocco con mano i corpi illuminanti, mentre osservo ciò che accade. Al luciaio associo anche uno sguardo, o meglio un’azione e una direzione dello sguardo. Light designer è invece un’etichetta comoda per locandine e crediti. Mi sta bene, lì. La tollero. Faccio fatica tuttavia, intimamente, ad accettare l’idea che esista un “disegno luci”, a digerire quest’espressione invalsa ormai nell’uso: per me, con la luce, non si disegna affatto. Si fa, si prova a fare quantomeno, tanto altro. Non disegniamo. L’esperienza contraddice la consuetudine verbale. Laddove il secondo termine insiste sul mestiere, il primo evidenzia il dato essenziale, la luce, componente che chiama con sé in causa lo sguardo, di cui dicevo prima. Quindi il luciaio è colui che cura, che si addentra in un certo modo all’interno del lavoro drammaturgico.

Insita nel concetto di luciaio è anche una certa materialità. La parola pertiene insomma anche al campo dell’artigianalità, del creare, del com-porre (nel senso di montare, mettere insieme).

Esattamente, negli allestimenti c’è un fare. Non è la creazione, quanto più è un addentrarsi, passo dopo passo. Quindi la composizione si disvela progressivamente, nel trovare poco alla volta qualcosa. Ecco che nel luciaio confluisce quest’aderenza, questa porosità. E naturalmente la sapienza artigianale è parte strutturale del lavoro: la luce è materiale e immateriale, fisica e metafisica. Ma investe anche, coreograficamente, lo spazio.

Quali verbi assoceresti al tuo processo di ricerca luministica?

Beh, trovare ultimamente mi risuona molto. In effetti, quando si cerca qualcosa e poi lo si trova si riesce a intuire, a comprendere: “una luce si accende” dentro di noi. È un percorso di conoscenza. che coinvolge il luciaio, il regista, il corpo degli attori o dei danzatori, lo spazio. Questo trovare si lega anche a un aspetto della scrittura, alla drammaturgia, alle scansioni, agli scarti dell’azione scenica. Tutte istanze che vanno appunto trovate. Amo ripetere: “È importante fare la cosa giusta al momento giusto”. Un cambio luci, per esempio, può essere banale, ma – se inserito al momento opportuno – può anche rivelarsi un fondamentale elemento drammaturgico della partitura.

Quali sono, a livello visivo e biografico, le suggestioni alle origini della tua carriera?

Sono cresciuto su una collina sopra Tropea. È la casa della mia infanzia, dove tuttora vive mia madre. Dalla finestra si vede il mare: ho in mente quell’immagine potente, che si estende a colpo d’occhio dallo stretto di Messina all’Etna, passando per le isole Eolie (Vulcano, Panarea, fino a Stromboli). Per vent’anni ho osservato e assorbito questo panorama: si è impresso in me. Credo quindi che nasca tutto da lì. Ovviamente questo fatto l’ho elaborato molto tempo dopo aver iniziato a interagire e a dialogare con la luce. Con gli anni, tale consapevolezza si è cristallizzata. La folgorazione definitiva l’ho poi avuta avvicinandomi a Marcello Sambati, poeta, autore e regista (nonché creatore di spazi e animatore di teatri), che fondò negli anni Settanta la compagnia Dark Camera, grande protagonista dell’avanguardia teatrale e delle cantine romane. L’incontro con lui è stato decisivo, sia da un punto di vista poetico che sotto il profilo professionale. L’aver iniziato con la sua arte, con la sua umanità, mi ha dato una forma, un imprinting.

Che cosa rappresenta, da un punto di vista emotivo e compositivo, la ricerca di una determinata luce, che investe – per esempio – il corpo dei danzatori in scena?

Non ho una risposta univoca. Varie possibilità emergono infatti a seconda dei casi. Credo innanzitutto che esista una differenza sostanziale tra organizzare, disporre, le luci e “fare la luce”, generarla. Alcuni lavori richiedono esplicitamente l’una o l’altra soluzione fin dall’inizio. Vi sono poi spettacoli che virano verso un’unidirezionalità luministica, spettacoli invece che richiedono una gamma, un’iride, uno spettro più ampio. Prima di decidere se optare per un controluce giallo o bianco, mi domando sempre: “Che cos’è la luce?”. È una domanda che mi sorge spontanea. Così come mi chiedo: “Che cos’è questo corpo, questo apparato, dinanzi a me?”. Anche la luce è nel qui e nell’ora, è legata a ciò che accade realmente. Bisogna ascoltare pertanto le parole del testo, il movimento degli artisti, lo spazio. È sempre un lavoro di scoperta: non procedo mai “di mestiere”, manieristicamente. Non mi anima cioè la trovata di sicura presa, il “qui funziona quello, qui quest’altro…”. Certo, ne deriva un percorso che è sempre un po’ in salita, perché anziché accontentarmi di uno schema riproducibile in maniera passiva, prediligo la sfida, il rischio della ricerca. Da un lato è un mio percorso personale, dall’altro – per poter illuminare un corpo e uno spazio – devo necessariamente entrare all’interno di un discorso autentico, sincero.

Proviamo a passare su un piano concreto: OMBELICHI TENUI, in scena alla Lavanderia a Vapore a inizio novembre. Che cromia emanava quello spettacolo? Come hai costruito in quel caso la drammaturgia della luce?

Premetto che io amo seguire le prove, proprio per capire che cosa risuoni tra le varie persone coinvolte in un certo processo artistico. All’inizio infatti c’è sempre un incontro umano, precondizione essenziale al buon esito del lavoro. Una necessità insomma di dialogo e di umanità. Con Filippo [Porro] e Simone [Zambelli] ci siamo trovati fin da subito molto bene. Il loro percorso in OMBELICHI TENUI è stato, per così dire, “trasformativo”. Era partito in una certa direzione; io sono poi subentrato nella versione più “teatrale” della ballata. Abbiamo pertanto lavorato insieme sulla definizione dello spazio. Non è tanto un problema di ambientazione, quanto più domandarsi: “Che tipo di spazio c’è?”. L’importanza dunque di individuarlo… La mia proposta è stata in effetti estremamente concreta: abbiamo debuttato a Castiglioncello, in condizioni neppure troppo propizie. Abbiamo creato un varco nello spazio, una specie di porta (e qui si sono innestate le luci per dare l’atmosfera, la temperatura giusta). La mia proposta – dicevo – è stata molto netta: creare una realtà fisica entro cui collocare la relazione fra questi due corpi. Quindi abbiamo lavorato sulla concretezza…

… nonostante – mi viene da dire – l’alta trascendenza di quell’aldilà che dà titolo alla ballata. La ricerca, insomma, da parte tua, vostra, di una materialità in un setting tradizionalmente deputato, invece, all’inconsistenza.

Sì. Anche se poi il rapporto con lo spettatore, in teatro (pur essendo quest’ultimo, come piace pensare a me, un luogo di utopia e di illusione), ti porta sempre a un forte grado di concretezza. È lì presente un pubblico, che guarda, che respira, che tossisce. Abbiamo lavorato così in direzione della definizione di uno spazio leggero, transitorio, tenendo però conto della tattilità della relazione con la platea.

Un altro progetto della Lavanderia a Vapore che ti vede protagonista, in veste di mentor, è τέχνη | téchne, giunto ormai alla sua terza edizione. Vuoi darci qualche feedback su questo fronte?

Come in tutti i progetti si compie inevitabilmente – nel tempo – una trasformazione. In effetti, già nel corso della sua ultima tornata (a fine ottobre, con A TALE FOR THE ROOTLESS), τέχνη | téchne è mutato. Nato grazie all’attenzione, alla sensibilità e alla cura di Valentina Tibaldi e dello staff di Lavanderia, questo percorso è nato fondamentalmente come “residenza di accompagnamento tecnico”. Ben presto ci siamo resi conto, però – e nella residenza di Teresa [Noronha Feio] questo dato è emerso in maniera evidente -, che non ci si potesse naturalmente fermare a una trasmissione nozionistica di saperi pratici. Certo la tecnica resta basamento, ma intesa come ars, come grammatica compositiva del corpo illuminante. Abbiamo per esempio abbandonato la giornata dedicata all’illuminotecnica, non abbiamo parlato di sagomatori o domino. Piuttosto, ci siamo concentrati sul lavoro di Teresa, che tornava in scena dopo alcuni mesi. Per me la luce è innanzitutto un pensiero, che – per trovare concretizzazione – si affida a maestranze e strumenti, tecnologie. Quest’anno abbiamo insistito molto sulla drammaturgia del lavoro, su alcuni nodi dischiusi un po’ a ventaglio. Man mano che si procedeva con la residenza, da parte mia introducevo riflessioni che potessero sollecitare la costruzione, in particolare sui temi dello spazio e della luce. Teresa aveva portato un’opera in fieri: ne possedeva dei segmenti, che nel “filaggio” era necessario rafforzare, lavorando sulle transizioni, sulle estremità (l’inizio, la fine), sulle durate, sui tempi di esposizione del corpo alla luce. Questioni che – di norma – vengono trascurate, su cui non si ragiona in maniera debita, ma che quando vengono adeguatamente esplorate diventano fondamentali in ottica creativa.

Dal 2023, τέχνη | téchne diventa una residenza collettiva, un percorso di formazione condivisa e collaborativa in cui i partecipanti, a partire da un proprio progetto artistico in divenire, avranno modo di scandagliare visioni e nozioni pratiche relative alle componenti della luce, del suono e dello spazio al fine di leggere e comprendere la tecnica non come elemento da configurare nella fase conclusiva del prodotto artistico, ma come dimensione da pensare in nuce, in quanto stratificazione della drammaturgia del progetto. Ecco, qual è il valore aggiunto che si cela all’interno di questa nuova modalità, di questo spazio-tempo innervato di scambi e relazioni?

Chiara Organtini ha avuto – il termine mi sembra più che mai calzante in questo contesto – un’illuminazione: ha avvertito il desiderio di allargare la platea dei partecipanti, trasformando appunto τέχνη | téchne in una residenza collettiva, in un ambiente di cura reciproca. Credo che questo switch possa rivelarsi determinante. Per come la intendo io, diventerà quasi una residenza creativa, un allestimento collettivo e in progress al cui interno io interverrò (in base alla direzione assunta dal lavoro) stimolando quesiti relativi allo spazio, al colore, al corpo, alla drammaturgia della luce. Non si tratterà insomma di domande predeterminate a priori, come in una lezione frontale, bensì dipendenti dalle necessità specifiche della creazione. Il focus è il lavoro che gli artisti selezionati portano, o meglio un suo segmento. A partire da qui andremo a innestare tutta una serie di interrogativi che possano nutrirlo, mettendo in atto magari piccole prove o variazioni. Un allestimento, d’altronde, è sempre un viluppo di pratica e teoria, riflessione e azione. Ciascuno guarderà il lavoro altrui, in una dinamica circolare di riflessione e rifrazione delle questioni. In ciò consiste, dal mio punto di vista, il maggior valore aggiunto di questa nuova postura.

Intervista a cura di Matteo Tamborrino

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Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE