DanzArTe al Museo Diocesano: un’esperienza di art-therapy

DanzArTe al Museo Diocesano: un’esperienza di art-therapy

La partecipazione al progetto DanzArTe ha fornito al Museo Diocesano di Genova un’occasione unica per sperimentare, all’interno della collezione, un approccio di arte-terapia con cui valorizzare le potenzialità semantiche delle opere d’arte al di là dell’aspetto estetico e del loro contenuto storico-artistico, mettendo al centro dell’attenzione la percezione e l’interazione fisica del fruitore.

Ebbene, a spingere alla partecipazione a questo progetto sono stati da un lato l’interesse per gli studi che da anni vengono condotti in quest’ambito, dall’altro il desiderio di rinnovare e diversificare l’approccio che il pubblico del museo ha nei confronti delle opere d’arte.

Che il godimento provocato dalla visione un dipinto, l’ascolto di un brano musicale o il contatto con la bellezza di un paesaggio naturale donino benessere fisico e psichico non è certo una novità: poeti, artisti e scienziati lo hanno sempre affermato; mancava però l’evidenza scientifica, il dato misurabile, cui si è dato forma rappresentabile soltanto negli ultimi decenni. Le riflessioni sull’impatto terapeutico dell’arte hanno conosciuto, specie nel corso degli ultimi due anni, toccati pesantemente dalla pandemia, un netto incremento. Ciò è appunto avvenuto in un tempo in cui le istituzioni culturali in genere e i musei in particolare – costretti a una prolungata chiusura – hanno dovuto riflettere su come interagire al meglio con un pubblico che non poteva più accedere fisicamente a quegli spazi.

Dalle esperienze canadesi del Musee des Beaux Arts di Montreal – che ha inaugurato un vero e proprio servizio di art-therapy giacché lì la frequentazione del museo viene prescritta dai medici quale strumento per curare o alleviare talune patologie – fino al MOMA di New York, passando per esperienze britanniche, la valorizzazione del supporto che le arti offrono al raggiungimento del benessere fisico e psicologico è andata sempre più crescendo. La terapia che utilizza l’espressione artistica ha dischiuso così un ventaglio sempre più vasto di applicazione concrete, con risultati finalmente misurabili in termini di efficacia riabilitativa e di recupero della dimensione più profonda del vissuto: solo per citare alcuni esempi, la strutturazione di esperienze laboratoriali per risvegliare le risorse vitali e creative nei malati di Alzheimer o nelle persone affette da autismo; l’utilizzo di matite, pennelli e opere d’arte per combattere le angosce e gli stati dolorosi provocati dagli isolamenti dell’era pandemia; esperimenti per risolvere problemi di daltonismo. O ancora l’utilizzo del medium artistico per lasciar emergere quei piccoli traumi quotidiani di cui si fatica a parlare.

In questo senso – con tono brillante, umoristico e nel contempo profondo – il video What is Art for? del saggista svizzero Alain de Botton enumera ben cinque motivi per cui l’arte risulta importante nelle nostre vite, indipendentemente dalla conoscenza dei contenuti storico-artistici o dalla competenza interpretativa di ciascuno. A importare davvero è ciò che riceviamo dall’osservazione di un’opera d’arte, in termini di equilibrio personale e di risorse energetiche.

Gli esempi presentati fin qui interagivano con la dimensione psicologica dell’osservatore. Nel caso specifico di DanzArTe le opere pittoriche – concepite come se si trattasse della rappresentazione del fermo-immagine di un istante vitale – sono state prescelte per la loro capacità di istituire un’interazione fisica con il visitatore-paziente. Spetta poi a quest’ultimo, tramite l’utilizzo di un software dotato di sonificazione e di una proiezione dell’immagine stessa, il compito di replicare il movimento insito nel dipinto, per completarlo e portarlo alla sua naturale conclusione. Questa modalità di interazione è sfruttata anche nella didattica museale, al fine di valorizzare l’approccio corporeo all’opera rispetto al più tradizionale contatto visivo, favorendone contestualmente una diversa comprensione, creando tableaux vivants e servendosi della didattica del learning by doing, utile a comprendere il linguaggio dell’artista e a immedesimarsi nello spirito del quadro.

L’attività del Museo nell’ambito di DanzArTe si è articolata in due fasi: dapprima, la ricerca delle immagini più adatte; dopodiché, la realizzazione di test all’interno degli spazi museali, una fase – questa – di prossima attuazione. L’artista individuato grazie alla consulenza di Lauro Magnani – professore ordinario di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Genova – è stato Luca Cambiaso, pittore genovese del XVI secolo, selezionato per la sua particolare tecnica nel disegno preparatorio, fondato su un modello stereometrico (la cosiddetta “maniera cubica”) in cui la figura umana è delineata attraverso la successione di elementi cubici, fino ad arrivare alla definizione proporzionale delle parti. Si tratta di una modalità che è risultata assai utile nell’elaborazione del software.

Le immagini richieste dovevano comprendere figure a tutt’altezza, sia singole che articolate fra loro, secondo il modello della Sacra Conversazione o della Sacra Famiglia [1] (ossia più personaggi interagenti all’interno del medesimo dipinto, in reciproca relazione visiva o fisica). Era altresì necessario che le opere fossero collocate all’interno di una cornice museale o di una chiesa, luoghi cioè di fruizione pubblica. Ogni immagine pittorica è stata individuata in base alla qualità del movimento, cristallizzato in una particolare posizione ma tale da poter essere replicato, ri-vissuto e concluso. Al primo gruppo di opere appartengono i dipinti con San Gioacchino, Sant’Anna (entrambi nella Cattedrale di San Lorenzo di Genova) e il Battesimo di Gesù (Chiesa di Santa Chiara in San Martino d’Albaro di Genova), tutte e tre con iconografia coerente con le finalità richieste; nel secondo gruppo si annoverano invece il Riposo durante la fuga in Egitto (Museo dell’Accademia Ligustica di Genova) di cui si è isolato il gruppo della Madonna che mostra Gesù agli angeli, la Pentecoste e infine La Vergine e il Battista intercedono presso Cristo in gloria (Musei di Strada Nuova a Palazzo Bianco, Genova).

Ora, a seguito dell’elaborazione del movimento tramite software e della sua sonificazione, il Museo – insieme ad alcune RSA – ospiterà la succitata fase di test, coinvolgendo dapprima persone senza particolari deficit motori, validando con loro il programma e adattandolo per la successive sperimentazioni all’interno delle RSA. Ritengo però che al di là dei risvolti terapeutici il programma potrebbe costituire l’occasione, per chiunque, di intessere una relazione più coinvolgente con la rappresentazione artistica tramite l’immedesimazione psicologica e fisica, e restituendo in benessere reale quanto l’artista ha espresso tramite la propria interiorità.

Paola Martini, Direttrice Museo Diocesano di Genova

[1] Quest’ultima anche nella versione con la Madonna seduta che sorregge il Bambino.

Immagine in evidenza: Luca Cambiaso (Moneglia 1527-Escorial, 1587) – Sant’Anna (olio su tela, 1569 circa), presso Cattedrale di San Lorenzo, Genova

La violenza abita i corpi e diventa danza: la ricerca di Barbara Altissimo

La violenza abita i corpi e diventa danza: la ricerca di Barbara Altissimo

Prosegue fino a mercoledì 26 gennaio la residenza d’artista In-Violenza, un cammino di ricerca artistica sul tema della violenza, realizzato presso l’I.I.S. Primo Levi di Torino nell’ambito del progetto MEDIA DANCE della Lavanderia a Vapore. Il percorso si propone di affrontare, con ottica plurale e condivisa, la delicata questione, vedendo artisti, medici, pedagogisti e docenti uniti nel tentativo di elaborare insieme nuovi approcci didattici, grazie al linguaggio delle arti performative. Barbara Altissimo, titolare della residenza (curata con Doriana Crema, Fabio Castello e Francesca Cola, affiancati da Alessandro Tollari, docente di Lettere nelle scuole secondarie) ha scelto di rendere testimonianza, sotto forma di dialogo, della propria esperienza come artista, coreografa e regista.


Da dove nasce, all’interno del tuo percorso di ricerca, l’urgenza di esplorare un materiale così drammatico? E come quest’ultimo si è trasformato poi in forma artistica, anche grazie all’apporto delle comunità che hai incontrato nel tempo?

La violenza, purtroppo, è una materia che nella mia vita ho conosciuto e incontrato. Arriva dunque da lontano il desiderio di indagarla. L’occasione si è poi concretizzata anni più tardi, nel 2018, grazie a un progetto sulla violenza di genere che mi fu sottoposto dal Cottolengo di Torino, insieme al Ministero delle Pari Opportunità. VERSUS – questo il titolo – esplorava la violenza sulle donne da diversi punti di vista. A noi, ossia a me e a Liberamenteunico, venne richiesto di intervenire a livello di pratiche teatrali. Accettai, ma scelsi di lavorare raccogliendo una prospettiva inusuale, quella degli uomini-carnefici. È così si aprii la prima finestra di ricerca.

Uno spiraglio che ha lentamente dischiuso un universo di possibilità…

Sì, la prima tappa è stata appunto VERSUS, che concretamente permetteva di offrire a un gruppo di uomini due ore settimanali di educazione alle pratiche di palcoscenico. Lo spazio di formazione e creazione era aperto e libero, nessun limite prestabilito: chi voleva, poteva inserirsi ed eventualmente tornare. Non tutti lo fecero. Durante l’apprendimento, i partecipanti snocciolavano le proprie storie di violenza. Così è nato 3 km di freddo, una sorta di spin-off di VERSUS. Ci piaceva l’idea di poter organizzare una restituzione di quanto elaborato, condividendo con la cittadinanza – per via del suo alto valore civico – l’importanza di quei contenuti. La pandemia ovviamente ha impedito qualsiasi possibilità di spettacolo dal vivo: perciò abbiamo optato per la realizzazione di un documento video, un cortometraggio. Qui – e veniamo alla drammaturgia – le diegesi, i racconti di quegli uomini, emersi nel corso di oltre 2 anni di lavoro, sono stati raggruppati, condensati e montati, diventando parole. Anche le immagini evocate sono raccolte dal medesimo bacino: alcune prodotte da noi, altre regalate da loro.

3 km di freddo viene presentato pubblicamente il 25 novembre 2021, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, nel quadro dell’iniziativa interistituzionale IN MY NAME. A fungere da apripista è stato, esattamente un anno prima, Rebel/Verso la luce. Me ne parli?

Volentieri. Il corto è stato ultimato nella primavera del 2021 e proiettato poi al Polo del ‘900 a novembre. Alla stagione precedente risale invece Rebel, altra tappa fondamentale del mio percorso di ricerca attorno alla violenza. Era l’esito di una residenza mensile all’I.I.S. Galileo Ferraris di Settimo Torinese. In quel frangente avevo lavorato con una classe proprio sulla tematica di genere: fu esperimento incredibile – direi, pressoché pionieristico – perché creammo una performance pur essendo stati perennemente online, senza esserci mai visti o toccati. I contenuti emersi durante quel passaggio sono poi stati integrati nella “sceneggiatura” di 3 km di freddo: penso per esempio alla sequenza dei petali di rosa, lanciati in area e riportati poi a terra con un particolare effetto. Quell’immagine, solo per citarne una, arriva proprio da Rebel. Era stata un ragazzo a evocarla, a donarcela.

Gli studenti hanno dunque nutrito la tua creazione.

Assolutamente. In quel caso insistetti molto sul tentativo di recuperare il movimento della violenza, i suoi suoni. Chiesi cioè alla classe di meditare, di far penetrare il termine violenza all’interno del proprio corpo. E questa parola li ha abitati, producendo azioni differenti in ciascuno. Questi movimenti li abbiamo poi assemblati e sono diventati una danza. Davvero, quindi, la violenza è stata abitata dai corpi e danzata. In effetti le arti performative possiedono un grande vantaggio: permettono di raccontare, esperire, vivere temi urgenti, sia pur ponendosi – in un certo senso – in terza persona, prendendone le distanze. È un dato, questo, estremamente importante: innanzitutto perché, sia che la violenza sia stata vissuta, sia che al contrario sia stata praticata, il teatro permette di immaginare un altrove, ossia di verificare l’idea che non siamo soltanto quello ma anche molto altro. Una simile concezione amplia gli orizzonti, offre possibilità. Troppo spesso, infatti, vittima e carnefice si identificano unicamente nel proprio ruolo: e ciò annulla l’eventualità di essere altro, altri.

È il potere antico della catarsi: purgarsi senza vivere direttamente pulsioni viscerali e distruttive.

Il senso è esattamente questo: premetto che da sempre la mia poetica e il mio linguaggio traggono linfa dal “materiale umano”. Da quando cioè ho iniziato a immergermi nel mondo della creazione, ho sempre attinto copiosamente alla narrazione umana che scaturiva dai corpi e dalle parole di chi mi circondava. Un magma che io poi, in qualche modo, rimaneggio, setaccio e infine combino, impasto. Io lavoro spesso con gli altri: sento che il mio compito sia costruire situazioni che rendano le persone disponibili a “far uscire”, emergere, le proprie verità. Dopodiché non faccio altro che sistemare, collocare all’interno di una cornice. Non sono però – altra premessa fondamentale – una terapeuta, bensì un’artista, sia pur fermamente convinta del valore terapeutico che l’arte, nella sua essenza, possiede. Non serve altro. Il teatro, così come la pittura, permette il riaffiorare di una memoria, di un vissuto spesso congelato, di cui però il corpo reca traccia. L’arte si configura pertanto come un terreno di possibilità, in cui si lascia libera di fluire una sensazione, una percezione, un ricordo. E questo dischiude universi, mondi possibili. Quando tu “giochi” (to play, ossia “reciti”) dei ruoli, sei ciò che interpreti ma anche molto altro.

Veniamo così a In-Violenza, un cammino di ricerca cominciato qualche giorno fa al Primo Levi di Torino…

Il tema della violenza è altamente complesso e trasversale. Come dicevo, io ho sperimentato solo una delle sue varie declinazioni, forse la più “rumorosa”. Ma la violenza si cela ovunque. Spesso non si vede, non fa rumore. Quindi la mia ricerca, con VERSUS, non era che appena agli inizi. Il desiderio – realizzato grazie alla Lavanderia a Vapore – era tentare di allargare questo spettro. Ho potuto così spostare il riflettore su una dimensione più vasta. In realtà, è già la modalità stessa con cui stiamo affrontando la residenza a denunciare una certa “violenza”, una costrizione – seppur inevitabile – sui corpi: pensiamo al modo di recitare, cantare e danzare, con i corpi costretti dalle mascherine. È necessario, ma rivelatore. A livello concreto, stiamo cercando di lavorare su materiali coreografici emersi da parte degli studenti: anche nel caso di In-Violenza la proposta è stata far abitare i corpi da questo tema, annotando movimenti che possano tramutarsi in partitura. In parallelo, stiamo agendo su frammenti teatrali, sempre composti dai ragazzi, riuniti per l’occasione in coppia o in trii o anche da soli.

Che cosa mi porto dietro di questi primi giorni di residenza? Beh, innanzitutto l’amara consapevolezza che la violenza sia un tema assai vicino alle loro vite. I movimenti che producono e le tracce di teatro composte denunciano una conoscenza assai approfondita del tema. In seconda istanza, ho avuto modo di riflettere su quanto la violenza possa essere quotidiana perfino nella scuola, nascondendosi in mille rivoli e interstizi. Gioca poi un ruolo fondamentale la violenza “assistita”, parimente depositata nei corpi ancorché non dichiarata. Una narrazione resta iscritta nel corpo. Se c’è qualcosa che ho imparato in questi anni di ricerca è che la violenza non accade mai per caso o all’improvviso. La storia dei reati commessi degli uomini incontrati ai tempi di VERSUS è strettamente collegata con la memoria di un particolare vissuto subito. Non è una giustificazione certo, ma dischiude possibilità di comprensione, di conoscenza. Ed è qui che dovrebbero intervenire le autorità: nel tempo che precede, nel prima.

Per concludere, una tua battuta sul processo di ricerca “plurale” di In-Violenza. Hai infatti accolto dalla Lavanderia a Vapore l’opportunità di sviluppare questa residenza in una dimensione corale, condivisa con altri artisti. Qual è il valore aggiunto?

In primis credo che il nostro sia proprio il tempo della pluralità. Questa residenza è condotta in maniera plurale perché è la Lavanderia stessa ad averci tutti avvicinati a un simile approccio. Ed è un fatto grandioso. Il TRA, Tavolo della Ricerca Artistica, ormai da anni ci permette di condividere saperi, pratiche. Mi preme sottolinearlo perché è davvero un’anomalia nel panorama nazionale. In-Violenza è dunque frutto di questa tendenza a incoraggiare la conoscenza e la relazione reciproca. Il TRA, insomma, è il diretto precedente dell’esperienza al Primo Levi. Da parte mia, io ho raccontato la ricerca che sto portando avanti e i contenuti su cui avrei avuto interesse a focalizzarmi. Doriana, Fabio e Francesca si sono così messi a servizio. Vedremo come evolverà il tutto: è interessante perché i materiali su cui ho cominciato a lavorare io adesso vengono trasferiti, a mo’ di staffetta, nelle loro mani, a turno, affinché possano (ri)plasmarli a partire dalle proprie competenze e dai rispettivi approcci di ricerca.

Intervista a Barbara Altissimo (direttrice artistica di LiberamenteUnico e membro del TRA) a cura di Matteo Tamborrino

Gli artisti della rete sharing training alla ricerca di uno spazio permanente

Gli artisti della rete sharing training alla ricerca di uno spazio permanente


Martedì 14 e mercoledì 15 dicembre, alla Lavanderia a Vapore di Collegno, un incontro nazionale della rete SHARING IT, che riunisce i vari progetti di sharing training attivi in Italia: un movimento nato dal basso – diffuso sull’intero territorio del Paese – per rispondere all’esigenza della formazione continua di danzatrici e danzatori. Un appuntamento in presenza, desiderato e atteso da tempo, che ha alternato spazi di dibattito a momenti di pratica condivisa. Un video-racconto con le testimonianze dei partecipanti.

Lo spazio della relazione come spazio del possibile

Lo spazio della relazione come spazio del possibile

Dal 19 al 25 Ottobre 2021, io e Patricia Carolin Mai abbiamo condiviso il percorso di residenza The space of relationship, all’interno degli spazi della Lavanderia a Vapore di Collegno, nell’ambito di una sperimentazione dell’area Innovazione e Ricerca. L’idea e lo sviluppo di questa residenza si sono articolati intorno al desiderio di attraversare un percorso dedicato allo spazio della relazione come spazio del possibile’. Questo incontro, infatti, nasce dalla curiosità di investigare – a partire dal proprio territorio di ricerca che in entrambi i casi mette al centro l’interesse verso la collettività – nuove possibili pratiche per esplorare lo spazio della relazione e domandarsi quali linguaggi possono nascere dall’esperienza consapevole della reciprocità, a sostegno di una relazione empatica.

In questo spazio-tempo attraversato insieme, il desiderio è stato quello di costruire un luogo temporaneo in continuo divenire in cui esplorare un processo di ricerca allargato alla cittadinanza, attraverso cui condividere e sperimentare insieme nuove pratiche rivolte al corpo come luogo di mediazione sociale, consapevoli di essere immersi tra le informazioni che ricadono costantemente nell’ambiente. Si è posto dunque uno sguardo sul corpo come sorgente di pensiero che, però, nello stesso tempo riconosce ogni volta l’origine di ciò che lo anima e lo rende vivo, nello spazio in cui navigano i corpi tutti insieme. Le vibrazioni, le temperature emotive, gli sguardi, i gesti, i suoni, attraversano il corpo e lo modificano per sempre. 

Le pratiche proposte all’interno della residenza, si sono articolate intorno alla domanda “Che cos’è la reciprocità?” Questa domanda è stata posta a tutte le persone che, invitate ad abitare il tempo di una ricerca che necessitava della loro presenza, hanno attraversato lo spazio insieme a noi e ci hanno consegnato molte risposte, nutrendo e rielaborando lo spazio condiviso. La reciprocità ci appare, in questa esperienza, come un tempo e uno spazio che doniamo all’altrə  e che nello stesso tempo doniamo a noi stessə; come una stessa vibrazione che attraversa più corpi; un’area percepibile di ascolto profondo che nasce dalla rinuncia dei corpi ad affermarsi per offrirsi; il riconoscersi; il rischio a esporsi vulnerabili accettato da tutte le parti coinvolte; danzare-cantare-agire insieme. Una organo astratto, vivo ed invisibile, che ci include, ci genera, ci informa di chi siamo, di cosa ascoltiamo e di come pensiamo, creato dalle tensioni che insieme produciamo nello spazio che co-abitiamo.

I primi tre giorni di residenza li abbiamo dedicati a lunghe conversazioni e scritture, confronti su pratiche personali da scambiarsi e rielaborare, cercando e trascrivendo parole chiave che ci hanno aiutato a definire delle aree precise da condividere con le persone ospiti nei giorni successivi. Per fare questo abbiamo utilizzato un’ampia distesa di carta messa a terra nella sala grande della Stireria, la stanza della Lavanderia a Vapore che ha ospitato la residenza. Questo ci ha permesso di mettere al centro della condivisione la nuda ricerca in una dimensione di reciprocità: ogni domanda, ogni elemento utile, ogni pensiero o suggerimento, poteva essere infatti trascritto su questo foglio collettivo, per consegnare il proprio contributo alla collettività.

Per noi è stato prioritario scegliere di condividere non unicamente proposte di pratiche preattraversate e consolidate ma, sopratutto, idee e domande intorno a cui poter lavorare con i vari gruppi, nel tentativo di co-creare, affinare e proiettare in avanti nuove pratiche di lavoro sul concetto di Togetherness.

Negli ultimi tre giorni di lavoro abbiamo ospitato in sala, in gruppi, cinquantasei persone provenienti da tre scuole di danza della provincia (Ginger Company, +Sport8, Centro Studi Denise Zucca), il gruppo Dance Well di Torino, il TRA composto da artistə, operatori e operatrici della cultura torinesi, un gruppo di donne migranti dal percorso Collant ideato da Tampep Onlus in collaborazione con Edu-formazione della Fondazione Merz.

Con tutte queste persone abbiamo condiviso le stesse pratiche che, incontro dopo incontro, si sono evolute, avviando un processo di trasmissione comunitario e evocando la possibilità di custodire e di prendersi cura del dono ricevuto, trasformato e offerto nuovamente a chi fosse passato di li successivamente. Le pratiche utilizzate hanno interessato la possibilità di esperire un training per la cura del corpo; la possibilità di comporre insieme nello spazio a partire da immagini del nostro repertorio; l’invito a elaborare insieme la creazione di forme e sculture in una situazione di leadership paritaria, utilizzando della carta come materia da manipolare. Sono pratiche di ascolto, a supporto dell’esperienza sensoriale ed intuitiva di ciascuna persona coinvolta, per allenare il senso di insieme nel costruire una danza collettiva istantanea e per fortificare la fiducia nel condurre e, nello stesso istante, nel lasciarsi condurre.

Daniele Ninarello

The process of creativity starts as soon as people come, communicate and move together in a reciprocal space. The residency at Lavanderia a Vapore offered a unique infrastructure and opportunity to explore working cross national between Germany and Italy with amateur-dancers/non-professionals of all ages and with diverse backgrounds and biographies in a professional setting of contemporary dance. Only the great support of Lavanderia a Vapore and their sensible and welcoming invitation to the participating groups made this research possible and fruitful. Working cross national with Daniele Ninarello was influencing and expanding my creative processes to a different level and offered to meet a huge amount of people under an intense and durational condition. I found out as a dancer and choreographer, that I strive to connect human bodies to the beauty of group-processes and to find out about dance, movement, breath and the artistry of each individual dancer, who expresses his or her individuality and biography through moving. My work got stronger focused around the deep physical research on authenticity, strength and vulnerability in bodies especially in the short shared moments of connection between them. I learned that I am drawn to human beings who possess inner strength and clear voices: ones who take risks and are more concerned with honesty than perfection. I learned my lesson as a firm believer that dancers dance their best when they can lose themselves within the trust of a group and the movement that surrounds them. I got fascinated by the sensuality and humanistic relationship of people being in a space together and the reciprocity that arises from a shared practice in a common and safe space. I’m looking forward to continue and to explore the connections and relations between one individual and the group and do further research about the characteristics of the space that make this connections and relations possible. Places like Lavanderia A Vapore and people like Mara Loro and Daniele Ninarello live the spirit of reciprocity in a way, that you always want to come back and continue the collaboration. 

Patricia Carolin Mai