Sabato 11 febbraio, all’interno della cornice di onLive Campus, Kamilia Kard – artista e docente con base a Milano – ha lavorato con alcuni danzatori per sviluppare un pattern coreografico tradotto poi in algoritmo, all’interno dello spazio digitale dell’azione performativa da lei firmata, Toxic Garden – Dance Dance Dance. L’eponimo e venefico giardino – nato da una fase di ricerca avviata presso la Lavanderia a Vapore di Collegno a settembre scorso, nell’ambito delle Residenze Digitali – aveva trovato un primo debutto online tra l’8 e il 10 novembre (scopri di più).
La ricerca di Kard, dottoressa in Digital Humanities all’Università di Genova e docente di Comunicazione Multimediale a Milano e a Carrara, esplora il modo in cui l’iperconnettività e le nuove forme di comunicazione online modifichino e influenzino la percezione del corpo umano, della gestualità, dei sentimenti e delle emozioni. Dal 2011, i suoi lavori vengono spesso esposti presso gallerie, festival e istituzioni di risonanza nazionale e internazionale. La sua ultima creazione, Toxic Garden – Dance Dance Dance, si configura come una serie di performance partecipative online ambientate in un metaverso creato ad hoc su Roblox, popolarissimo massively multiplayer online game (MMO). I partecipanti, attraverso i propri avatar, sono coinvolti in balli di gruppo sincronizzati, su coreografie che combinano passi di danza registrati in motion capture, in collaborazione con performer, e tratti da videogiochi famosi. Il progetto mira alla costituzione di una comunità temporanea i cui membri siano invitati a riflettere su questioni di identità, genere e inclusività nell’ambiente virtuale di Roblox, uno dei principali luoghi virtuali di incontro e socializzazione per gli adolescenti. Attraverso la sincronizzazione del movimento e l’utilizzo di skin speciali disegnate per l’occasione, la danza collettiva diventa un rituale di aggregazione che sprona a liberarsi del fardello del proprio alter-ego virtuale.
Kamilia, quale ruolo svolge, nell’ambiente virtuale da te creato, l’immaginario vegetale?
Parlando di rapporti pericolosi, volevo dar vita a una realtà che rappresentasse al meglio, in modo naturalmente metaforico, questo intreccio di relazioni. Di conseguenza ho pensato a un “florilegio” di piante velenose, a un giardino composto da presenze vegetali che fossero comunque a me comuni, familiari. Non ho scelto, in altre parole, piante tropicali o esotiche, ma figure di cui avessi avuto esperienza diretta, visiva, tattile. Per esempio, la cicuta, che spesso si può osservare nei campi, in grande quantità. Questo perché, come le piante invadono il nostro campo percettivo senza quasi rendercene conto, così le relazioni che viviamo in maniera tossica ci scivolano addosso, automaticamente, blandamente. Certo, a volte lasciano traccia in maniera più forte: dipende dal contesto in cui germinano o dal coefficiente di investimento emotivo (se si tratta cioè di rapporti sentimentali, d’amicizia oppure professionali). Ho tentato quindi di astrarre, o meglio di metaforizzare, questa necessità tramite una flora venefica: i nostri comportamenti diventano in sostanza i “residui clorofilliani” di una sorta di ancestrale ego discendente a sua volta dalle piante, prima forma di organismo vivente. Rimasugli vegetali che ci portiamo dietro e che sfoderiamo all’occorrenza, quando ci sentiamo attaccati.
Proviamo a fare un passo indietro. Da quali suggestioni nasce il lavoro?
Tutto parte da un’osservazione. Durante i mesi di pandemia, ho tenuto dei corsi di programmazione su Roblox – piattaforma che ricalca la struttura di un metaverso – per un gruppo di 6-8 ragazzine tra i 9 e gli 11 anni. Era per loro uno spazio e un tempo collettivo per reagire all’isolamento domestico. Alla prima ora di spiegazione seguiva una seconda ora di gioco. Questo, insomma, il pretesto. Le guardavo giocare, senza un particolare scopo. Ma spesso gli spunti creativi arrivano da sé. Si scervellavano, si struggevano, si lambiccavano letteralmente il cervello per trovare outfit che fossero idonei alle rispettive identità digitali. Al di là di tutta la sub-cultura legata a Roblox, mi impressionò – durante il game play – notare come spesso molte di loro uscivano incontrando determinati avatar, qualificati come “cattivi”. Ho avuto modo di veder insorgere e svilupparsi in quell’ambiente atteggiamenti tossici. Da lì è discesa tutta una ricerca specifica sul gaming. E ho scoperto che i giochi più utilizzati, in particolare da un’utenza di giovani ragazze, erano quelli di danza sincronizzata collettiva, molto entertaining e potentemente comunicativi. L’elemento è poi permasto in Dance Dance Dance. Lo spettatore può infatti chattare online, interagire: compare la classica nuvoletta e puoi conversare con un altro avatar. L’elemento di comunicazione nei videogiochi si è sviluppato tantissimo, specie nei multiplayer.
La chat, quindi, come ulteriore metafora di relazione.
Sì, o quantomeno metafora di un’osservazione. Osservazione del modo in cui si sviluppa una relazione (tossica e non) all’interno di un metaverso e di come l’avatar riesca a influire sulla percezione dell’altro.
Nelle nuove tecnologie tu rintracci il tuo “spazio d’elezione“: hortus conclusus o Eden della ricerca performativa?
Io utilizzo molto spesso le nuove tecnologie per esprimere o sviluppare una ricerca in atto. Mi danno l’opportunità di inserire all’interno dei miei lavori molteplici piani, argomenti. Mi viene… naturale. Si celano nel digitale molteplici risorse: non a caso me ne servo principale medium espressivo, talvolta ibridandolo con forme tradizionali. Talvolta la “digitalità” pertiene al processo, talaltra all’esperienza. Dipende da ciò che voglio dire, comunicare. In alcuni momenti del mio percorso ho sfruttato l’ambiente del videogioco – pensiamo non solo all’ultima creazione ma anche a Loading Instructions (Mansplaining) del 2021 -, in altri la stampa 3D, che genera una scultura, un oggetto tangibile. Mentre nel primo caso il digitale impatta sulla dinamica fruitiva, nel secondo diviene elemento di una più articolata scrittura della scena, ma la liturgia spettatoriale resta consueta. Dipende da quanto desidero che il lavoro sia immersivo: con la VR la penetrazione dello sguardo muta tantissimo; con Roblox, invece, è l’interattività ad essere altissima. Dipende – come dicevo – da quanto voglio coinvolgere il mio interlocutore.
Michele Pecorino, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, ha visto per noi al Teatro Municipale di Casale Monferrato, lo scorso 25 gennaio, la prima nazionale di U(r)topias, concept e coreografia della greca Patricia Apergi per la Aerites Dance Company.
La parola U(r)topias deriva dal greco e significa “non luogo”. Il prefisso “Ur” – ‘antico, primitivo, prototipo’ – simboleggia il percorso per la definizione di una nuova utopia, che rivisita la nostra storia. Che tipo di utopie dobbiamo inventare e costruire nel XXI secolo? U(r)topias sono l’immaginario e i luoghi ideali dove una società e comunità può rintracciare uno stile di vita perfetto, imparando dai fatti della storia e rileggendola. Questo concetto è connesso con l’idea coreografica di una caduta, quella che Patricia Apergi ama anzi definire l’”utopia della caduta”. La sua ricerca si basa sul momento in cui una persona perde il controllo. Il finale è prevedibile per gravità. Ma che cosa accadrebbe se cercassimo di cambiarlo? Se affrontassimo questo movimento in modo non logico? È una maniera per suggerire a una nuova rivoluzione, una nuova resistenza o un nuovo modo di cadere e fallire che potrebbe simboleggiare una grande vittoria.
concept e coreografia Patricia Apergi drammaturgia Roberto Fratini Serafide musica Dimitris Kamarotos set design Dimitis Nasiakos light design Nikos Vlasopoulos costumi Irene Georgakila assistente coreografia Emmanouela Sakellari danzatori Sevasti Zafeira, Fuerza Negra, Giannis Economidis, Kostas Phoenix, Sofia Pouchtou, Haris Chatziandreou, Ilias Chatzigeorgiou produzione Techni choros theatre company, Aerites Dance Company distribuzione Plan B – Creative Agency for Performing Arts Hamburg *The piece was funded by the Greek Ministry of Culture and Sports
Il suono riecheggia veloce, quasi come una rapida scossa. L’azione che prima appariva lenta, non fa che rivelarsi in tutto il suo repentino capovolgimento. Un evolversi improvviso che lo spettatore non si sarebbe aspettato con così tanta rapidità.
In tal modo inizia U(r)topias, l’ultimo lavoro della coreografa greca Patricia Apergi, che vede la sua prima nazionale italiana, presso il teatro comunale di Casale Monferrato.
Tutto ha inizio quando, in sala, le luci sono ancora accese. Qualcuno, come di consueto, sta ancora scattando le ultime foto da aggiungere alle centinaia già presenti nei propri dispositivi. Da qualche altra parte, tra le poltrone color porpora, qualcun altro si mette in posa alla ricerca dell’ennesimo scatto che possa dirsi degno di apparire sui personali canali social. Mentre tutto ciò avviene, accompagnato dalle aspre consonanze di un chiacchiericcio di sottofondo, sul palco fanno la loro comparsa sette danzatori.
L’azione si evolve in una rapida caduta. I corpi rovinano inevitabilmente sulle tavole del palcoscenico. Proprio sul proscenio. Quasi a contatto con quel pubblico in balia di sconosciuti processi cognitivi. Nessuno di essi si abbandona, però, ad un completo rilassarsi dei muscoli. La tensione attanaglia quei corpi, li rende rigidi, statici o meglio statuari. Nella mente un balenare continuo di infinite immagini, poi un attimo di quiete. I corpi in scena, sembrano ripercorrere le ieratiche e bronzee forme di colossi protoclassici. I volti, le mani, gli sguardi, gli arti sono carichi di vibrazioni interne che si propagano impercettibilmente e in continuo equilibrio.
Il pubblico assistendo a ciò velocizza le proprie azioni, cercando di portarle al termine nel minor tempo possibile. Il ciangottio sembra spegnersi, riservandosi ancora qualche residuo refolo. Dalle torbide acque di un ricordo offuscato, sembrerebbero riaffiorare delle parole indefinite. Le bocche dei danzatori appaiono sigillate, eppure qualcosa si è sentito. Qualche sibilo, qualche nota si è infranta contro una articolazione incompleta di lettere. Un suono che, in relazione con ciò che avviene, viene percepito armonicamente. Un baluginio di poesia, un significante privo del suo significato. Quel linguaggio, assemblato mediante sconnesse parole e fonemi, dona alla scena una forte componente sonoro-espressiva.
Finalmente le luci si abbassano. I danzatori si sollevano dalle loro posizioni e in un rapido divenire si mostrano in una ulteriore caduta e poi un’altra ancora. La dissoluzione fisica, assurgendo a mezzo espressivo centrale e conduttore, veicola una visione dove nessun passato è rigettato. Nessun tentativo trascorso, tantomeno la memoria del corpo sono rifiutati. Nella ripetizione ogni sibilare dei corpi danzanti, si arricchisce. La scena si tinge di una intensa azione che avviene mediante un linguaggio del corpo codificato, solido, ma che si scompone per comprendersi.
Il gesto e il movimento coreografico si intersecano in uno stretto contatto con i codici più vari. I costumi, dai colori terrigni, accentuano ancora di più quel senso di caduta frammentaria, mostrandone le viscere. La prossemica dei corpi non fa altro che indicare qualcos’altro che esiste in quell’oltre possibile, ma sconosciuto perché mai indagato.
U(r)topias vede la sua epifania (non a caso ricorro a questo termine derivante dal greco ἐπιϕάνεια, ovvero manifestazione) nel 2021, anno in cui ricorre il duecentesimo anniversario dall’inizio della guerra d’indipendenza greca.
Rivoluzione che, con il sacrificio di numerosi civili, porterà all’ affrancamento dall’Impero ottomano e nel 1832 alla relativa nascita del regno di Grecia.
La coreografa indaga su cosa voglia essere un’Utopia contemporanea, e come questa possa essere possibile. Lo fa attraverso i corpi, attraverso lo spazio che si scompone per poi ricostruirsi tendendo ad indirizzarsi verso multiple direzioni.
Per fare ciò entra all’interno di un rapporto dialettico tra memoria e storia. Il legame con il passato è innegabile. La riflessione filosofica, assai consapevole, è del tutto presente in Arpegi, data anche e principalmente dalla formazione speculativa che ha alle spalle.
Da una Utopia si Passa a una U(r)topia. Il termine utopia deve la sua origine alla penna di Thomas More. Il filosofo inglese lo conierà nel 1512, appositamente come nome di un’isola immaginaria dove si svolgerà la vicenda del suo romanzo dall’interminabile titolo: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”. La parola deriva originariamente dal greco, οὐ (non) e τόπος (luogo), e significa appunto “non-luogo”.
La coreografa aggiungendo il prefisso ur- che in greco significa primitivo, antico, originale, esprime simbolicamente il desiderio di raffigurare una Utopia odierna.
U(r)topias è dunque una Utopia reinventata attraverso un dialogo conscio con il passato. È l’oggetto necessario per un domani prospero. Una materia intangibile, un sogno dalle platoniche affinità.
Patricia Arpegi attraverso i corpi, lo spazio, sente il bisogno di ridefinire il nunc et ora dell’utopia, rendendolo un qualcosa di possibile, almeno attraverso una proiezione verso territori altri. Traccia la strada da poter percorrere tra i fallimentari tentativi di utopie del XX secolo. Porta all’interno di una presa di coscienza sull’impraticabilità di una rivoluzione. I danzatori, in scena, fanno i conti con la contemporanea caduta delle ideologie e con questo ciò che ne concerne. Non è difficile individuare, alla base di questo lavoro, certe analogie con la fenomenologia nichilista e del suo manifestarsi attraverso il pensiero debole. Concetto filosofico che sta alle fondamenta del postmodernismo europeo, di cui Vattimo e Rovatti sono i massimi esponenti.
L’ideatrice del lavoro e di conseguenza i performer, si pongono delle domande riguardo ai momenti in cui i corpi perdono il controllo di se stessi, a causa di molteplici crolli. Una defezione dovuta allo schiacciamento che trova la propria origine proprio in quell’essere indebolito e poroso davanti alle dinamiche di potere di una sovrastruttura invalicabile. Le cadute, sempre più reiterate, compongono una fitta partitura ritmica. Questa si evolve mediante l’esperienza del collasso.
Ebbene, il concetto di nuova e odierna utopia si traduce in ciò che la stessa autrice definisce Utopia della caduta. Un rovinare a terra che si prospetta senza mezzi termini, ma che si cerca in tutti i modi di indagare per poter attuare un cambiamento. Puntare ad una illogicità che non risponda ad uno schema già tracciato, ma che indichi, da sola, un’altra possibilità.
I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Sociale di Pinerolo, lo scorso 21 gennaio, a una replica di Flow, creazione della compagnia svizzera Linga. Qui di seguito le loro restituzioni.
Flow, il flusso, la nuova creazione della compagnia Linga, si ispira all’affascinante spettacolo del mondo selvaggio, al movimento nell’aria degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, al movimento nell’acqua di branchi di pesci o ancora alle migrazioni di greggi di mammiferi. Queste formazioni flessibili e fluide, capaci di cambiare istantaneamente velocità e direzione senza perdere la propria coerenza spaziale, interrogano le leggi di interazione che agiscono sui diversi membri di un gruppo e sulla coordinazione dei loro movimenti.
idea e coreografia Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo interpreti Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vallbona (o Valentin Goniot), Ai Koyama, Valentin Goniot, Clélia Mercier, Csaba Varga, Cindy Villemin luci German Schwab musiche originali Keda (Mathias Delplanque, E’Joung – Ju) scenografia Marco Cantalupo, Emilien Allenbach costumi Geneviève Mathier produzione Compagnie Linga coproduzione Compagnie Lnga, L’Octogone Théâtre de Pully
Un flusso di corpi
di Giorgia Borgioli
C’è una luce flebile: illumina i dischi di sette colonne vertebrali che si muovono in onde uniformi. C’è una musica generata sulla scena stessa, che più che accompagnare si modella sui copri nello spazio e anche loro modellano il suono.
C’è una domanda, che pervade le figure sul palco e poi, gentile, si insinua nella platea.
Poi svanisce.
C’è un insieme di atomi che sembrano essere attratti l’uno dall’altro.
C’è una domanda.
Poi svanisce.
C’è un movimento che ricorda il Tai Chi, fluisce sulla scena fino a divenirne parte.
C’è una domanda.
Poi svanisce, anche questa.
I muscoli sudati si srotolano in un flusso naturale che quando prende potenza scaraventa sul pubblico una serie di domande a cui non c’è risposta.
E la platea non può che riceverle. Le accetta come si fa con un dono, le osserva con curiosità, poi si accorge di non poterne attribuire alcun significato. Ma non è importante, perché proprio mentre il pubblico è lì che cerca di darsi una risposta, prontamente arriva la prossima domanda.
C’è un flusso di corpi che si fondono e la loro lega restituisce a chi li guarda domande alle quali nessuno avrà risposta.
C’è un flusso di corpi talmente potente che chi lo guarda si dimentica di volere da lui delle risposte.
Nel profondo blu
di Ludovica Fioravanti
Acqua siamo e acqua ritorneremo. Oscilliamo, avanti e indietro, fluidi, onde. Nel corpo e nella vita. Fluiamo nello scorrere del tempo. Balliamo come pesci nel mare. Per alla fine trasformarci. Nulla rimane uguale, everything flows.
Siamo spinti nel profondo blu. Acqua salata, rumori ovattati molto lontani. Luce quasi inesistente: uno spiraglio, fioco. I metri cubi di acqua sopra di noi filtrano tutto. La vita che esiste qui vaga nel movimento delle correnti e quasi nessuna vegetazione. Ogni tanto un’alga sparsa si appiccica alle squame di uno del branco. A furia di errare in questa densità blu notte, entriamo come in trans, mentre col branco ci muoviamo senza meta. Respiriamo insieme, in sintonia, siamo come un unico sistema. Siamo in sette diventati uno, oscilliamo per il palco come un feto nella pancia: sospesi, fluidi, densi.
Ma un basso più forte si fa sentire. Forse siamo risaliti troppo in superficie, quasi a galla. Anche la luce è aumentata. La distanza fra noi e fuori è sottile, sentiamo la musica scandita che suona nel mondo dell’aria, ci stiamo risvegliando dal nostro trans.
Iniziamo a danzare insieme, poi liberi. È una festa, saltiamo fra aria e acqua, spezzando l’uniformità che ci accomunava. Ci tuffiamo con vigore, tanto l’acqua attutirà. Fino a che essa non si trasforma in terra, solida, invalicabile, dura. Non facciamo in tempo ad accorgercene. Sbattiamo tutti sul pavimento. È aria e terra, non più acqua. Non siamo più acqua. Tutti corrono alla ricerca di un riparo, in questo nuovo mondo. Rimane un uomo, solo.
Sembra essere arrivato il predatore e siamo tutti all’erta, sospettosi, ci guardiamo come a disagio, senza fiducia, scappiamo, ci seguiamo. La domanda è: chi di noi prenderà? Nella foga impazziamo, stimoli elettrizzano il nostro corpo e così, sotto un cielo di luce bianca, cambiamo di nuovo.
La luna è un’esperienza solitaria. Pare deserta. L’uomo perso è qui un’ovvietà. Tutto si colora di bianco pallido. I suoni sono primitivi, sembra l’inizio della vita. La creazione da un foglio bianco. Come per la prima volta le orecchie sentono suoni, così anche il solitario cerca di farsi suonare con ciò che dispone: il corpo. Ricerca la corrispondenza con il luogo. Fino a quando una donna appare. Lei sembra sapere che musica tira qui. Non pare estranea, ma abituale. Entra un uomo che interrompe il momento. Cerca di fare colpo con capriole e acrobazie. Fortunatamente questa terra brulla è abitata. Ci sono più personaggi. Addirittura, un samurai. Sono una tribù che festeggia, che accoglie. Lo siamo diventati, una comunità in sintonia, un popolo che balla sulla stessa musica.
E ci ritrasformiamo. Siamo di nuovo pesci, siamo tornati nel profondo blu, siamo rimasti in sette ma formiamo un solo organismo. Abbiamo riprese ad ondeggiare, a fluire nel mare.
Corpo di corpi. Corpo di greggi. Corpo di stormi, di banchi di pesci.
Fluire — uno strumento. Di chi è tutta questa vita?
L’astrazione della danza promette più carne della carne stessa.
La coordinazione nei movimenti sincroni collettivi.
Strumento.
Di chi è tutta questa vita?
Osservate in natura, le regole che regolano questa coesione spaziale ci hanno ispirato.
Strumento.
Di chi è tutta questa vita?
Nuova forma di organizzazione nel movimento di gruppo.
Strumento.
Coscienza collettiva nello spazio.
Fluire.
Di chi è tutta questa vita?
Questo progetto ci interroga sul rapporto tra individuo e gruppo.
Fluisco.
I limiti: costruzione — e istinto.
Di chi è…
Fluisco.
Tutta questa vita.
Strumento.
Corpo. Terra. Fungo.
Geomungo.
La leggenda del Geomungo
di Alessandra Perinetto
Lo spettacolo non è ancora iniziato, ma sul palco c’è qualcosa che cattura l’attenzione di tutti in sala, ancora prima dell’ingresso dei ballerini: è uno strumento musicale particolare, che probabilmente gran parte del pubblico non ha mai visto. È il Geomungo (in hangul: 거문고), uno strumento tradizionale coreano. Ha un corpo di legno lungo quanto l’apertura delle braccia di una persona, sul quale sono posizionate sei corde: lo si suona con un particolare bastoncino fatto di bambù o con un archetto.
Secondo una leggenda, la prima volta che il Geomungo fu suonato, dopo la sua invenzione, dal primo ministro del regno Goguryeo nel sesto secolo dopo Cristo, una gru entrò nel palazzo reale ed iniziò a volteggiare sulle note musicali. I ballerini sul palcoscenico sembrano rievocare proprio questo momento, con i movimenti dei loro corpi: volteggiano e corrono, si sollevano l’un l’altro come in volo. All’inizio, al buio, respirano tutti insieme, come un’unica creatura con il sottofondo del vento, poi, quando si sentono le prime note dello strumento, iniziano ad inseguirsi e perdersi, volare e cadere.
Il Geomungo era lo strumento preferito dei discepoli di Confucio per prepararsi alla meditazione e concentrarsi, poiché il suo suono calmava la mente e la ripuliva da qualunque pensiero. Questa tecnica era tanto apprezzata e ammirata in tutta la Corea, quando si unificò sotto il regno Silla, che il re inviò un emissario all’eremo Ok, affinché imparasse dagli eruditi confuciani a suonare il Geomungo. Anche quando le persone di bassa estrazione sociale suonavano questo strumento, dovevano pensare e comportarsi come discepoli confuciani. Anche i ballerini sul palco hanno trasportato gli spettatori in un’altra dimensione, ripulendo la mente del pubblico da qualunque pensiero estraneo al momento stesso della rappresentazione.
C’è un’altra leggenda che riguarda il Geomungo. Nella tarda epoca Joseon (1392-1910), il migliore e più ammirato suonatore di Geomungo era Kim Seong-Ki. Tuttavia, quanto più la sua capacità era apprezzata e più la fama del suo nome cresceva, tanto più egli si vergognava di vendere il suo talento per il prosaico scopo di mantenere la sua famiglia. Decise quindi di ritirarsi e vivere solo, in una baracca sul fiume Hangang e dedicarsi solo alla pesca. Alcuni componimenti conosciuti fino ad oggi sembrano risalire a lui. Come Kim Seong-Ki si sentiva oppresso dalla mercificazione del suo talento, così sui ballerini sul palco cala un pannello bianco che li schiaccia, loro si piegano, sono soffocati da questo peso che li opprime. A differenza del leggendario suonatore, che si ritirò da tutto e tutti, però, i ballerini sul palco riescono ad allontanare la minaccia solo insieme, dopo aver fallito singolarmente. Tentano un ad uno di affrontarlo, sollevandosi e saltando, i loro corpi sembrano quasi rompersi e spezzarsi per la fatica. Solo quando ritrovano la coordinazione e iniziano a muoversi tutti insieme riescono a liberarsene.
Lo spettacolo si conclude con tutti i ballerini che tornano a formare un unico corpo, un’unica creatura, che dopo aver concluso il suo volteggio nell’aria e aver vinto contro chi cercava di ostacolare la sua libertà, può tornare a respirare e, infine, assopirsi.
Flow o il riecheggiare dei passi
di Michele Pecorino
Si ode uno stormire mutevole. È impossibile non scorgere in scena quei tratti cangianti che rapiscono lo spettatore, per portarlo in un mondo altro. Flow, proprio come suggerisce il titolo per nulla criptico, è un flusso incessante. Un procedere ondeggiante e flemmatico dove i danzatori creano relazioni fondate sull’ascolto. Relazioni indissolubili che si poggiano lievi sugli occhi degli astanti. Un continuo avvenire, dove la prevedibilità lascia il passo ad un corso casuale. Dall’osservare si passa al vivere qualcosa che non solo avviene in scena, ma anche in luoghi altri, sconosciuti. Si elevano ambienti delle vaste e sublimi ombre. Il pubblico, restando incollato alle comode poltrone, compie percorsi fluviali, attraversa brividi ancestrali.
I primi suoni vengono emessi, le menti degli spettatori, sin da subito, si attivano nel riecheggio di suggestioni passate. I gusto, un pò acre, della memoria genera immagini nove. Ogni gesto richiama un volto, una forma, un colore, una sensazione. Qualcosa di mai vissuto un racconto mitico, epico. Proiezioni di un mondo vicino ma sfuggevole. Dal canto opposto tutto quello che, fino ad un attimo precedente, sembrava essere lontano, adesso appare vicino. Alla vista sembrerebbe aprirsi un papireto beccheggiante sotto lievi ariette. Lo scorrere dei corpi danzanti, leggiadri e armonici, fa dispiegare le ali affinché si possa intraprendere un viaggio ossimorico. Privo di qualsiasi zavorra che possa far diventare ogni meta di passaggio un punto di ancoraggio. I performer sembrano essere immersi all’interno di un flusso sonoro che li coinvolge. É tutto una riemersione cangiante. Una continua evoluzione.
I ritmi, dalle risonanze orientali, sono dati da una musicista visibile sul palco. Lo strumento, dal quale proviene il suono, è alquanto particolare, per non dire del tutto sconosciuto alla più ampia parte dei presenti in sala. Si tratta di un Geomungo uno strumento originario della Corea settentrionale. Un cordofono, per l’esattezza, simile ad un monocordo pitagorico. La musicista capta ogni gesto, sente ogni intenzione dei danzatori. Le sue dita traducono in note ciò che avviene sulla scena. Impercettibilmente sulle corde scorrono i passi dei corpi tersicorei. Gli armonici crescono in un evolversi graduale, per poi subito assottigliarsi a seguito dell’insinuarsi lento di tinte più tese. Il vibrato, dato da un archetto sulle corde, il pizzicato accennato, simile a uno stillicidio, donano una profondità sonora alla scena. Si innesca un vortice dentro il quale poter fare esperienza di un nuovo un paesaggio uditivo.
La fluidità non trascina i corpi dei performer, bensì diviene luogo abitato in piena coscienza di movimento. Ogni singolo gesto risente della propria autonomia di compostezza. L’armonia è nella presenza stessa dei corpi. Nella dinamica naturale che generano relazionandosi senza schemi rigidi. La scrittura coreutica, carica di molti momenti corali, attraverso il delicato scorrere, si rafforza di immagini sempre più presenti e forti. I frequenti spirti di gennaio che rincorrono, realmente, ma anche in maniera del tutto suggestionale lo spettatore seduto sulle poltrone, sembrerebbero abbattersi con furia infausta in una scena densamente popolata. In tutto c’è una viscerale attesa dell’attimo. La propensione all’evoluzione innesca quel flusso di cui cui questo lavoro è espressione. Il disegno luci si compone di particolari tagli che si spostano da colorazioni calde a più fredde. I riflettori sono calibrati magistralmente, in relazione al movimento cangiante della scenografia. Lo spettro visivo si districa grazie alla presenza del pannello scenografico. Ciò fa che esso sia un elemento scenico polivalente. Da filtro per la luce passa ad essere un telo riflettente. Ma soprattutto è un oggetto di scena che disegna lo spazio che ne da le diverse profondità. Il pannello viene abbassato, rialzato, viene inclinato prima da un lato e poi da quello opposto. Ebbene, il flusso caratterizza e avvolge ogni elemento costruttivo di Flow. Ogni occhio, ogni presenza si abbandona ad esso ed il viaggio continua teatro dopo teatro.
Pensieri sconnessi e e benzinai per Pinerolo, Flow e il mondo che si muove
di Mirco Spadaro
Zugunruhe, tedesco, da Zug, movimento, migrazione, e Unruhe, preoccupazione, ansia; da un- ,particella di negazione e Ruhe, quiete, calma. Zugvögel, gli uccelli che migrano. Lo Zugunruhe, chiamato anche “irrequietezza migratoria”, è l’istinto d’ansia degli animali migratori quando arriva la stagione in cui è tempo di spostarsi, di muoversi, di migrare; anche in gabbia, gli uccelli sentono il richiamo del vento dell’Ovest. È sabato 21 gennaio e stiamo tornando dal teatro Sociale di Pinerolo; lo spettacolo di Katarzyna Gdaniec, Marco Cantalupo e della compagnia Linga si chiama Flow, racconta delle cose che spaziano nel mondo, di corpi che sembrano tanti aironi e sbattono grandi ali come braccia, di grandi greggi d’uomini donne animali che sono tante cose e tutt’insieme formano un’eggregora: movimento. Per me ha parlato anche d’altro: di migrazione. L’ho capito che sentivo ancora la musica e le ruote sull’asfalto passavano di fronte ad un benzinaio che non illuminava la notte, ma la rendeva più misteriosa.
«When a change comes, some species feel the urge to migrate. They call it zugunruhe, a pull of the soul to a far off place. Following a scent in the wind, a star in the sky», quinta puntata, prima stagione, Heroes. Gli storni coordinano i propri movimenti allineandosi con i sette uccelli più vicini: vanno a ritmo, anche loro come i coreografi davanti a noi; anche noi. Noi siamo in movimento; su sette e più di miliardi di abitanti che il pianeta conta, nove o dieci alla fine di questo secolo, più di un miliardo si sta muovendo in questo momento. 232 milioni di persone migrano oltre i confini del proprio paese: il 33% nell’Africa subsahariana, il 21% nel Medio Oriente. Diciotto Paesi attirano più del 70% di queste potenziali migrazioni; tra loro in particolare gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Regno Unito, la Francia, la Spagna e l’Australia. Lo fanno per molte ragioni, alcuni fattori influiscono più di altri: la popolazione anziana da un lato, una giovane e disponibile dall’altro, la penuria di mano d’opera, la disoccupazione, l’accesso alle risorse naturali, i sempre più incalzanti, prementi e terrificanti problemi della quasi insuperabile crisi ambientale; i drammi della politica e del senso di umanità, che ora si perde, che ora si trova, si dubita.
Zugunruhe; anche gli animali sono in movimento: spostamenti verticali in risposta a variazioni di temperatura nei microrganismi d’acqua dolce; il viaggio delle balene dai mari polari a quelli subtropicali; il grande muoversi, pesante e indefinibile, dei boschi, dei deserti, che si guerreggiano lo spazio in battaglie invisibili; lo spostamento terrificante delle nuvole di locuste africane quando la popolazione cresce e il nutrimento scarseggia; la grande marcia dei lemming che si muovono trascinandosi appresso la fame dei compagni loro, morti nel cammino; il mare, la tempesta d’ali dei 50 miliardi di uccelli che coprono il cielo del mondo: una schiera. «Nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosceva il diritto di lasciare qualunque Paese, compreso il proprio, senza però definire il diritto di entrare in un altro. In seguito, il diritto ha compiuto progressi per gli immigrati regolari ma le frontiere si sono chiuse all’entrata. Gli Stati percepiscono spesso la migrazione come una minaccia all’esercizio della loro sovranità sulle frontiere e la migrazione irregolare come una forma di criminalità. Ma i muri delle frontiere sembrano frantumarsi grazie al peso delle reti transnazionali, ai matrimoni misti, alla valorizzazione degli scambi culturali, allo sviluppo dello ius soli e alla doppia cittadinanza, alla consapevolezza della diversità culturale e delle identità multiple, alla lotta contro le discriminazioni […]», scrive Catherine Withol de Wenden nel suo saggio “le nuove migrazioni”.
Erano le nuove migrazioni tanti anni fa; oggi le migrazioni nuove sono ancora più nuove e sono ancora diverse; c’è una nuova linea della metropolitana in costruzione a Collegno, chiacchieriamo sulla navetta che ci porta a casa dal teatro di Pinerolo. Domani, un domani, spostarsi verso Torino sarà diverso; sarà fottutamente più veloce, dico sulla navetta. Tutta la migrazione del mondo che si muove come un unico braccio teso, in ricerca. Anche noi ci muoviamo, come i gabbiani che s’abbarbicano temporaneamente sui neon dell’IP che sbiascica i suoi prezzi un po’ pazzi nel freddo un po’ porco della notte. Si muovono loro e ci muoviamo noi: Torino, Pinerolo; Pinerolo, Torino; Rivoli, Collegno, Torino.
«Flow, c’est la fluidité, le flot, le mouvement qui coule comme en apesanteur. C’est aussi une performance d’une précision rare. […] un spectacle inspiré de ces fascinantes facéties que nous offrent parfois les bancs de poissons capables de former un groupe compact sans se heurter». Le migrazioni riducono le disuguaglianze; ci ho riflettuto mentre guardavo E’Joung-Ju che pizzicava le corde del Geomungo, la cetra tradizionale coreana. Come un braccio, richiudono le distanze. Le musiche sono di KEDA, un duo formato da E’Joung-Ju, musicista esperta di questo particolare strumento, e Mathias Delplanque, compositore di musica elettronica famoso in Francia. Scocca le corde e come una freccia il corpo di Csaba Varga, che ha ballato sotto un cielo che si faceva progressivamente più basso, si tende, si libera, vola, come un airone. Senza quel movimento, senza migrazione, sarebbe un mondo duale con ricchi e vecchi da un lato e giovani e poveri dall’altro, con un potenziale di violenza considerevole dietro confini chiusi e “ignoranti”, inconsapevoli davvero dell’altro e quindi di sé stessi.
Come scrive Badie in Puissants ou solidaires, «Sarebbe anche un mondo senza relazioni, privato degli apporti esterni, demografici, economici e commerciali, politici e scientifici, culturali, etici; un mondo, dunque, destinato al declino. Sarebbe, soprattutto, un mondo insicuro». Penso che i gabbiani questo problema non se lo pongano. Ripensiamo a quello che abbiamo visto, all’esserci sentiti anche noi un po’ animali, un po’ uccelli che prendono il volo verso le cose a cui la gente vola. Anche la lingua migra, nel tempo: una volta tutto questo era Latino. Ci allontaniamo da Flow che più di averlo capito l’abbiamo sentito; un’ansia che c’avvolge d’un vento: movimento.
Nel flow, con il flow, per il flow
di Martina Vianovi
Ondeggiare. Lo spettacolo inizia così, fra le onde.
O forse in un prato: sono fili d’erba, i danzatori, fili d’erba di uno stesso prato, e nel vento ondeggiano, fili d’erba e sciame delicato. L’unità fa la forza ma anche la bellezza,penso.
Il primo gesto forte è una scossa, la prima nota che si stacca dal tappeto musicale uno scossone. Si alza di poco la luce, e la marea gentile si fa tempesta, uno stormo danzante. Qualche elemento si stacca per volare solo, ma subito torna al gruppo come attirato da elastici impercettibili, fili brillanti di tele di ragno. Dev’essere un modo di stare insieme, quello, soli. Un modo di stare soli, insieme.
C’è dell’oriente, qui. Ci sono caverne e suoni ancestrali, antichi e gutturali, archetipici. Poi il mio respiro salta un battito: c’è un soffitto lassù.
Un telo bianco cala, come un coperchio su una scatola di uccellini. Opprime e toglie l’ossigeno, sottrae vitalità, circostanzia. I movimenti diventano spinte e spasmi per lo spazio, ma anche in mancanza di questo: una resurrezione. Ognuno cerca il proprio perimetro e la lotta è solitaria, ma sembra una contorsione che trae linfa da se stessa: più insiste, più recupera vigore. Lo stormo si muove di nuovo all’unisono — ritrovate le forze, recuperato il legame — danza verso l’alto, spinge via il soffitto, punta a scoperchiare la scatola?
A un tratto, entra in scena il rosso (sarà alba, sarà tramonto?) e il sound si scopre più occidentale, quasi un west, mezzogiorno di fuoco nel bianco del telo che si abbassa sui danzatori — su uno solo di loro — mentre il movimento si trasforma e cambia registro, linguaggio, accenti. Tornano tutti gli uccellini, uno a uno, finché, d’improvviso, non realizzano: si guardano attorno, si osservano l’un l’altro, come si scoprissero solo in quell’istante — esistono. Sanno di loro, adesso. E sanno della scatola.
Inizia un’ultima danza. Nuova, e definitiva. Come una confidenza ritrovata col mondo, una prova di spazio, tribale ed elegante insieme, morbida e assertiva, giocata e sensuale. È un rintocco, ma anche scia.
Ecco comparire il giallo (era aurora, dunque), quasi azzurro ora, e in punta di piedi si riforma la coreografia dell’inizio: arricchita del percorso, della liberazione, del ritorno. E con lei, i suoni appena accennati, lontanissimi. Un’alba che è quasi sepolcro. Ma dolce.
Il soffitto della grande scatola scende a coprire la danza, la sposta a terra, la sospinge verso il riposo. La copre, conserva, e protegge. La disarma. Fino al buio, fino al silenzio.
È una domanda che non si cura della risposta — non è quella, che conta. Solo domandare, continuare a domandare. Scoperchiare, con delicatezza.
Come stare dentro il flow. Danzare nel flow. Con il flow, per il flow.
Il desiderio struggente di comunità. I detriti e le rovine di un mondo a pezzi. Un passato che diventa baluginio del futuro, giacché non coincide con il presente. Questi e molti altri sono i nodi generativi alla radice di The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, in residenza da 10 al 21 gennaio scorsi alla Lavanderia a Vapore. Il lavoro dà spazio, voce, forma e luce ai corpi, al loro disporsi, alle potenzialità di una comunità senza norma. Corpi nudi, abbandonati, vulnerabili. Che scrittura può diventare tutto ciò? A tentare di tradurre la visione in parola scritta sono statə alcunə dance-writers provenienti dall’Università di Torino e dalla Scuola Holden, parte della redazione itinerante del progetto We Speak Dance. Le giovani penne hanno avuto l’opportunità di assistere a una prova aperta della creazione la sera del 19 gennaio, presso il Centro di Residenza di Collegno.
Ho visto un documentario su un polpo. breve. degli anni sessanta. la voce parlava francese, capito poco, nulla direi. ma aveva un andamento terrorifico, da horror. sussultavo ad ogni attacco di frase. il polpo aveva la granulosità metallica della pellicola in technicolor. per via della voce narrante, e anche della sonorizzazione, sembrava un assassino. si muoveva, pericoloso, sui fondali, tentacolare. vischioso. ma del resto era un polpo, faceva il suo lavoro. chissà, se era sempre lo stesso polpo. me lo chiedo spesso, quando guardo i documentari. se il polpo di cui seguiamo le vicende, il leone acquattato, il coleottero melolontha siano sempre lo stesso polpo lo stesso leone lo stesso coleottero. o non siano individui diversi, ripresi in momenti e magari anche in luoghi diversi. sarei in grado di distinguerli l’uno dall’altro? e che cos’è, che sappiamo distinguere con certezza?
Note drammaturgiche
Alcune cose che ci interessano. I disturbi della memoria. Proprio le interferenze, i buchi. La solitudine, ma forse al plurale: le solitudini. Una serie di solitudini. Molto spazio vuoto attorno a un corpo. I battuage. Un’utopia dei corpi di cui non abbiamo esperienza. Forse potremmo cercare una zona comune, di indiscernibilità, e iniziare ad abitarla. O forse invece ciò che separa e distingue un disturbo, da una condizione, da una scopata. D.W. in un suo lavoro cuce insieme due pezzi di pane raffermo, con un filo rosso. Per rifare l’intero, impossibile. Per fermare la vita, dilazionare la morte. O forse potremmo buttare tutto alle ortiche. Sono fortunate le ortiche. Hanno tante idee scartare di cui nutrirsi.
di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Federico Morini, Ondina Quadri cura e produzione Elisa Bartolucci consulenza drammaturgica Antonia Ferrante e moltx amicx praticanti residenze artistiche e co-produzioni Mattatoio Roma, Festival Buffalo (Roma), Kampnagel (Hamburg), Vooruit (Ghent), MotusVague
Ripresentarsi ancora. Vi rincontro in 3000 caratteri e altri ancora…
di Michele Pecorino
È tutto lì, tutto in scena. Il gioco di sguardi, che arriva dai performer, inizia fulmineamente. Introdotto il primo piede in sala, si entra in una dimensione, o meglio dire all’interno di un’essenza comunitaria, dove quel limen, che separa la realtà dal sogno utopico, è continuamente in fuga. Quella soglia di confine si rincorre perdendosi e ritrovandosi a sbirciare se stessa. Non si è mai pienamente consci di quello che sta accadendo. Si è tutti sospesi su un filo di sguardi. Ci si abbandona alla ricerca di un momento di uscita da se stessi.
Le sedute, consistenti in pezzi di gommapiuma, poste su tre lati della scena, permettono una visione dal basso, alla pari con lo sguardo dei performer. I riflettori, su stativi mobili muniti di rotelle, si accendono. La scena si frammenta, le ombre iniziano ad insinuarsi tra le viscere della curiosità dello spettatore. Le prospettive di sguardo si moltiplicano. Tutti i corpi si stagliano, seminudi, davanti agli occhi dei presenti. Gli sguardi fanno inevitabilmente i conti con la memoria. Ad ogni battito delle palpebre, quell’attimo appena vissuto, svanisce. A restare è il ricordo, più o meno sbiadito, di un’impressione. Forse, a rimanere, è la sensazione di quell’incontro, così effimero quanto carnale. Le tracce nei corpi-spettatori rimbombano nel sentire un piacere estemporaneo. Nessuna sovrastruttura ingabbia ciò che accade.
Si è agli antipodi del normato, in una partitura che si dipana mediante l’incontro. Lo spettatore, perdendo ogni sovrastruttura culturale, si inerpica in sentieri, spazio-temporali, dove a giocare un ruolo fondamentale è l’incontro. Dai primi istanti si apre un mondo parallelo dove lasciarsi condurre, dall’allusione, in un racconto composto da movenze e sguardi intensi. Ciò che avviene non è soltanto in scena, ma riguarda tutta la stanza. Non si è più in un luogo, ma in uno spazio fatto di corpi, di oggetti. Il pubblico diviene parte indispensabile della performance. Mentre tutto intorno è distrutto, mentre crollano gli ultimi ingranaggi arrugginiti di una civiltà abbandonata, si costruisce una memoria del corpo, del piacere.
THE PRESENT IS NOT ENOUGH è un lavoro dove non c’è la parola, ma mai come in questo caso è estremamente emergente e traboccante dai corpi nudi. ogni presenza trasuda parola. Ad ogni passo, ad ogni cambio di scena, emerge il desiderio di costruire una comunità. La scena muta continuamente per mano dei danzatori-performer, le luci che un attimo prima illuminavano, adesso abbagliano. La visuale che prima era sgombera adesso è occultata. Si rende necessario così dover sbirciare, dover rincontrare quegli sguardi sconosciuti, capaci di prendersi cura di te che stai a guardare.
Ogni occhiata è capace di innescare differenti livelli di godimento fugace. L’intera performance è un incontro diretto che genera continuamente nuove forme di vita. Necessarie per poter accedere ad un mondo Altro. Ogni sguardo, un déjà vu. Un ricordo che si faglia nella ricerca di un attimo.
The present is not (always) enough
di Martina Vianoni
New York, anni ‘70. La comunità queer è solita ritrovarsi ai Piers e ai Docks, edifici derelitti e moli abbandonati, adagiati sulle rive dell’Hudson. Si prende il sole, si conversa — di vita, d’arte, del più e del meno — si scattano foto, qualche occhiolino, un sorriso, si scopa. Semplicemente si sta, per lo più nudi. Senza vestiti e senza giudizi.
The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo ci porta in questo battuage: T-shirt vintage, calzini di spugna a strisce colorate, sacchetti di plastica con dentro qualche indumento — quelli che non si hanno indosso: tutto il resto è pelle nuda. I proiettori in scena, il sole.
La nudità non è ostentata, solo esposta. Semplicemente sono, questi corpi, come sarebbero sulle rive dell’Hudson: prendono il sole dei proiettori, li spostano a illuminare ciò che rimarrebbe in penombra, si sdraiano, siedono, rotolano. Poi si guardano, ci guardano. E lo spettacolo si consuma qui, nell’apparente immobilità di questo accadere. Uno smottamento continuo camuffato da assenza di movimento, grande quiete in superficie, una stasi, ma sotterranei alla superficie organi in subbuglio, correnti di sguardi, casse toraciche in espansione e altre faccende più piccole — mignoli, unghie, ciglia. Fa presto un accenno, nella rarefazione, a trasformarsi in uno tsunami. Alla faccia dell’immobilità.
Lo spettacolo continua a gonfiare, accumulare, caricare, e sul finire scocca: dietro un muro di pannelli improvvisato si celebra un fuoco d’artificio, un amplesso di sobbalzi ripetuti, vicinissimi, instancabili, poco più che saltelli tecnicamente, ma la resa evocativa è cristallina, e potente. Quando entra in scena la regista, acquattata fino a quel momento nello spazio scenico riservato alla consolle del sound, ecco il climax – mi dico – fisiologico e inequivocabile, dello show.
Eppure il punctum si sposta altrove, del tutto inatteso: nel tirare su il muro, prima dell’apoteosi dionisiaca, hanno lasciato uno spazio. Una feritoia, per lasciarci sbirciare. E da quella feritoia, improvviso: un braccio. Disteso, abbandonato a terra. Punta nella nostra direzione. Il pubblico, che finora ha solo intravisto, senza davvero vedere, viene raggiunto. Come venisse chiamato, puntato. Una signora si alza e percorre un pezzo del ferro di cavallo che è dedicato alle sedute degli spettatori, si porta dove il suo sguardo può spaziare – oltre il muro. Deve osservare, deve svelare. D’altronde le è consentito, la scena è pensata perché ci si possa posizionare dove meglio si crede e anche, all’occorrenza, spostarsi. È qui che penso: senza feritoia, senza muro, non si sarebbe alzata questa donna, non avrebbe sentito la spinta animalesca partire dalla testa ed esondarle nel corpo, fino a spingerla a spostarsi, fisicamente, a trovare il punto esatto in cui abbeverare il proprio sguardo. È sempre una qualche feritoia, dunque, a invitarci a entrare? Com’è che alle porte spalancate ci affacciamo così poco, e con meno piacere? È l’entrata scomoda a chiamarci, l’accesso che richiede uno sforzo, un adattamento, una lotta? Ci portiamo dove l’istinto ci ammalia, purché richieda uno procedere sui gomiti come soldati in trincea. Altrimenti stiamo, semplicemente stiamo.
Da questa strettoia abbiamo intravisto il passato, oggi. Ma se tutta questa fluidità ci chiamasse a scivolare nel futuro? Un futuro che possa, finalmente, essere enough.
E allora chi si spinge in questo anfratto di domani? Sembra impervio, difficile, faticoso. Ma sai che fuochi d’artificio, dopo? Oh, che fuochi d’artificio, dopo.
Più vite, da un presente immobile
di Maria Rosaria Visone
19 gennaio 2023, ore 18:00. La città di Collegno è desolata, gelida. Eppure, a due passi dal silenzio, c’è modo di scaldare il cuore: basta oltrepassare le porte della Lavanderia a Vapore.
Proprio qui, dopo un periodo di residenza artistica, le due performer Silvia Calderoni e Ilenia Caleo hanno restituito a un pubblico ristretto un ulteriore studio di “THE PRESENT IS NOT ENOUGH”, svolto in sinergia con i/le performer Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Federico Morini e Ondina Quadri.
L’universo del lavoro si presenta sin da subito libero da regole e strutture formali: qui c’è da spogliarsi dell’ordinario, togliersi le scarpe e sedersi a un passo dalla scena (magari a gambe incrociate), consapevoli che – mai come in questo caso – la scelta del posto a sedere non sarà banale: il mondo urbano, quasi onirico e inafferrabile di Calderoni e Caleo si riempie infatti di più significati, a seconda dei molteplici punti di vista del pubblico.
Quello dipinto dalle due artiste è un passato nostalgico, dove la percezione del binomio tempo-vita si altera, a tratti si annulla. Ci si affaccia a un microcosmo dimenticato, lontano dal quotidiano e dal sentire comune ma che è nostro, ci appartiene. Perché – senza negarlo – siamo carne viva, avvolta insieme da mistero e fascino, tra le strade condannata spesso a occhiate critiche sconosciute. Eppure, carne che costruisce un corpo, teatro e dimora del nostro vissuto, del nostro presente: perché allora non provare a cullarlo, abbracciarlo, apprezzarlo, quel corpo? Una domanda di apertura, un’esortazione che Federico Morini porta ai nostri occhi in tutta la sua forza scenica: con un fare e un esplorare da bambino, si porta alle labbra l’alluce, assaporandolo più volte delicatamente. Uno scenario morbido e soave, spezzato inaspettatamente da Giacomo AG che irrompe di schiena a gattoni verso il pubblico, quasi abbattendo una parete invisibile: nel suo sguardo già scorrono le immagini afrodisiache che si dispiegheranno sulla scena nei minuti immediatamente successivi.
Così, alla luce fioca e al silenzio subentrano un buio pesto, una musica che richiama il punk rock degli anni ’70: quando le luci si riaccendono siamo sui piers del fiume Hudson, a pochi passi dal traffico cittadino newyorkese, nei luoghi urbani dimenticati e abbandonati di Stanley Stellar, dove l’edonismo governa la luce del giorno. Un Eden nascosto di corpi in attesa di appagare i sensi. Corpi vivi, corpi pieni: di fantasie, incastri, desideri. Dalla scena, occhi vispi e vigili sussurrano, chiamano, si mescolano agli occhi del “mondo di fuori”, offrendo esperienze erotiche individuali. È un incrocio intimo, segreto, un momento di scambio tra chi si osserva. Gli sguardi e i corpi dei/delle performer sono aperti, pronti a raccontare, a domandare ma a non approfondire troppo: il pubblico deve ricordare che si tratta di visite occasionali, di flirt destinati a rimanere incompiuti. Variano le angolazioni, cambiano le strutture, mutano le postazioni e le posizioni, ma la linfa iniziale resta. Appena dietro gli occhi, sulla pelle, nel petto.
Si aprono e si chiudono ambienti, confini dotati di fessure e spaccature: di queste ultime, una farà la differenza. È la crepa del muro di pietra. Al di là, un movimento corale nuovo, più intenso, irrequieto e incontrollato prende vita. È un tumulto che cresce gradualmente, fino a far cadere a pezzi l’enorme barriera e a propagarsi in altri luoghi, altre menti, altri sguardi.
E nel mondo reale?
Sentito mai di movimenti umani capaci di abbattere intere “sovrastrutture”?
Probabilmente in passato. Adesso è il presente.
Cosa è cambiato da allora?
Se questa domanda ancora ci disorienta, forse è proprio così: il presente non è abbastanza.
Pagina di diario del 19 gennaio 2023
di Federica Siani
Dopo un viaggio un po’ trafficato, arrivo in Lavanderia una quindicina di minuti prima delle diciotto.
Dopo qualche chiacchiera con persone amiche realizzo di non essermi documentata -o voluta documentare (?)- neanche su questa performance.
Ci avviamo in stireria. (Sono qui per assistere ad una prova aperta di “Present is not enough” di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo).
Entriamo nella prima stanza, accolti dalle due coreografe, insieme con una serie di foto e libri e diapositive che in un primo momento non ci vengono presentati, ma viene spesa solo qualche parola di presentazione sul progetto.
Si entra nella seconda stanza, luogo della performance.
Mi siedo sul cuscinetto-che ammetto di aver trovato un po’ troppo duro, ma da cui comunque non mi sono schiodata per l’intera durata: un’ora-.
Veniamo accolti da un primo attante che, vestito di una sola maglietta, esplora con la bocca il pollice del suo piede.
-al momento non sappiamo il numero di performer/perfomesse che abiteranno lo spazio-.
Entra Ilenia e abita la sua zona-rifugio: la regia. Si occuperà lei della musica, del suono e parte delle luci -solo una parte perché sono gli altri abitanti a modificare in scena la posizione e i colori degli illuminatori-.
A poco a poco lo spazio performativo viene abitato fino ad essere sette gli esseri umani che vivono, modificano e creano questo luogo. E per farlo, hanno a disposizione il loro corpo, lo spazio di cui mutano costantemente le geografie e un sacchetto di plastica ciascuno, come deposito-bagaglio dei propri indumenti.
La performance termina in un picco emotivo. In sala tra i pochi presenti invitati percepisco una piccola esitazione prima dell’applauso. – io ho fatto fatica a rompere la relazione creata insieme con loro e con lo spazio e con gli oggetti presenti-.
Abbandono la Lavanderia, carica di emozioni e un po’ senza parole.
Nella serata di giovedì ho partecipato ad un evento forte.
Ho attraversato paesaggi di cui non vedevo l’esistenza.
Ho sentito sguardi presenti su di me e a cui ho cercato di rispondere sinceramente.
Ho sentito un po’ di fastidio, subito, ma poi di fascinazione e poi di dolore.
Sguardo;
Corpo;
Nudità;
Essere umano;
Verità nascosta e rivelata;
Forza.
Questo evento performativo mi ha condotto verso nuovi mondi, utopici forse perché troppo reali.
Di solito, uso i viaggi in macchina in solitaria per riflettere sulla vita, su di un evento o su ciò che mi passa per la mente.
Quel viaggio in macchina è stato anch’esso silente.
Dopo quasi una settimana e dopo essermi documentata -direi abbastanza- sul progetto, eccomi qui a cercare delle parole per “Present is not enough”. Scritte tutte di un fiato.
E dalla pancia.
Una pagina di diario e di sensazioni del 19 gennaio 2023.
Come si può rinominare la parola “fragilità”? Forse attraverso le parole delicatezza, sensibilità? Come e attraverso quali pratiche possiamo proteggerle e prendercene cura? Come possiamo, quindi, risignificare la relazione con la fragilità e il modo di percepirla attraverso un rito, che ci aiuti a sostenere la sottile linea di senso, tra visibile e invisibile?
Il progetto DanzArTe è giunto, tra il 9 e il 22 dicembre scorsi, alla sua tappa conclusiva: una residenza artistica, nel corso della quale le coreografe Francesca Cola e Debora Giordi – accompagnate dalle tutor Ana Cristina Vargas (antropologa culturale) e Laura Marcolini (designer, artista visiva e scultrice) – hanno dato avvio a un nuovo tempo di indagine, attraversando e sviluppando i temi emersi durante le prime fasi del percorso, integrati morbidamente nel processo creativo.
Residenza DanzArTe di e con Francesca Cola e Debora Giordi | coreografe con la consulenza scientifica di Ana Cristina Vargas | antropologa culturale e Laura Marcolini | designer, artista visiva, scultrice nell’ambito del progetto DanzArTe DIBRIS – Università di Genova, attraverso Casa Paganini – InfoMus e in collaborazione con DIRAAS, è capofila del progetto DanzArTe in partenariato con il Dipartimento Cure Geriatriche, Ortogeriatria e Riabilitazione | E.O. Ospedali Galliera di Genova, la Lavanderia a Vapore di Collegno (TO), la Residenza per anziani Cardinal Minoretti e il Museo Diocesano di Genova collaborano al progetto DanzArTe: AMEI (Associazione Musei Ecclesiastici Italiana), Fondazione Piemonte dal Vivo, Goethe Institut Genua – Turin e SIGOT (Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio). Il progetto DanzArTe è voluto e sostenuto da Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito di WellImpact This project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 824160