Materiali di lavoro: i bollettini di Dance Well

Materiali di lavoro: i bollettini di Dance Well

Un disegno che si crea facendolo in cui si riversano le immagini degli eventi vissuti, di cui non se ne ha ancora l’idea definitiva, un aiuto per elaborare e metabolizzare il vissuto, per ricrearlo e liberarlo.

G. Giovine Proietti, in S. Bevilacqua, P. Casarin (a cura di), Propositi di filosofia, vol 1: “Philosophy for children/Community e pratiche di filosofia”, Mimesis, Milano-Udine 2021, pp. 207-216.

I “bollettini” di Dance Well sono una scrittura in cui gesto calligrafico e fotografico coesistono. Una testimonianza, in forma di taccuino, del tempo trascorso insieme agli altri corpi; un tempo a sua volta nutrito da una molteplicità di contributi di pensiero – immaginati e condivisi – e dei corpi pensanti, che danzano e dialogano. Una traccia, insomma, della pratica filosofica e di movimento che segue l’esperienza artistica delle classi settimanali di danza contemporanea. Una stratificazione di linguaggi visivi e verbali, che si offre a possibili ri-attraversamenti da parte del singolo e della comunità, all’interno degli incontri organizzati dalla Lavanderia a Vapore di Collegno.


Gaia Giovine Proietti

Danza e digitale: quali possibili contaminazioni?

Danza e digitale: quali possibili contaminazioni?


Che legame può esistere tra danza e digitale, inteso non soltanto come strumento, ma anche quale nuovo spazio di creazione, da indagare e abitare?

Ne hanno parlato lo scorso 10 febbraio all’interno di un webinar realizzato per la Library di Digital Hangar, nel quadro del progetto onLive di Piemonte dal Vivo: Lucia De Rienzo di COORPI, curatrice del progetto re-FLOW, esperienza partecipativa in realtà virtuale; Stefano Sburlati, Francesca Cinalli e Paolo De Santis, impegnati in Hydrocosmos; Elisa Cau e Davide Porta del progetto FASE XL, residenza organizzata da La Mama International/C.U.R.A.; e Chiara Organtini, nuova project manager di Lavanderia a Vapore. 

L’incontro – in live streaming dalla Casa della Danza di Collegno – è stato moderato dal Professor Antonio Pizzo, docente di Drammaturgia della Performance Intermediale presso l’Università di Torino. Lo studioso ha aiutato a inquadrare lo stato dell’arte sull’argomento, presentando alcuni virtuosi esempi di commistione tra danza e digitale. 

La danza incontra la realtà virtuale: tre voci per Hydrocosmos

La danza incontra la realtà virtuale: tre voci per Hydrocosmos

Hydrocosmos è un’esperienza di realtà virtuale che racconta l’arrivo dell’acqua e l’emergere della vita cosciente in un angolo remoto dell’universo. Una narrazione astratta, presentata attraverso una sinfonia di corpi danzanti, immagini, suoni, luci e ombre. Il film in VR – diretto da Milad Tangshir e prodotto da Tecnologia Filosofica, in co-produzione con Coorpi e in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo – è parte del progetto onLive, cartellone diffuso sul territorio regionale, tra teatro e digitale. Se è vero – come afferma Simone Arcagni (docente presso l’Università di Palermo) – che «la tecnologia non sostituisce la performance dal vivo, bensì la potenzia», onLive mira proprio a questo: ibridare i linguaggi espressivi per sondare possibili traiettorie di sviluppo delle performing arts. Hydrocosmos è visibile al Museo Nazionale del Cinema di Torino, negli orari di apertura, dal 16 al 21 febbraio.


Ho avuto la fortuna di conoscere Francesca e Paolo grazie a una collaborazione tra Piemonte dal Vivo e Film Commission Torino Piemonte. La realtà virtuale rappresenta per me un’opportunità preziosa di sperimentare – grazie alle immagini in movimento – un territorio al di là del mezzo cinematografico. Mi offre cioè la possibilità di interrogarmi e di confrontarmi con il linguaggio visivo di un nuovo medium. Nello specifico di Hydrocosmos, ho usato la VR come campo di fusione fra corpo e immagine. L’atto del guardare mi affascina da sempre. E, in effetti, è una pista che percorro già da diversi anni (si pensi al mio precedente lavoro in virtual reality). Qui ho cercato di approfondire la relazione con la performance dal vivo, in maniera interattiva. La coreografia di Francesca e l’uso dello spazio invitano infatti lo spettatore a prendere parte attiva alla creazione, che si svolge entro la cornice del film, senza alcun taglio di montaggio. Questo flusso crono-topico ininterrotto permette a ciascuno di comporre la propria versione della performance, in una sorta di “coreografia dello sguardo”. Il paesaggio sonoro elaborato da Paolo, poi, intensifica l’esperienza, fornendole un’atmosfera ipnotica e aggiungendo dati acustici alla narrazione. Abbiamo prodotto questo progetto in un momento complesso, per cui vorrei ringraziare tutto il team di lavoro: in particolare, Stefano Sburlati, Aldo Torta, Giuseppe Saccotelli e lo staff di Piemonte dal Vivo e di Lavanderia a Vapore, che ci hanno accolti e supportati durante l’intero processo creativo

Milad Tangshir, regista cinematografico


A muovermi – e commuovermi – sin dall’inizio sono state la visione comune condivisa con Milad, la scommessa lanciata da Matteo Negrin e, ancora, la complicità creativa fin da subito instauratasi con una squadra che ha dato vita a un’intensa esperienza immersiva, tra cinema e performance. Nel dialogo costante tra danza e spazio visivo ho percepito la forza digitale del cinema: in Hydrocosmos lo sguardo, l’occhio, la vista, si incontrano, si toccano, proprio come accade nell’atto performativo. Grazie a Milad abbiamo come avvertito di essere toccati, in un certo senso “chiamati”, dallo sguardo della macchina da presa, fissa al centro dello spazio scenico, con i suoi 6 occhi disposti a 360°. Una presenza forte, che ha orientato il nostro sguardo, attivando una molteplicità di sensi: una costante messa a fuoco del problema della visione dello spettatore, che ascolta, riceve, cerca, vaga, si lascia portare. Ho lavorato a un piano coreografico spaziando tra adiacenze e prossimità, con l’intento di traghettare il fruitore tra correnti calde e fredde, in un arcipelago di atti performativi: l’apparire e il celare dei corpi e degli oggetti, la simultaneità delle azioni, i giochi di luci e di ombre come parti di una scrittura visiva e sonora in costante, cosmica, oscillazione, in un movimento di trasformazione dello spazio e del tempo. La sensazione che mi porto dentro – e che spero possa toccare lo spettatore – è quella di un viaggio onirico, realizzato senza la necessità di narrare una storia, se non quella che ci avvolge tutti quanti quando veniamo guidati dalle stelle.

Francesca Cinalli, coreografa e danzatrice / Tecnologia Filosofica


Era dicembre del 2019. Francesca ed io ci trovavamo ancora nel flusso creativo del nostro ultimo lavoro dedicato all’acqua, Sinfonia H2O, quando Piemonte dal vivo ci ha proposto di immaginare gli sviluppi di un possibile intreccio tra danza e cinema. Dopo aver sbirciato nell’archivio della Film Commission ci colpì un titolo, Star Stuff di Milad Tangshir: decidemmo così di andare a vedere il suo lavoro al Torino Film Festival. Da quel momento è iniziata un’avventura stimolante che si è dovuta confrontare con le complessità mutevoli del periodo pandemico. Non conoscevamo la VR: quando Milad ce ne ha parlato, ci è sembrato un medium intrigante perché rispondeva al nostro desiderio di ricerca sul confine dei linguaggi e all’esigenza di creare le condizioni ottimali per un’esperienza immersiva. Lavorando in sala, ci siamo subito resi conto che immagine, corpo e suono, attraverso la loro spazializzazione, potevano esaltare le qualità “live” della performance, restituendole in un nuovo e ulteriore canale linguistico. Dal mio punto di vista, il percorso è stato una scoperta continua: non potevo chiedere di meglio… Amo ricercare come se fosse la prima volta: oltre a immergermi in qualità di performer-musicista sul set allestito alla Lavanderia a Vapore, ho scoperto il mondo della post-produzione sonora, che considero il 50% del risultato finale. Che cosa mi ha più sorpreso? Il fatto che sia il lavoro artigianale analogico a fare la differenza nel sound-design. Anche in un’opera in VR.

Paolo De Santis, musicista e compositore / Tecnologia Filosofica

Paesaggi sonori e field recording in DanzArTe. Due testimonianze

Paesaggi sonori e field recording in DanzArTe. Due testimonianze

DanzArTe pone l’accento non solo sulla sonificazione dei movimenti dei partecipanti, ma anche sullo sfondo acustico che fa loro da cornice, da “ambiente”. A questo fulcro di interesse se ne collega direttamente un altro, il cosiddetto field recording: la pratica, ai più nota come fonografia, allude a qualsiasi registrazione prodotta al di fuori di uno studio e più precisamente in natura. Ad approfondire questi nuclei tematici – in relazione a DanzArTe – sono Andrea Cera, sound designer, e Andrea Greco, musicoterapeuta e laureando magistrale in Digital Humanities all’Università di Genova, entrambi coinvolti nel progetto.

Il dialogo con Andrea Cera permette di chiarire il modo in cui siano stati realizzati i vari sfondi sonori.

Ci sono tre motivi che ci hanno spinti a creare degli sfondi sonori. In primo luogo, le sonificazioni dei movimenti hanno bisogno di una scena sonora controllata su cui stagliarsi. Essendo suoni esili, a bassa intrusività, dall’andamento imprevedibile (giacché legati al comportamento delle persone che partecipano all’esperienza), hanno bisogno di appoggiarsi su un piano sonoro stabile. In secondo luogo, tali sfondi servono per delimitare l’esperienza di DanzArTe rispetto al tempo e allo spazio della quotidianità, creando un’atmosfera diversa – ma non straniante – rispetto a quella che caratterizza l’ambiente sonoro di tutti i giorni. È come se ci fosse una finestra socchiusa da cui penetra il suono di un giardino. In ultima istanza, gli sfondi sonori aiutano a suggerire uno stato emozionale positivo e rilassato, mascherando possibili suoni irritanti provenienti dal panorama urbano circostante.

Ricerche nel quadro della psicoacustica e dell’environmental design hanno evidenziato (un esempio in [1]) come i suoni di natura siano particolarmente adatti a tali scopi, avendo la capacità di ricreare la salienza di situazioni piacevoli senza dover competere in potenza con suoni disturbanti anche ad alto volume. Quali suoni di natura selezionare per il progetto DanzArTe, in cui l’aspetto visuale riposa su opere di Luca Cambiaso, artista del XVI secolo?

Le opere utilizzate, scelte per la loro pertinenza ai movimenti impliciti e all’aspetto posturale delle figure rappresentate, non forniscono sufficienti informazioni ambientali per permettere un approccio vicino alla cosiddetta “archeologia del paesaggio sonoro” (una disciplina – quest’ultima – che mira a ricostruire il suono di epoche passate, a partire da rappresentazioni di vedute e paesaggi, come nel lavoro di Mylène Pardoën [2]). I quadri di Cambiaso suggeriscono invece un ambiente sonoro scarno, essenziale, sobrio. Abbiamo pertanto cominciato esplorando suoni di natura generici, provenienti da librerie sonore. Ma l’accostamento non funzionava, a causa dell’eccessiva differenza tra l’estetica misurata delle opere pittoriche e la rappresentatività esagerata, quasi caricaturale, da cartolina, dei suoni di natura presenti nelle collezioni commerciali (foreste amazzoniche, panorami caratterizzati da versi di animali esotici, scene iper-realistiche). Nella fase successiva abbiamo quindi cercato di de-contestualizzare questi suoni di natura, mirando a riprodurre l’ascolto immaginario, trasfigurato, che sembrava fissarsi nelle opere pittoriche selezionate. Eliminare la storia, eliminare le tracce dell’attività umana, creare una geografia sonora astratta. Siamo allora ripartiti, cercando i nostri materiali in zone di natura il cui suono odierno potrebbe somigliare a quello ascoltato a suo tempo – nel XVI secolo – dal Cambiaso. Zone della Liguria dove la civiltà moderna non si è ancora insediata, come la Riserva dell’Adelasia.

Note
[1] Cfr. Joo Young Hong, Zhen-Ting Ong, Bhan Lam, Kenneth Ooi, Woon-Seng Gan, Jian Kang, Jing Feng and Sze-Tiong Tan, Effects of Adding Natural Sounds to Urban Noises on the Perceived Loudness of Noise and Soundscape Quality, in «Science of The Total Environment», Volume 711, 2020.
[2] Si veda la pagina https://www.cnrs.fr/fr/personne/mylene-pardoen.

È ora il turno di Andrea Greco, pronto a raccontare alcune tappe della sua ricerca a caccia di suoni nelle vallate liguri. Un’indagine lontana dalle voci ipertrofiche della contemporaneità e attenta piuttosto a raccogliere i lievi sussurri di una natura ancora protetta dall’industrializzazione.

Questo progetto, che farà parte della mia tesi di laurea, mi ha dato la possibilità di cimentarmi per la prima volta con la pratica del field recording, un’occasione che mi ha insegnato a vedere la mia terra in modo diverso, anzi, a “sentirla”. Può sembrare un gioco di parole funzionale a creare magia, ma non lo è: solo sul campo, infatti, si comprendono le gioie e le difficoltà insite nella ricerca sonora dell’ambiente. Sono partito equipaggiato con ciò che avevo a disposizione: una macchina fotografica (Canon EOS 6D) e un microfono shotgun (Rode VideoMic pro) che già utilizzavo per la produzione di contenuti per i social media. Così ho perlustrato alcune zone naturali della mia città, Savona, da Vado Ligure a Varazze, toccando luoghi di rilievo come la pineta Bottini di Celle Ligure o il parco naturale dell’Adelasia con i suoi faggi monumentali. La Liguria, pur essendo una sottile striscia di terra, presenta una ricca biodiversità che permette di spostarsi tra paesaggi differenti in tempi relativamente brevi: al mattino sei sulla spiaggia ad ascoltare il mare e nel pomeriggio puoi percorrere sentieri boschivi immersi in una nebbia che dona al luogo l’atmosfera di un film fantastico vecchio stile. Ovviamente ci sono alcune difficoltà: in estate, per esempio, le registrazioni sono rese più difficoltose dal turismo; in inverno invece i disagi sono dettati dal calo delle temperature (per le registrazioni è richiesto infatti il massimo silenzio possibile: ciò significa restare immobili per diversi minuti alla mercé del freddo). Con il field recording l’ascolto diventa un esercizio attivo e si scoprono tutti quei dettagli che normalmente vengono dati per scontati. Pensi: “Dai, oggi si va in campagna… ne approfitto e faccio due riprese del vento. Facile e veloce”. Ma è capitato più di una volta di non trovare un filo d’aria – fenomeno raro per chi viva in riva al mare come me, dove il vento è praticamente una costante. In presenza del vento, viceversa, capitava che il materiale della registrazione fosse contaminato da voci umane in lontananza, oppure dal rombo delle moto e delle automobili di passaggio sui tornanti collinari. In un angolo verde nei pressi di Giusvalla, dove una cascatella artificiale crea un piccolo stagno, a tratti il verso delle cicale e lo scorrere dell’acqua venivano accompagnati dal rumore di elicotteri e aeroplani. Sembrava di essere capitati proprio sotto a una porzione di cielo dedicata alle rotte di volo. Ammetto di essere stato accompagnato dalla frustrazione nel mio percorso di ricerca sonora e ho imparato quanto il “fattore umano” sia onnipresente, nelle sue mille forme, anche in luoghi che si immaginano isolati. In città poi (per le riprese sonore delle onde marine) questo è un problema estremamente rilevante, che mi ha costretto spesso a mettermi all’opera in piena notte, in attesa che la città dormisse. Alcune delle registrazioni hanno quindi subìto un processo di taglio di brevi porzioni: quanto bastava per eliminare le intrusioni umane da quel mondo che si fa impronta sonora del paesaggio ligure. Un’impronta, quella naturale, che muta in un tempo lento, non compatibile con il nostro – frenetico – ma che, in virtù di ciò, collega trasversalmente le vite del presente e del passato. Allora diventa facile credere che la voce del mare o gli odierni pettegolezzi, portati di selva in selva dai quattro venti, non siano troppo dissimili da quelli che il Cambiaso poteva udire percorrendo i sentieri della sua Genova.