Asia Passerella ha partecipato al laboratorio di Aakash Odedra e Lewis Major (inserito nella cornice del progetto TANZ TANZ), assistendo poi allo spettacolo. Qui di seguito la sua restituzione. Per altre info sull’opera: clicca qui.
mormorio / mor·mo·rì·o / sostantivo maschile 1 . Rumore attenuato e insistente 2 . Seguito confuso e indistinto di parole pronunciate a mezza voce Piccolo mormorio.
Tanto fiato, tanto sforzo, minima emissione di suono, quasi impercettibile.
A – A – K – A – S – H
Per anni tutto è sembrato lo stesso. Un nome, scritto e pronunciato, in maniera automatica, giorno dopo giorno.
22 anni 2 lettere uguali 1 lettera mancante
Ecco cosa succede quando si perde qualcosa, qualcosa di fondamentale, di indispensabile. Se sono le parole a dare forma al mondo, a delinearlo e a renderne ogni aspetto riconoscibile, cosa rimane a chi ha un nome a metà?
LITTLE MURMUR è la storia di un uomo che negli anni porta avanti una ricerca: trovare la sua A mancante. È la storia di un mondo visto attraverso la lente d’ingrandimento della dislessia, fatto di parole fluttuanti, spesso impossibili da toccare. È la storia di una persona che sembra essere anche quella di ognun* di noi, fatta di tentativi, di impegno, di fallimenti, ma anche di luce, nuove strade e tanto coraggio. Attraverso il corpo, il linguaggio assume nuove forme, diventa istintivo, immediato e onesto.
Scrivere nell’aria, muoversi in un barattolo di miele, volare insieme a uno stormo di uccelli. La fantasia è il motore, lo spazio diventa pagina, il movimento parola. Nascono così nuovi alfabeti emotivi, nuove lenti con cui scoprire il mondo.
Giovedì 16 marzo a Torino si è svolta, nell’ambito del 22° Glocal Film Festival, la cerimonia di premiazione del concorso “La Danza in 1 minuto” per la sezione ONE MINUTE – Z GENERATION. La giornata è stata anche l’occasione per festeggiare i 10 anni di collaborazione tra COORPI, associazione organizzatrice del contest di screen dance, e Piemonte Movie che da dieci anni si prodiga nel portare avanti, con uno sguardo interessato e attento, il Glocal Film Festival. Quello di giovedì è stato un pomeriggio all’insegna della danza, vissuta attraverso un rapporto dialettico tra il dentro e il fuori dagli schermi. Tre gli appuntamenti, districati in diversi spazi, che hanno preceduto il momento finale. Dalla prima tappa, quella della galleria di arte contemporanea Recontemporary, il pubblico si è poi spostato al Cinema Massimo, sostando anche in via Verdi per qualche momento di danza dal vivo.
Sono circa le 15:15, tra le strade sotto la Mole si respirano i primi refoli di una primavera che è quasi alle porte. L’ombra del celebre edificio progettato da Alessandro Antonelli nel 1862 sta per plasmarsi a tocchi di danza. Il sole caldo del meriggio illumina i tanti passi avvicendati lungo via Gaudenzio Ferrari. La destinazione è Recontemporary, galleria esclusivamente dedicata alla new media art, che in occasione della giornata di premiazione del concorso La danza in 1 minuto ospita l’istallazione di danza in realtà aumentata “Acqua Alta – La traversée du miroir” (trad.: Attraverso lo specchio) di Claire Bardainne e Adrien Mondot.
L’istallazione è la narrazione del rapporto tra una donna, un uomo e un luogo, una casa. È la storia di una routine quotidiana in bilico. Un limen contraddittorio e vertiginoso.
Dei libri pop-up, dalle colorazioni monocrome, sono posizionati su un lungo tavolo posto al centro della sala principale della galleria. I visitatori attraverso dei tablet, inquadrando le architetture che emergono tridimensionalmente dalle pagine dei libri. Dagli schermi dei device invece si possono vedere le figure animate, total black, della donna e dell’uomo muoversi instancabilmente tra le geometrie dello spazio tracciate dai pop-up. Si osservano i corpi entrare in relazione. Ma ecco che irrompe l’imprevedibilità del disordine. La pioggia si abbatte improvvisa sulla casa. L’acqua nero inchiostro inizia a sommergere tutto, comprese le due figure. Della donna resteranno visibili soltanto i capelli che continueranno a galleggiare trasportati come da dalle correnti.
L’istallazione si concentra sul concetto di perdita e sull’istinto umano al dover ricercare. Emerge la paura nei confronti dell’ alterità (in termini socioculturali, oltre che filosofici), ma non solo. I due artisti indagano su come domare la paura verso ciò che sconvolge perché sconosciuto.
Dopo il primo momento che ha dato il via alle danze, il luogo dell’azione si sposta al Cinema Massimo all’interno della sala dedicata a Mario Soldati. In programma il Tolk di Enrico Coffetti, fondatore di Cro.Me – Cronaca e Memoria dello Spettacolo di Milano – dal titolo “Dance on Screen”. L’imprevedibilità, questa volta benevola, aleggiando nell’aria tiepida di questo pomeriggio di marzo, porta una leggera modifica sulla conduzione del panel. Alla presenza della studiosa e critica di danza Elisa Guzzo Vaccarino non le si può che richiedere un intervento. Il momento si trasforma così in una co-conduzione appassionata e densa sulla storia della screen dance.
Lo schermo della sala Soldati, nel corso dello svolgimento dell’incontro, si illumina di performance. I video proposti aiutano i presenti a districarsi all’interno di una prospettiva di studio di notevole ampiezza.
Il tempo incalza, dalla magica sala buia si passa alla strada. L’appuntamento è all’ingresso del Cinema Massimo, in via Verdi. Sono circa le ore 18:00, i sempre più numerosi capannelli di gente attendono intrepidi le due micro coreografie “La la dance” e “Hair Tribe” approntate dall’Associazione Eclectica, con le coreografie di Federica Pozzo.
Le danzatrici sono: Cecilia Bava, Isabel Borella, Cecilia Cisella, Margherita Data Blin, Arianna Falciola, Alice Tarabra. Numerosi i passanti, che attratti dalla fiat cinquecento rosso aragosta, scenografia delle performance, si fermano a dare un’occhiata a ciò che succede. Si inizia od udire la musica, le porte del Massimo si spalancano e finalmente fanno la loro comparsa le sei danzatrici. Indossano dei trench di differenti colorazioni. Si va dall’arancio al verde petrolio, passando per diverse gradazioni di beige e di blu. Inconfondibile, sia nel titolo che nelle musiche, l’omaggio al film musical “La La Land” diretto da Damien Chazelle con le musiche di Justin Hurwitz e al rock musical “Haire” scritto” da James Rado e Gerome Ragni, con musiche di Galt MacDermot.
Un vortice dinamico si trasferisce dalle danzatrici agli spettatori. La vettura, dallo smalto brillante, diviene centro dell’azione. Le performer entrano in relazione con essa. I movimenti zelanti si susseguono, la scenografia viene agita. Le portiere vengono aperte, i movimenti e i gesti, in rapida successione, si inscrivono all’interno dell’abitacolo dell’auto. I tanti smartphone si alzano ad immortalare il momento. Qua e là si vedono alcuni piedi degli spettatori muoversi a tempo di musica. Il ritmo sembra essersi ulteriormente acceso. Si è decisamente pronti per rientrare in sala, questa volta per il momento finale, oltre che più atteso della giornata. Son tutti pronti per assistere alla premiazione.
La sala è ancora una volta la Soldati. Il pubblico è numeroso, tra i concorrenti presenti si respira l’intrepida voglia di scoprire i risultati delle votazioni della giuria.
A prendere la parola è Lucia Carolina De Rienzo, direttrice artistica del contest di video danza, che rivolge i ringraziamenti a Piemonte Movie per l’ospitalità, ai vari partners, ai sostenitori, alla rete di realtà che appoggiano l’evento e naturalmente agli autori presenti tra il pubblico. Ad affiancarla Marco De Pasquale coordinatore della novella commissione artistica DAMS & CAM formata da Alice Dell’acqua, Gianluca Fiore, Sofia Fiorentini, Samuele Giubergia, Parnian Javanmard e Michele Pecorino.
È proprio scelta di quest’anno, con l’edizione dedicata alla generazione Z, quella di formare una commissione artistica composta da under 26.
Tra i 15 finalisti selezionati è stata poi la Giuria di Qualità, composta da Irene Dionisio – regista (presidente di giuria), Elisa D’Amico – danzatrice freelance, Francesco Dalmasso – danzatore freelance, Guglielmo Diana – musicista e sound designer, Marco Longo – regista e produttore e Carlota Machado – Direttore di produzione, Quinzena de Dança de Almada – Festival Internazionale di Danza, Portogallo – a decretare i vincitori.
Arriva il momento magico, in sala le luci si spengono per lasciare spazio alla proiezione dei primi dieci video ammessi alla votazione on-line, comprendente un totale di 25 lavori.
In questa edizione, il numero dei candidati provenienti dall’Italia è considerevole, ma non mancano anche quelli provenienti da paesi quali: Cina, Germania, Russia, Francia, Ecuador, Spagna, USA, Nigeria, Iran, Polonia, Regno Unito, Ucraina, Australia, Chile, Colombia, Bulgaria, Israele, Ruanda, e Paesi Bassi.
Una volta presentata la Giuria di Qualità e spiegato il funzionamento del voto del pubblico, si passa alla visione dei restanti 15 video, nonché finalisti, tra cui la Giuria di qualità ha individuato i vincitori.
Uno dietro l’altro si susseguono come in una corsa verso il podio. Le pupille degli spettatori si muovono scattanti tra le molteplici proiezioni della danza, i volti si illuminano di espressioni. Colori sgargianti, cieli plumbei, montaggi dinamici e musiche incalzanti modulano la nera scatola in cui il pubblico è immerso.
Una volta presentati tutti i video si può dare il via alla premiazione. Si procede partendo dal premio della rete decretato dal pubblico votante. Sul podio “Stormo Take 2” di Ruggero Romano che riceve ben 1017 voti, a seguire “6 Lati”di Irene Zoppelletto con 545 voti ed in fine “Sologram” di Cora Gasparotti e Giacomo Spaconi.
Ad imporsi significativamente in questa edizione è “1,2 and their cigs (3,4)” di Laura Carnevali. L’opera, oltre ad aggiudicarsi il Primo Premio della Giuria di Qualità, ottiene il Premio Speciale Z Generation Artistic Committee, e la Honourable Mention Quinzena de Danca de Almada.
Il linguaggio surreale a cui fa ricorso l’autrice in questa sua opera, racconta un mondo reale. Ridisegna gli aspetti più scontati della quotidianità attraverso una grammatica del corpo, capace di trasformare i caratteri, da tutti riconosciuti come conformi, in elementi simbolici.
A ricevere il Premio Speciale della Giuria – Best Storytelling sono, a pari merito, le opere “Polo” di Ilaria Bagarolo e “Nakładamy się” di Ewelina Węgiel.
A colpire di “Polo” è la sua raffinata fotografia e la narrazione che a tratti si mostra misteriosa ma efficace. “Nakładamy się” è invece la proiezione di una danza collettiva. Al di fuori di ogni logica narrativa prevale una certa libertà dove prevale l’influsso del Direct Cinema.
Il Premio Speciale della Giuria – Best Dance Animation va a “The Body” di Nika Zhukova e Rimma Gefen. Il sapiente dosaggio tra la stop-motion e la danza contraddistinguono questo lavoro nato e sviluppatosi attorno al tema del femminile.
La Menzione Speciale d’Onore, della Giuria Internazionale, e la Menzione Piemonte Movie sono invece assegnate a “Am I the lanscape?” di Noemi Piva. A ritirare il premio, in assenza dell’autrice, sono Sara Chinetti e Federica Siani, danzatrici che hanno preso parte al lavoro. L’opera in concorso è un’interessante racconto di un corpo che allo stesso tempo è casa e limite. La narrazione avviene attraverso una attenta e originale poetica visiva. La giovane coreografa indaga sul paradossale legame venutosi a creare tra le due concezioni del corpo, quali: punto sicuro e luogo impossibile.
La Menzione Speciale SOLOCOREOGRAFICO Solo Dance Festival va a “Absent Presence” di Giorgia Ponticello, da cui emerge un’astratto minimalismo capace di innescare nello spettatore una immaginazione priva di confini che tenda verso “quell’elemento altro” non visibile all’interno dell’inquadratura.
In fine la Menzione ZED Festival è stata assegnata a “Ticking”, lavoro d’animazione, di Lara Parisek.
La figura di una donna, resa attraverso la tecnica dell’animazione bidimensionale, abbandona l’iniziale monocromia fino a raggiungere una esplosione finale di colori.
Il pomeriggio dedicato alla premiazione è dunque stato particolarmente denso di performance ed emozioni. Dalle parole di chi ha preso parte ai vari momenti pomeridiani emerge quanto l’evento sia stato proficuo per sviluppare nuovi sguardi inerenti ai mutevoli discorsi della screen dance, in continua evoluzione insieme ai corpi danzanti. Si chiude così la prima parte del contest la ONE MINUTE – Z GENERATION. Il contest invece continuerà con la seconda sezione BEYOND ONE MINUTE grazie alla collaborazione con il ZED Festival internazionale di Videodanza di Bologna.
Michele Pecorino
La danza in 1 minuto è un progetto di COORPI Direzione artistica Lucia Carolina De Rienzo Curatore 1 Minute Competition – Z Generation Marco Di Pasquale Festival Manager Valeria Palma Social Media Manager Laura Cappelli Tecnologia Alessandro Grigiante, Cristiana Candellero
Con il sostegno di MiC – Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo | Regione Piemonte | Fondazione CRT | TAP – Torino Arti Performative
In collaborazione con Piemonte Movie | Cro.Me. – Cronaca e Memoria dello Spettacolo | ZED Festival – Compagnia della Quarta | DAMS & CAM, Università degli Studi di Torino
In rete con Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza per la Danza | Scenario Pubblico (Catania) | Fondazione Egri per la Danza (Torino) | Festival Mirabilia (Cuneo) | Lago Film Festival (Revine Lago – TV) | IperCorpo – Città di Ebla (Forlì) | Fuori Formato Stories We Dance – Augenblick (Genova) | Cam Cam Movimento Danza (Napoli) | CloseUp Festival (Crema) | Cinedans (Amsterdam – NL) | Tanzrauschen (Wuppertal – DE) | Choreoscope (Barcelona – SP) | Nudance Festival (Bratislava – SK) | Agite y Sirva (Città del Messico – MX) | Terre da Film Festival (Canelli – AT)
Media Partner DanzaDove – l’applicazione nazionale della danza | Ti Consiglio
La danza in 1 minuto è un’azione di PRO|D|ES Danza – Promozione Digitale Danza Estesa, progetto a cura di COORPI, CRO.ME – Cronaca e Memoria dello Spettacolo, Compagnia della Quarta, con il contributo del MiC – Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo
Dal 14 al 17 febbraio, la Lavanderia a Vapore ha ospitato una tappa di Diversità in scena, percorso di formazione tra Italia e Regno Unito curato da OrienteOccidente e Stopgap Dance Company e sostenuto dal British Council nell’ambito di International Collaboration Grant. Tutor del workshop, Giuseppe Comuniello (Al.Di.Qua Artists), Laura Jones e Cherie Brennan (Stopgap Dance Company). La tre-giorni sulle pratiche della danza e del teatro fisico era desintata sia ad artiste e artisti con ruoli di guide interessati ad ampliare il proprio bagaglio di competenze, sia a curiosi e amatori, con e senza disabilità. Il progetto si inscrive nel solco della linea strategica di Piemonte dal Vivo sull’accessibilità, in previsione di Carte Blanche Exchange, realizzato dal 22 al 26 maggio a Collegno, in collaborazione con la rete EDN – European Dancehouse Network, il collettivo Al.Di.Qua Artists e lo Spazio Kor di Asti.
Block notes di Asia Passerella
Asia Passerella – social media manager di Lavanderia a Vapore – traduce la propria esperienza formativa con Al.Di.Qua Artists e Stopgap Dance Company in un blocco di appunti digitale.
Moti gentili e segni viscerali di Eugenia Coscarella
Eugenia Coscarella – progettista per Lavanderia a Vapore e dramaturg di comunità – racconta attraverso la propria voce e quella di alcuni partecipanti al percorso il modo in cui i formatori abbiano saputo costruire un contesto abilitante, inscrivendo nei corpi un modo di creare e collaborare equo, inclusivo, capace di entrare e trasformare “sottopelle”.
Da esploratori ed esploratrici di silenzi con fragranza siamo entrati nel respiro.
Ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare. In questa semplicità dimora la cura.
Benvenuto nella nostra casa, benvenuta. Cosa ti serve per stare bene qui?
Da questa domanda, cominciano i nostri quattro giorni di formazione condotti da Laura Jones e Cherie Brennan, co-direttrice artistica e artista del coinvolgimento della comunità di StopGap Dance Company, con il supporto di Lottie Vallis e la partecipazione di Giuseppe Comuniello – Al.Di.Qua. Artists che, insieme, portano avanti una leadership di artisti/e con disabilità.
Di cosa avete bisogno per stare bene qui?
La domanda apre al silenzio. Bisogna fermarsi e ascoltare. Scendo a trovare il mio respiro, cosa mi dice? Ognuno trova le parole per tradurre quel sussurro.
Con semplicità, partiamo dalle cose più basilari, come la necessità di sapere come è fatto lo spazio, dove trovare le cose che servono, a chi rivolgersi, per arrivare alle piccole profondità di ognuno. Dall’ascolto reciproco nasce il nostro access agreement, l’accordo sulle condizioni necessarie di tutti per stare bene insieme ed un luogo dove depositare in qualsiasi momento le nostre domande e i pensieri.
Ogni mattina inizia con una domanda che direttamente o indirettamente ci fa dichiarare bisogni, stati d’animo, intenzioni, desideri, obiettivi della giornata. Un check-in fondamentale per allenare l’ascolto individuale e di gruppo, il prendere parola, l’attenzione, il condividere, prendere e lasciare spazio. Accoglienza, dialogo, fare casa. Così le conduttrici creano le condizioni e un contesto abilitante per e con ciascun partecipante, guidando un gruppo intergenerazionale, composto da persone con e senza disabilità in un ricco processo creativo, utilizzando corpo, suoni, parole, immagini secondo i linguaggi della danza contemporanea e del teatro fisico. Con leggerezza e semplicità entrano nella profondità delle questioni che portano, non dibattendo sul tema, ma inscrivendo nei corpi un modo di creare e collaborare equo e inclusivo, sia nella danza che negli aspetti quotidiani del vivere, muovendo il cambio atteso dall’interno.
Benvenuto nella nostra casa, benvenuta.
Qui, le fragranze si moltiplicano, moti gentili e segni viscerali animano tutto ciò che abita sottopelle.
E adesso, esploratori ed esploratrici di silenzi, dite voi, cosa rimane?
Credits Ringrazio per il contributo alla realizzazione del podcast (in ordine di uscita): Edoardo Urso, Orazio Spagnolo, Claudia Loss, Ilaria Bagarolo, Maria Vozza, Valentina Roselli, Gianna Bettega, Massimiliano Iachini, Sara Aprile e Arianna Perrone.
Ringrazio Kahlil Gibran, perché attraverso le parole de Il profeta, ho potuto trovare le mie.
I blogger della redazione itinerante di We Speak Dance restituiscono il proprio sguardo su Un poyo rojo, in scena il 4 febbraio al Teatro Sociale di Valenza e il giorno successivo al Teatro Toselli di Cuneo.
Nello spogliatoio di una palestra due uomini si affrontano, quasi due galli da combattimento, si scrutano, si squadrano, si provocano, si seducono. È il racconto di un incontro d’amore tra danza, acrobatica e comicità. Un Poyo Rojo è una provocazione, un invito a ridere di noi stessi esplorando tutto il ventaglio delle possibilità fisiche e spirituali dell’essere umano.
di Alfonso Baron, Hermes Gaido, Luciano Rosso coreografia Luciano Rosso, Alfonso Baron regia Hermes Gaido interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón produzione Timbre 4 Buenos Aires, Carnezzeria srls
Tu non hai paura dei tuoi istinti? di Giorgia Borgioli
Siamo nello spogliatoio maschile di una palestra, ci sono due uomini e una radio.
I due si vedono, si incontrano, si conoscono, si orbitano attorno a lungo e, alla fine, si desiderano. I loro corpi oscillano tra la competizione e il desiderio, tra la fuga dai propri istinti e l’accettazione. Sembrano chiedersi: tu non hai paura dei tuoi istinti? E sembrano chiederlo anche al pubblico.
Uno di loro va alla radio e cambia canale.
Click.
Parla l’esponente di un partito politico piemontese.
Click.
La ricetta per le lasagne vegetariane.
Click.
Dentro il tempio di virilità dei giorni nostri loro si provocano, e l’attimo dopo si subiscono a vicenda, si sfidano e poi si alleano tra di loro, ma soprattutto con sé stessi. Si riappacificano con quella vocina dentro di sé che dice “è sbagliato”, che ciò che stanno sentendo non si può sentire, che loro sono sbagliati, da soli e insieme.
La scena è un ring, dove una lotta continua tra il soffocamento degli impulsi e la loro liberazione coinvolge il pubblico, fino a divenire danza.
Click.
Le notizie del giorno.
Click.
La hit estiva della scorsa estate.
Click.
I risultati della partita di campionato.
Click.
Ora invece la radio trasmette una canzone dalle note dolci, una melodia inequivocabile d’amore.
Nessun click.
La canzone va avanti e continua fino alla fine dello spettacolo.
È lei è la canzone che mette d’accordo tutti: sul palco, in platea, e ovunque.
Sguardi sulla vanità di Zoe Guindani
Inizia lo spettacolo.
Un armadietto di ferro, una panca, una radio; siamo nel tempio della mascolinità, in un luogo anomalo per una rappresentazione teatrale: una palestra.
Questa apparente nemesi del teatro diventa il palcoscenico perfetto per la crisi identitaria di un uomo e della sua mascolinità.
Ma andiamo con ordine.
Due uomini, una palestra; uno seduce l’altro e l’altro lotta con le sue pulsioni, per sfociare infine in un rosso, rossissimo bacio.
La storia finisce qui, ma lo spettacolo è concentrico: i danzatori continuano a girare in tondo, come attratti da un magnete che in base a come lo si posizioni attrae e respinge dal suo centro: la sessualità.
I corpi di Alfonso Barón e Luciano Rosso, esplosivi, grotteschi e malleabili, esplorano le possibilità dell’attrazione e della repulsione senza vergogna e senza barriere, attraverso prima di tutto, l’animalità.
Da uccelli che non riescono a volare a polli sgraziati sino a pantere sinuose, sembra che gli animali, con i loro movimenti istintivi, nascondano la chiave per capire le profondità umane. Quando i due uomini raggiungono il massimo della tensione, emotiva e sessuale, ecco spuntare alette rachitiche e colli sgraziati: si trasformano in polli.
Lo spettacolo, col suo sguardo divertito sulla vanità maschile, esplora con ironia il confine sottile tra machismo e omosessualità.
Ma se il pubblico è parte integrante di un’opera d’arte, in un paese ancora cattolico e ancora profondamente scandalizzabile come l’Italia, lo spettacolo è un perfetto metro di studio del pubblico italiano.
In un paese in cui la risata è da sempre il modo di esorcizzare la paura, le risa, liberatorie e fragorose, su due uomini che sono uno attratto dall’altro, lungi dal dimostrare una comprensione delle contraddizioni della natura umana, dimostravano un nervosismo di fondo.
Non tanto riguardo l’omosessualità, ma riguardo la sessualità stessa.
Ma se ciò di cui si parla non è risibile, non è grottesco ed esorcizzabile, allora cala un silenzio tombale. Davanti a veri gemiti e a movimenti sinuosi, il pubblico pareva ghiacciato, col fiato sospeso nell’attesa di un risvolto comico per liberarsi del peso che li opprimeva.
Ma un Poyo Rojo nasce in Argentina, in un contesto sociale preciso, quello di un discusso progetto di legge per il matrimonio omosessuale. Nasce come una ribellione, un tentativo di affrontare il tema con leggerezza, di normalizzare i corpi, di amarli anche nelle loro brutture, di giocarvi e di ridervi (lo spettacolo è infatti pieno di sputi, schiaffeggi, risa, urla, scatarrate e sniffate di sudore) e in ciò lo spettacolo riesce perfettamente, ed è lodevole nella sua vivacità.
Credo vi sia l’urgenza di recuperare la valenza morale e sociale di una danza ridicola, che sappia ridere di sé stessa e accettare l’essere umano nella sua totalità di essere in divenire: talvolta incantevole, talvolta irrimediabilmente buffo.
We are so pop! di Eleonora Natilii
Riscaldamento.
It’s getting hot in here!
Siamo uguali, io e te.
Tik Tok.
Chi é?
Sono io, il vuoto. Passavo di qui… Ti va un selfie? Vengo sempre bene.
Hey, relax man.
Sono Clint. Clint Eastwood.
È un po’ difficile, faticosa, tutta questa follia.
Aspe’ ché mi trasformo un attimo.
Aspetta.
Tik Tok.
Chi è?
Fai un balletto.
Fai lo scemino.
Fai un ballettino sciocchino.
Fa un po’ paura, tutta questa follia.
Yeah yeah!
Yo, man!
YEAH!
Tendu.
Allongé.
Bird.
Bird?
Sì, bird.
Il Lago dei Polli.
RELEVÉ!
Sto avendo qualche difficoltà.
Ti spiace stringere un po’ meglio il nodo?
Alla chiappa?
Alla gola.
Facciamo la chiappa, va.
Devo bere…
Accendi la radio ché c’è il derby Inter – Milan.
L’asciugamano mio è quello bianco, quello tuo è quello rosso.
Rojo.
Hey man, ce l’hai una sizza?
Turn up the music, man! Hey, man! Woohoo!
Sono io quello lì allo specchio?
No… quello lì è il vuoto. Tu sei quello dietro.
Forse dovrei smettere di fumare. Magari domani.
Si sta asciugando il sudore sulla schiena. La canottiera di Rorschach.
La canotta tua è bianca, la mia è quella rossa.
Vuoi entrare sotto la luce, nella canotta, nella mia stanza?
È difficile staccarsi, in questa danza.
Com’è divertente, tutta questa follia.
We are so pop!
Come siamo lirici.
Il desiderio è circolare: senza non si può stare.
Sempre, sempre, si desidera qualcosa sempre.
Una storia d’amore.
Pensieri sconnessi e radio per Un poyo rojo, l’Argentina e Cuneo di Mirco Spadaro
«En un vestuario vacío, dos hombres juegan con el movimiento, una radio analógica y unos diminutos pantalones cortos. Los cuerpos atléticos de Luciano Rosso y Alfonso Barón pasan con fluidez de la lucha a la danza, de la acrobacia a la comedia física en una irresistible distorsión de las expectativas de la virilidad. […] Naif, kitch, poncif»; è il 34’ minuto; la radio sfiata su di noi che siamo sotto il palco e stiamo lì a osservare Alfonso Baròn e Luciano Rosso. Uno è seduto su una panca: fuma centordici sigarette e guarda l’altro. L’altro si osserva allo specchio. GOOOOOOOOL! GOOOOOOL! 1-0 INTER, LAUTARO!! Angolo di Calhanoglu dalla sinistra, il Toro colpisce di testa: deviazione di Kjaer, Tatarusanu battuto! Anche i due uomini nello spogliatoio scenografico di fronte a noi applaudono; poi cambiano stazione: ora c’è della musica dance. È una radio vera, ci spiegheranno un po’ in italiano e un po’ no alla fine dello spettacolo: è una radio vera di quello che sta succedendo nel mondo attorno a noi, ora, e al contempo, sul palco, la radio vera di uno spettacolo che accade da 14 anni sui palchi del mondo.
Progetto nato nel 2008, inizialmente dalla mente di Luciano Rosso e Nicolás Poggi, un Poyo Rojo non usa parole: non conosce barriere linguistiche, ma non usa nemmeno musica, almeno non nel senso più convenzionale del termine; dalla buffoneria di Tom e Jerry alla disciplina marziale della marcia soldatesca, sono le espressioni, i movimenti scomposti, mimetici e didascalici fin quasi all’eccesso nel loro voler essere imitazione della realtà, il filo, un poco rosso, della competitività virile e machista che diventa, pian piano, amore e sensualità. Complicità, seduzione, diffidenza, ironia, seduzione e tanta, tanta immaginazione. Il pubblico sugli spalti ride durante l’esibizione; non vedevo una folla a teatro così tanto divertita da tempo. La ragazza sulla poltroncina rossa di fianco alla mia si sganascia; alla fine si alzerà in piedi e applaudirà a piene mani per interi minuti.
E poi c’è quella radio che viene accesa circa a metà della performance; sintonizzata sempre sull’emittente locale del momento e della città dove si trova il duo; la chiamano “drammaturgia del caso”. Un Poyo Rojo continua ancora oggi, che è il 2023, e fino ad qui ha visitato paesi di differenti continenti, dall’Uruguay alla Bolivia, dalla Germania all’Italia, dalla Francia a Nuova Caleidonia.
Mentre siamo sulla navetta che torniamo verso Torino ne parliamo, di un Poyo Rojo; io ho una certa sete. Da stamattina sono in piedi con un solo caffè, uno lungo, e tanto, troppo lavoro arretrato; ascolto più che parlare; appoggiato al finestrino osservo Cuneo che scompare e le colline oltre il guard rail dell’autostrada. La maggior parte di noi sono entusiaste; lo spettacolo ci è piaciuto tanto. Abbiamo però dei dubbi; quello che abbiamo visto ci è piaciuto, sì, ma alcune cose ce le domandiamo, alcune cose le abbiamo trovate, riportate al 2023, in un certo qual modo “vecchie”, in un certo qual modo, ecco, fuori tempo massimo. M’immagino a Ciudanza, a Buenos Aires, a vedere una delle prime rappresentazioni: sicuramente sarebbe stato diverso.
Se si apre Wikipedia, che non è la migliore fonte d’informazione ma sicuramente una delle più usate, come prima alla pagina “Diritti LGBT in Argentina” si legge questa frase: “I diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) in Argentina sono tra i più avanzati al mondo”. Il 15 luglio del 2010, decimo paese nel mondo, il primo in America Latina, l’Argentina ha legalizzato il matrimonio omosessuale; quest’informazione la ricordo: anche da noi se n’era parlato molto. Non solo matrimoni, comunque: i suoi legislatori, dell’Argentina intendo, che seguono dal 1983 una transizione nazionale verso la democrazia, hanno scritto e approvato nel 2012 una legge sull’identità di genere che consente alle persone di cambiare il loro genere sessuale, legalmente, senza dover prima affrontare barriere di terapia ormonale, chirurgia di riassegnazione del sesso o diagnosi psichiatriche di sorta; l’U.S. News & World Report del 4 aprile 2016 di Kamilia Lahrichi e Leo La Valle possono essere un ottimo approfondimento a proposito, così come i numerosi e ben scritti articoli della BBC Mundo. “Siempre hay un efecto dominó, de imitación, tal como aquí se aprobó luego de que se hiciera en España”, disse al tempo César Cigliutti, presidente della Comunidad Homosexual Argentina. Era il 15 luglio 2010; c’è sempre un effetto domino, di imitazione. Mi convinco che sia in fondo questo il grande sentimento che rende ancora tanto attuale un Poyo Rojo; che sicuramente anche lui invecchia, che certi stereotipi sul palco possono essere oggi stati levigati, in un certo qual modo riscritti, ma il messaggio, la sensualità e quella grande dichiarazione, seria e divertente, che certe cose sono umane e non hanno una lingua da capire ma solo dei gesti universali, quello non invecchia mai, non importa la musica della tua radio. C’è sempre un effetto domino, de imitación.
Un gioco a due, a fare sul serio di Maria Rosaria Visone
Esiste un’idea comune, quasi conclamata, per la quale aprire le porte di uno spogliatoio maschile vuol dire entrare in un tempio di esaltazione della virilità e della mascolinità. Come se in questi luoghi non siano contemplate altre forme, idee o generi diversi da quello puramente maschile, riducendosi a mere ipotesi irrilevanti. E da donna vivo nel dubbio, sperando davvero non sia così, che esista ancora spazio per vivere liberamente la propria identità. Eppure, entrare al Toselli di Cuneo questa prima domenica di febbraio ha significato esattamente questo: catapultarmi in una circostanza a me distante, percepire quella latente tossicità che spesso ci circonda, distruttibile solo se si procede senza troppe ringhiere sul cuore.
Da uno dei palchetti centrali del teatro, i miei occhi si sono affacciati su un ambiente riconoscibile, comune, composto di pochi elementi: una panca in legno, degli armadietti grigi, qualche bottiglietta d’acqua, una radio portatile. Il minimo indispensabile per annunciare un “Noi siamo qui. In un semplice spogliatoio per uomini, nel quotidiano di un presente qualsiasi. Inaspettatamente, proprio qui accadrà qualcosa”. Ancora con le luci accese in sala, un semibuio sul palcoscenico mostra due uomini che si riscaldano, ognuno con modi e tempi propri, come se il pubblico non fosse lì ad osservarli. Poi, insieme avanzano verso il proscenio con una presenza fisica inspiegabile, attirando l’attenzione della platea e iniziando un sincronismo gestuale: parte così Un poyo rojo, uno spettacolo imprevedibile, un duello senza troppe regole che, con trovate geniali e inaspettate, incontra lo sguardo divertito e incantato del pubblico.
In scena, i due interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón, con la regia totalmente fuori dagli schemi di Hermes Gaido, sono una potenza estrema. I loro corpi flessibili, acrobatici, guizzanti, esplorano ogni angolo del palcoscenico: a mo’ di sfida giocosa, proprio come dei bambini, indagano possibilità fisiche e mimiche per la mente umana impensabili. E sono queste “probabili impossibilità”, questi continui estremismi fisici, a far sorridere il pubblico. Intermittenti, laute risate invadono la platea, raggiungendo il palco e caricando sempre più la partita tra i due interpreti. Se ne rallegrano, senza mai abbassare la guardia: sono irrefrenabili. Si alternano nella loro disputa immaginaria, che vive tra il comico e il conflittuale. È come un dialogo muto, un passaggio di palla sincero, privo di superbia o pretese di vittoria.
Durante la performance, la coppia sconosciuta comincia a delinearsi. Spuntano fuori le insicurezze di uno, la reticenza dell’altro. Poi la voglia di entrambi, l’incontro e la complicità dei loro corpi. Intanto la radio, sintonizzata dal vivo, accompagna e riflette gli animi dei due interpreti. La musica, le voci delle speakers e dei dibattiti radiofonici attraversano i loro corpi, facendo procedere quella lotta interiore infinita tra ciò che si vuole e ciò che non si vuole mostrare. In balìa del giudizio, della paura, tra le mura di uno spogliatoio qualunque. Eppure, è chiaro: sono corpi desiderosi di aversi, di spaccare tutto, anche gli stereotipi sociali.
Viene da chiedersi qual è stato il momento esatto in cui tutto è cominciato.
Quando è che il gioco è passato a non essere più un gioco.
E chi ha vinto la partita?
C’è mai stata davvero una sfida?
Tra le mani, nessuna risposta.
Resta solo il sapore di un incontro nascosto, a luci rosse.
Un momento intimo, che rimane negli occhi di chi l’ha sbirciato.
E trovare spiegazioni passa in secondo piano: è proprio vero, a teatro si gioca a fare sul serio.
L’opera electrica /ecosi’stɛma/ – in residenza alla Lavanderia a Vapore fino allo scorso 22 febbraio – è un’indagine performativa sulla relazione fra tre universi: il vegetale, il tecnologico e l’umano. La fase di ricerca a Collegno di Flavia Zaganelli e Cecilia Stacchiotti (in arte Ceci Stuck) precede il debutto del lavoro, programmato per il 25 febbraio allo Spazio Kor di Asti, all’interno della stagione NODO PIANO curata da Chiara Bersani e Giulia Traversi. Lasciamo la parola alla danzatrice e alla compositrice elettronica per esplorare alcuni passaggi della creazione.
Da dove deriva la scelta di servirsi di un vasto immaginario vegetale? Quale funzione svolgono, in altri termini, le piante in questa vostra creazione?
FLAVIA: La ricerca prende avvio proprio da una grande fascinazione per il mondo vegetale; un’attrazione sostenuta da letture approfondite, senza tuttavia una vera e propria competenza scientifica in materia. Il nostro interesse precipuo riguarda la creazione di una relazione a tre, tra corpo umano, elemento vegetale e dimensione tecnologica (vale a dire, tutto l’apparato che usa Cecilia per produrre suono a partire dagli impulsi elettrici sprigionati dalle piante). Le piante, dunque, giocano un ruolo di fondamentale importanza. Il tentativo è “stare” all’interno di un meccanismo di relazioni circolari, anziché piramidali: non vi è mai, insomma, un elemento che prevalga, sebbene – a seconda dei momenti – l’uno o l’altro sembri imporsi. Uno dei meccanismi principali del lavoro è l’utilizzo di un dispositivo, o meglio di un circuito arduino di biodata sonification chiamato Midi Sprout, che grazie a dei sensori apposti sulle foglie (simili a quelli utilizzati negli elettrocardiogrammi) recepisce il passaggio di corrente. La “pianta madre” è collegata alle altre due attraverso un filo di rame, che sbuca dal terreno della prima, compie un giro attorno alla seconda e si immerge infine nelle radici dell’ultima: questo percorso amplifica la trasduzione del passaggio di corrente, potenziando quello già esistente per natura. A livello coreografico, cerco di attivare una relazione anche con il corpo. Un corpo – ça va sans dire – il più possibile aperto, rilassato, fedele a quanto percepisco e sento nel preciso istante. Un corpo, insomma, che sta in ascolto, principalmente del sé. All’inizio della ricerca entravo in questo setting rimanendo molto fuori da me stessa, proiettandomi nell’ascolto del campo elettrico esterno. Pian piano però, lavorando su questo aspetto, mi è parso di capire che abbia ben più senso ascoltarsi, per potersi poi virtuosamente aprire alla relazione, di qualunque tipo essa sia. Il dialogo si sviluppa attraverso degli stati e dei gradi di pratica: il primo è il tentativo di aprire il corpo in una situazione di rilascio quasi meditativo. Dopodiché Cecilia si posiziona dietro il mixer e parte la musica. Io, nel frattempo, inizio a esplorare lo spazio, istituendo un dialogo che ha più a che vedere con la mimesi, intesa non tanto come imitazione della forma delle piante (operazione che risulterebbe, in effetti, piuttosto banale), bensì in quanto approccio, riflesso umano autentico. Capita spesso, infatti, pur non conoscendo una persona, di prenderne – quasi istintivamente – le forme, il modo di esprimersi, di gesticolare, di muoversi. Con il tempo ho iniziato ad accettare questa dinamica, sebbene la volessi eliminare in principio perché mi sembrava eccessiva, didascalica. Invece ora la sto assorbendo. Tornando ai momenti dello spettacolo, poco per volta entra – in maniera sempre più preponderante – il suono e quindi anche l’elemento elettrico prodotto dalle piante. Io continuo, attraverso il corpo, a rimanere in ascolto di tutto ciò che avviene a livello sonoro, visivo e fisico dentro di me. E si crea così un pattern, una sorta di 8 che descrivo danzando attorno alle piante. Ed è quello il vero momento di dialogo: lì resto nella mia condizione di movimento, ora spontanea, ora volitiva, ora morbida. Una duplice condizione di ricezione ed emissione.
Nella scheda artistica sono chiarite puntualmente le piante da utilizzare, che assurgono al rango di protagoniste nei crediti dello spettacolo.
FLAVIA: Esatto. Le piante richieste sono appunto queste [le indica sulla scena]. Poi, naturalmente, ogni volta presentano forme diverse, quindi muta anche la relazione che si va instaurare tra me e loro. A destra vedete la Monstera Deliciosa, che appartiene alla famiglia dei rododendri, le prime piante a essere utilizzate in esperimenti con sensori già dagli anni Cinquanta-Sessanta (erano quelli per brevettare le macchine della verità). Questo gruppo vegetale risponde molto bene agli stimoli perché possiede un fogliame molto largo; pertanto si osserva un copioso passaggio di energia, di elettricità, non troppo compressa come invece avviene nelle piante grasse. Sono insomma degli ottimi trasduttori. Per le altre due – il Ficus Lyrata e l’Eugenia Myrtifolia – il discorso è pressoché identico: anch’esse mostrano foglie abbondanti e assai resistenti. Sono tutte e tre – peraltro – piante da interno, abituate a quegli stress necessariamente subiti per via del trasferimento da un luogo all’altro. Sono tenaci, forti. La scelta dipende anche da ragioni di ordine estetico, legate al mercato delle piante. Il Ficus, l’Eugenia e la Monstera sono infatti piuttosto comuni da trovare in uffici e negozi, essendo piante d’arredo, molto gradevoli alla vista. Mi stuzzicava quindi l’idea di utilizzarle per sottolineare l’enorme carica vitale, spesso data per scontata, di soggetti comuni, visibili ovunque.
Passando invece al corpo sonoro?
CECILIA: Nel primo segmento dell’opera-installazione, il mio ruolo è mettere in risalto, in evidenza, attraverso il suono quell’energia che si genera nello spazio. Inizialmente è un piccolissimo microfono, una capsula, a realizzare tale obiettivo: lo muovo io un po’ nell’aria, mettendolo in risonanza. Attraverso degli altoparlanti si crea così un feedback, modulato all’occorrenza dal vivo. Questo già inizia a dar vita a una sorta di tensione. La pianta reagisce frattanto al suono, che la attiva, la mette in moto. Così come mette in moto anche Flavia, la quale comincia nell’ecosistema delimitato dai vasi. In origine avevamo assegnato dei suoni predeterminati a ciascuna pianta. Abbiamo poi virato su altre soluzioni: di fatto, diamo alla pianta la possibilità di scegliere, a seconda degli impulsi che emana, tra specifiche parti di file, che non sono altro che le registrazioni dal vivo realizzate sulla scena. In poche parole, è la pianta che “suona le parti che vuole suonare”. Ci sono poi passaggi in cui Flavia rivolge alla pianta delle parole tramite il microfono e la pianta – specularmente – decide come rileggerle. Nel finale, invece, il corpus vegetale suona un synth producendo una sonorità più violenta, in un crescendo, in una climax, in un’esplosione di elettricità.
Se ho ben capito, quindi, attraverso i sensori voi leggete gli impulsi elettrici che la pianta possiede e che vengono anche provocati da stimolazioni sonore o interazioni con il tuo corpo, giusto? Si crea così un dialogo, amplificato dai tre piani simultanei della composizione.
FLAVIA: Sì, a fungere da collante è il campo elettrico. Nella pianta, di suo, già scorre un’energia vitale, così come accade all’interno di ciascun corpo umano. Chiaramente in uno spazio fisico in cui si trovino delle persone – a maggior ragione se queste si muovono – si altera la carica energetica ed elettrica dell’ambiente, insieme a quella della pianta stessa. Quest’ultima diventa così un trasduttore, un trasmettitore, di quanto percepisco. Tanto più in un teatro, dove si attivano luci e molteplici fonti di calore.
Di conseguenza, a ogni “replica” lo spettacolo è diverso.
CECILIA: Esatto. Infatti la sfida grande di questo lavoro è il restare il più possibile sincere alla relazione che si instaura nel qui e nell’ora. Le piante infatti, da parte loro, rispondono in maniera sempre autentica e quindi imprevedibile.
electrica /ecosi’stɛma/ CORPO VEGETALE Monstera Deliciosa, Ficus Lyrata e Eugenia Myrtifolia CORPO TECNOLOGICO Sintetizzatore analogico, Biodata sonification Device, PC, Ableton Live CORPO UMANO FLAVIA ZAGANELLI // concept, ricerca, creazione, danza, voce CECILIA STACCHIOTTI // ricerca e suono FABRIZIO PIRO // disegno luci ELENA MATTIOLI – LELE MARCOJANNI // video electrica /ecosi’stɛma/ è stato ospitato in residenza da: Santarcangelo Festival, DAS Dispositivo Arti Sperimentali, Fienile Fluò con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza in collaborazione con Crexida, Paleotto11.NO TITLE nella versione EXPANDED ha vinto il Bando Abitante 2021 ed è stato ospitato in residenza da P.I.A. Palazzina Indiano Arte e Corniolo Art Platform, dando vita ad INVISIBILIA, progetto realizzato con il sostegno di Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e di Fondazione CR Firenze