Benedetta Colasanti ha visto Satiri di Virgilio Sieni a CANGO Cantieri Goldonetta di Firenze, dove lo spettacolo ha replicato tra il 30 novembre e il 4 dicembre scorsi come segmento dell’edizione 2022 del Festival “La democrazia del corpo”.
Due danzatori, violoncello e voce; luci riflesse e una coreografia che gioca sulla specularità. Sono questi gli elementi principali della nuova opera di Virgilio Sieni. L’idea di Satiri nasce dal continuo dialogo con l’antico, una materia sempre rinnovabile alla quale il coreografo dichiara di riferirsi «sempre, in tutto quello che faccio», un po’ sulla scia di Luciano Canfora e del suo Gli antichi ci riguardano.
Il gioco di specchi tra satiro – almeno apparentemente rappresentato dal danzatore che indossa una maschera dalle fattezze di capra – e uomo – il danzatore senza maschera – si fonda sul sostenersi e sull’accompagnarsi a vicenda. Nei momenti in cui il satiro si stacca da terra, affidandosi completamente al compagno che lo sostiene, la mente vola a La natura delle cose, un “classico” di Sieni in cui la danzatrice Ramona Caia, indossando una grande maschera a immagine di bambolotto, lotta contro la gravità grazie (o a causa) all’appoggio di altri danzatori.
Nel rapporto tra uomo e satiro, tra danzatore senza maschera e danzatore con maschera, possiamo osservare una fusione e uno scambio continuo di corpi e di identità: l’uomo contemporaneo si distacca dal comportamento del satiro ma talvolta è identico a lui. Del resto, parafrasando Sieni, intervistato da Rodolfo Sacchettini dopo la performance, il satiro è stato inventato dall’uomo al fine di fuggire dal quotidiano, dalle norme sociali e dai comportamenti che queste implicano. E tuttavia in Satiri osserviamo ciò che non ci si aspetta dal satiro: non sessualità ma gentilezza, delicatezza, tenerezza, peculiarità spesso più animalesche che umane, più femminili che maschili. Il femminile, in effetti, sembra non esserci ma è onnipresente: nella musica, nella luce, nelle movenze dei performers.
L’uso della maschera è un leitmotiv carico di significato. Dalla funzione de-umanizzante a quella di mettere in evidenza le potenzialità gestuali. Dall’indossare un volto altro a fini stranianti all’atto di deporre la maschera che permette al satiro, un po’ come accade nel vaso di Pronomos, di trapassare dal teatro al mito, dalla finzione alla verità. Ma l’espressività delle coreografie di Sieni risiede soprattutto nell’uso delle mani, che talvolta somigliano a quelle delle marionette: queste ultime sono immobili nelle espressioni del volto ma altamente comunicative nel movimento vorticoso dei polsi.
I due corpi si uniscono e si sdoppiano continuamente, proponendo pose e formazioni in continuo divenire. Da un punto di vista più tecnico, Satiri è il secondo capitolo di Bach duet; gli stessi Jari Boldrini e Maurizio Giunti – duetto ormai solidale – propongono in scena una danza geometrica e speculare, resa possibile dal reciproco scambio di equilibri, energie e forze. Oltre alla geometria, troviamo un infinito campionario di pose che Sieni afferma corrispondere alle infinite proposte dell’iconografia e dell’arte figurativa dall’antichità a oggi (tra queste emergono prepotentemente alcune Pietà). Niente è nuovo nell’apparenza, tutto è diverso nel continuo dialogo tra ciò che è stato – e che rimane – e un presente effimero che sfugge nel momento in cui lo si afferra. Accostata al mito o all’Arcadia la “barocca” musica di Bach suona anacronistica. Eppure le sonorità prodotte da Naomi Berril, specie quelle vocali, si sposano bene con lo spazio, con l’atmosfera e con l’azione dei danzatori, stabilendo apprezzabili contrasti tra il rigore matematico dei passi e della composizione musicale e l’indeterminazione di un mondo lontano e/o onirico. Bach risuona da anni nelle orecchie di Sieni, accompagna e sostanzia molte delle sue coreografie, prima di Bach duet, basti pensare a Solo Goldberg e Sonate Bach. Bach, afferma di nuovo il coreografo, è una zona franca ma anche di scomoda ispirazione: «me ne vorrei liberare ma non ci riesco».
Una superficie riflettente proietta sul pavimento della scena forme che richiamano la luce che passa attraverso i rami degli alberi. Una luce mai piena, che vive di riflessi, richiamando tematicamente la messinscena del satiro e creando atmosfere oniriche simili a quelle di Apres midi d’un faune.
Nei continui riferimenti a un proprio universo, ben riconoscibile ma sempre in evoluzione, Sieni è una rarità nell’attuale panorama della danza contemporanea: rifugge la citazione ma fa propri concetti, storie e stili. E anche volendo forzare un riferimento, si è costretti a tornare ancora una volta alle origini, quelle della danza contemporanea stessa, quando Isadora Duncan esprimeva la grecità e il ritorno all’antico tramite una libertà assolutamente nuova e inedita nel mondo a lei contemporaneo.
Benedetta Colasanti
SATIRI coreografia e spazio Virgilio Sieni interpretazione Maurizio Giunti, Jari Boldrini violoncello Naomi Berrill musica Johann Sebastian Bach (Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009; Suite n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010) luci Marco Cassini allestimento Daniele Ferro maschere animali Chiara Occhini produzione Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni in collaborazione con AMAT & Civitanova Danza, Galleria Nazionale delle Marche con il sostegno di MIC Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune di Firenze, Fondazione CR Firenze
A partire dalla visione di Inferno della compagnia ALDES – recentemente insignito del Premio Ubu come Miglior spettacolo di danza e replicato tra Vercelli, Ovada e Asti nelle stagioni programmate dal Circuito teatrale del Piemonte – alcuni dance-writers appartenenti alla redazione itinerante che segue il progetto di Piemonte dal Vivo We Speak Dance ne hanno scritto, rielaborando le suggestioni offerte dal lavoro coreografico in forma ora critica ora narrativa.
Un lavoro solare, divertente, giocoso, ma che si chiama Inferno. E che non vede la sua genesi legata alle celebrazioni per il 700º anniversario della morte di Dante.
Roberto Castello
L’inferno nella cultura occidentale è il luogo dell’immaginario che più di ogni altro ha offerto spunti a predicatori, illustratori, pittori, scultori, narratori, registi e musicisti. È il luogo dell’espiazione delle colpe morali e materiali; quello in cui i malvagi vengono puniti e il bene trionfa sul male. È il luogo del sovvertimento e del caos, nella cui rappresentazione tutto può coesistere. Ma sarebbe poco credibile oggi una rappresentazione del male come regno di un diavolo sulfureo munito di coda, corna e forcone. L’inferno è qui. E assomiglia molto al Paradiso. È ciò che spinge a compiere ogni sforzo possibile per apparire in qualsiasi momento più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più umili, più intelligent, a competere per ottenere gratificazioni morali, sociali, economiche, affettive. Di qui l’idea di Inferno, una tragedia in forma di commedia – seducente, piacevole, coinvolgente, brillante e divertente – sull’invadenza dell’ego.
coreografia, regia, progetto video Roberto Castello in collaborazione con Alessandra Moretti danza Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli fender rhodes Paolo Pee Wee Durante luci Leonardo Badalassi costumi Desirée Costanzo consulenza 3D Enrico Nencini mixaggio audio Stefano Giannotti mastering audio Jambona Lab un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo una coproduzione ALDES, CCN de Nantes nel quadro di ‘accueil-studio’, sostenuto da Ministère de la Culture – DRAC des pays de la Loire,/Romaeuropa Festival/Théâtre des 13 vents CDN/ Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati e con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo
Immersioni magmatiche
di Michele Pecorino
Sotto i piedi frettolosi, il pavé si dispiega in tutta la sua immobilità. Lo sguardo, privo di alcun punto focale ben definito, è inframmezzato da attimi alla ricerca dei compagni di spedizione e da rapide occhiate al display del cellulare. I minuti scorrono inesorabili. Si vorrebbe esorcizzare il tempo per arrivare puntuali, ma nulla di tutto questo avviene. L’ingresso non è ancora visibile, manca ancora una svolta per poter scovare, in lontananza, l’ingresso del teatro. Gli ultimi passi sembrano farsi più leggeri. Ancora un balzo in avanti, attraverso la porta spalancata da una maschera, e si è immersi nel Foyer dalle tinte Carminie. Un sottile filo di voce ci avvisa che lo spettacolo è appena iniziato. Le luci in sala si sono spente da pochi istanti.
Per accedere in sala bisogna aspettare un pò, almeno l’arrivo di un momento drammatico più sostenuto che renda minima la distrazione che potrebbero causare quattro individui che nel buio cercano il proprio posto. Aspettando il momento adatto, però, è possibile sbirciare tra i pesanti velluti verdi posti a chiusura delle porte. L’occhio si fa strada tra le pieghe dello spesso tendaggio. Nel momento esatto che si trova la vista sul palco, un secco colpo, come quello di un timpano, rimbomba nella sala del teatro civico di Vercelli. Uno squarcio sonoro su una scena che si dipana lenta davanti a un fondale animato tridimensionalmente.
La scena si costruisce nel suo ritmo in un crescendo graduale. Ogni rintocco, sembra arricchirsi di qualcosa. A ogni colpo l’azione si carica di dinamismo, udibile nella tensione creata tra un effetto sonoro e l’altro e visibile nel legame tra i movimenti, inizialmente lenti. Finalmente arriva fortuito, il momento per poter prendere posto in sala, la poltrona è proprio accanto al corridoio. L’azione non richiede molto. Una volta seduto, l’attenzione ritorna magneticamente sul palco. Come un rito si entra in una dimensione altra. Il tempo non risponde più ai limiti del reale ma si dilata in maniera lenta, quasi impercettibile. Si accede all’interno delle viscere vorticose di questo Monstrum. Naturalmente da intendersi nel significato latino del termine quale portento.
La concezione del tempo assume ritmi cangianti, delle volte incespicanti, ma capaci di innescare una concezione temporale diversa da quella giornaliera. Il gesto, la mimica, il movimento, lo spazio e tanto altro ancora sono il magma che fuoriesce incandescente dalla coreografia di Castello. Uno spazio da poter esplorare in tutta la sua complessità spettacolare. I corpi, nel susseguirsi delle scene, sfuggono al controllo di sé stessi. La frenesia è tanta e lo spettatore non può che trovarsi inerme, attonito davanti al dipanarsi dell’evento. I corpi e i volti dei danzatori diventano per il pubblico figure demoniache ma nello stesso tempo rilucenti, dalle quali rifuggire incerti. Piume, paillettes, copricapi, oggetti vari e sorrisi ammiccanti rappresentano quelle protesi poste a diventare estensioni infernali, spaventose.
Si entra in contatto con la causticità del proprio essere. Proprio mentre si sta seduti in comode e accoglienti poltrone. Dapprima soltanto sospinti e in seguito trascinati verso il fondo attraverso un coinvolgimento violento. Ma non si ferma di certo a questo, la performance. Lo spettatore viene poi nuovamente scaraventato contro la sua seduta e lasciato solo, immerso nel suo senso di inadeguatezza, di fronte al sublime. Ognuno ha la visione di quel sé dannato che è in continua competizione con chi sta attorno. Roberto Castello porta in sala l’ossessione inconsapevole dell’uomo contemporaneo, febbricitante di voler primeggiare.
Ebbene nessun riferimento alle celebri bolgie dantesche è presente nell’opera. Nè tantomeno vuole essere una celebrazione per il settecentesimo anniversario della morte dell’Eccelso da Fiorenza. L’inferno per Castello è questa ineluttabile condizione a cui si è condannati. Le immagini in movimento, che scorrono sul fondale, entrano in stretto contrasto con l’azione che avviene innanzi. Un ulteriore elemento per lasciare inerme lo spettatore. Il linguaggio della danza non è l’unico ad essere utilizzato. Sarebbe opportuno parlare, in relazione a questa performance viva e tagliente, di un multi-linguaggio composito. Ogni singolo elemento si lega in modo caotico con il resto.
Quello che restituisce Roberto Castello, non vuole essere in alcun modo una condizione partecipativa, men che meno liberatoria. Quello a cui si assiste è uno spaccato radiografico della società contemporanea. Ogni scena, nell’evolversi dei minuti, trasuda sempre di più di schizofreniche ramificazioni. È proprio attraverso i corpi dei danzatori che si propaga questa frenesia. Proprio attraverso l’elemento del corpo che altro non è che il costrutto politico per eccellenza. I sei quadri si svelano nell’inevitabile scorrere di un tempo sconosciuto, avvolti in una sonorità graffiante e sbalorditiva.
Riaccesesi le luci i volti degli spettatori appaiono turbati. Gli applausi si levano, ma le domande che aleggiano nell’aria sono tante. I movimenti lenti e stanchi conducono i partecipanti fuori. In quell’inferno di cui questo lavoro è lastra radiografica.
Del Piacere ininterrotto
di Giuseppe Rabita
È il 29 novembre, tardo pomeriggio. Ci troviamo a Porta Nuova, un piccolo gruppo di studenti DAMS e della scuola Holden.
Destinazione Vercelli, Teatro Civico.
Perché sfidare le temperature che cominciano a diventare rigide, ingollare un panino alla svelta e schizzare in un teatro di provincia?
Il gioco vale la candela danno in prima regionale Inferno, ultimo lavoro di ALDES firmato Roberto Castello.
Arriviamo in teatro trafelati, qualche secondo dopo l’inizio. Scostando le tende della sala la scena è scarna: una collina, la luna, il tutto ha delle tinte molto oscure. Ogni tanto si sente un boato. Un danzatore arranca, cade, si contorce. È il primo quadro di un inferno che si confonde con il paradiso. Roberto Castello non traccia confini tra bene e male e il tormento lo cela dietro i riti del piacere: ci trascina in gallerie d’arte, dentro i vortici della disco music in cui sette danzatori si lanciano con virtuosismi e esibizionismi. Gli assoli, in cui l’ego del singolo viene pompato pur di superare gli altri ci raccontano un inferno individualista: l’inferno dell’ideologia del merito.
In scena sono sette: Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri sugli sfondi realizzati in video dallo stesso Roberto Castello, e sulle musiche trascinanti Marco Zanotti e Andrea Taravelli, si esibiscono in pezzi di teatrodanza, balli di gruppo, e perfino uno scatenato rockabilly, incarnando la società dello spettacolo: la società del presente.
E se assistiamo partecipi e divertiti ai riti del piacere della cultura contemporanea, vittime e carnefici della società della performance, i settanta minuti di Inferno di ALDES, tra paiette vestiti scintillanti, risate e balli tribali non fanno che suscitare una domanda: come uscirne?
Italo Calvino finisce le sue Città invisibili dicendo: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Roberto Castello non sembra invece darci via di scampo: l’infero è quello che abitiamo tutti i giorni e forse non ci sono modi per non soffrirne.
Ma intanto divertiamoci!
Buio.
L’ultimo ultimo capodanno
di Martina Vianoni
Suoni lievi ma tribali / corvi / alberi che sono mani / adunche / pigiami, vestaglie, lustrini / eleganti per l’ultima notte / versi animali / ultimo capodanno da fine del mondo / aspettiamo la fine / sperando / un circo, una banda / che contenga un inizio / tamburi, piatti, sonagli / saltano anche gli alberi alla luce dell’alba / dei loro peccati / dei loro rimorsi / è il canto lirico del nostro epilogo / dove sfuma il tono dell’allegria / si accende l’acuto della devastazione / un frigo rosso vola nel cielo / del mondo è rimasta soltanto la luna / ciabatte rosa e un asciugamano in testa / dopo la doccia / zombie finiti qui per caso / le ciabatte calzano grandi / anche volessimo / non potremmo scappare / ma se ci prendiamo per mano / possiamo guardarci negli occhi / ci imbattiamo l’uno nell’altro / per caso / il nostro boa ha perso qualche piuma / pulcino superstite / sul palco / della fine del mondo.
Quanti giorni mancano / alla fine? /
Li contiamo / stanghette nere / su muro di mattoni / siamo un paesaggio / desolato / mostra d’arte contemporanea / di noi stessi / musei / del nostro passato / possiamo commentarci / berci / brindarci / valutarci, prezzarci, acquistarci / e abbandonarci / è una bomba / o una festa di compleanno? / se soffiamo / si applaude / o si muore? / qualcuno muore, lontano / ma non siamo noi / questa volta / non siamo noi / ticchettio / o conto alla rovescia / fisiologico / dei nostri giorni / facce da spavento / eppure / sorrisi / ultimo party / ossessivo / rito antico / dell’estinzione / campane e salvezza / o dannazione / sabba dei vivi / precipizio dei morti / spogliarsi è il gesto / naturale / unico / velluto / che può salvarci / l’anima / e il culo.
Si accende una luce / è l’alba / noi corriamo / in cerchio / ci scappiamo / ci inseguiamo / le nostre dita / puntano altrove / siamo scimmie / morse dal demonio / e il demonio / in cerchio / lo cerchiamo / coda a sonagli / che ci racconta / l’imminenza / della fine / una danza / della pioggia / senza pioggia / i passi / piccoli / le distanze / lunghe / procediamo / a capo chino / dove andiamo / non è il noi / che lo decide / più tribale / di così / si muore / (o si vive) / infatti / siamo morti / vivi / adieu / e se la carne / ci vibra addosso / è il rimasuglio / di una vita / che rimane / in qualche mossa / ci scoviamo / umani / è soltanto / un accenno / un bagliore / transitorio / e stanotte / le statue / stanotte / se ne vanno / se potessero / i quadri / prenderebbero / fiato / per lasciare / la tela / lì / bianca / e scivolare / via / di lato / invece / c’è uno squalo / a mollo / nel pavimento / smorfie / nello specchio / lo specchio / sono / le altre facce / aftershow / dei nostri giorni/ showreel / di anime storte / lago dei cigni / in cui annegare / gran cabaret / sciarada / di sventura / nostra / autoindotta / e sepolcrale.
Inferno è il posto che fuori dalla finestra gli alberi si spogliano e tu dentro la finestra hai più freddo.
Quadri infernali
di Maria Rosaria Visone
Non il punto più basso, non il luogo più oscuro, non il mondo più torrido. Anche qui e adesso, l’inferno di Roberto Castello è alla luce del giorno: negli spazi che attraversiamo, nelle parole che ascoltiamo, negli sguardi che incrociamo. Spesso è visibile, altre volte celato.
Ci sono due modi per non soffrirlo: «il primo riesce facile a moltə: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino).
#Quadro1 L’inferno è un un’isola blu, lontana, sperduta, arida. Ci vivono creature strane, su quest’isola. Si muovono, esplorano oltre la dimensione umana. Vibrano e fanno vibrare rami rossi, spogli generano stormi di uccelli neri accendono fuochi d’artificio bianchi suggeriscono forme di vita diverse. Ma tutto è estremamente apocalittico, anche il dialogo. Non c’è relazione, tutto ristagna e rallenta. Destrutturato, anche il suono. Di fuoco e fiamme, neanche l’ombra. Eppure, l’inferno: una macchina ghiacciante.
#Quadro2 L’inferno siamo noi quando vaghiamo senza meta. L’inferno siamo noi quando regaliamo energia all’inerzia. L’inferno siamo noi quando guardiamo ma non osserviamo. quando afferriamo ma non teniamo. L’inferno siamo noi annoiatə in ciabatte in accappatoio in pigiama quando vorremmo agire ma non agiamo e usciamo di scena perdendoci la vita.
#Quadro3 L’inferno è un qualsiasi luogo affollato di vuotezza. L’inferno è un qualsiasi luogo governato da classismo superficialità pochezza inconsistenza sull’orlo di un precipizio sociale dove passeggiano bombe emotive pronte a scoppiare in un delirio danzante che (tutto sommato) ci piace.
#Quadro4 L’inferno è qualsiasi atto di persuasione nei confronti propri nei confronti del mondo. L’inferno è dipingere dipingersi oltre i limiti della (propria) Natura. L’inferno è il contemporaneo avulso dai contesti un pensiero non ragionato una voce gelida.
#Quadro5 L’inferno è un caos brillante un ribaltamento dell’ordine primordiale L’inferno è una danza bella, giocosa fatta di infinita energia estrema vitalità inesauribile gioia inestimabile colore. … L’isola blu esiste ancora è ancora freddo. L’inferno precipita ovunque il pubblico l’ha solo dimenticato.
Gianni Staropoli – light designer, docente a progetto presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e tre volte Premio Ubu per il Miglior disegno luci (dal 2017 al 2019) – è tutor del bando τέχνη | téchne di Lavanderia a Vapore, quest’anno rimodulato in una residenza collettiva per cui sono stati recentemente selezionati i progetti di Fabritia D’Intino, Concerto_The invisible (realizzato con Federico Scettri), e di Teodora Grano, Daughters (clicca qui per approfondire). Abbiamo avuto modo di incontrarlo e di discorrere con lui – tra folgorazioni antiche e recenti illuminazioni – di drammaturgia della luce.
«Di solito uso uno spazio scenico molto vuoto, non c’è quasi niente, il che rende molto complicata la recitazione degli attori […]. In effetti lo spazio scenico lo descrivo con le luci, sono molto visionario; la luce ha una parte essenziale e la ricerca dello spazio scenico per quello spettacolo, già dal punto di vista dell’immaginazione, deve renderlo adatto anche a intercettare la luce e a riproiettarla […]. Quindi, la luce come determinazione dello spazio scenico. E non solo. Se un attore recita con una luce azzurra, se ne è cosciente, lo fa in modo diverso che non con una luce rossa. Non solo dal punto di vista estetico, ma anche della carica entusiastica, delle pulsioni. Sappiamo benissimo la forza dei colori sullo spettatore. Ma questo funziona anche sugli attori. Comunque faccio teatro in modi molto diversi: una volta ho recitato con quaranta candele e un tamburo, altre volte con dei neon, oppure con delle luci antinebbia brutte, assolutamente brutte. Agisco a seconda di quello che voglio trovare o che voglio ottenere, ma non per un effetto decorativo.»
Leo de Berardinis, Dialogo sull’attore, a cura di Giorgio Zorcù, Effigi, Arcidosso 2012, pp. 36-37.
Partiamo da una questione di “sottopancia”. Ti senti più luciaio o light designer?
Avverto la scissione tra questi due termini, che inquadrano entrambi un mestiere, un’esperienza. Vi è però una notevole differenza tra l’uno e l’altro. Sul palcoscenico mi sento infatti luciaio, nelle fasi di montaggio, nel corso dell’allestimento, durante le prove, quando tocco con mano i corpi illuminanti, mentre osservo ciò che accade. Al luciaio associo anche uno sguardo, o meglio un’azione e una direzione dello sguardo. Light designer è invece un’etichetta comoda per locandine e crediti. Mi sta bene, lì. La tollero. Faccio fatica tuttavia, intimamente, ad accettare l’idea che esista un “disegno luci”, a digerire quest’espressione invalsa ormai nell’uso: per me, con la luce, non si disegna affatto. Si fa, si prova a fare quantomeno, tanto altro. Non disegniamo. L’esperienza contraddice la consuetudine verbale. Laddove il secondo termine insiste sul mestiere, il primo evidenzia il dato essenziale, la luce, componente che chiama con sé in causa lo sguardo, di cui dicevo prima. Quindi il luciaio è colui che cura, che si addentra in un certo modo all’interno del lavoro drammaturgico.
Insita nel concetto di luciaio è anche una certa materialità. La parola pertiene insomma anche al campo dell’artigianalità, del creare, del com-porre (nel senso di montare, mettere insieme).
Esattamente, negli allestimenti c’è un fare. Non è la creazione, quanto più è un addentrarsi, passo dopo passo. Quindi la composizione si disvela progressivamente, nel trovare poco alla volta qualcosa. Ecco che nel luciaio confluisce quest’aderenza, questa porosità. E naturalmente la sapienza artigianale è parte strutturale del lavoro: la luce è materiale e immateriale, fisica e metafisica. Ma investe anche, coreograficamente, lo spazio.
Quali verbi assoceresti al tuo processo di ricerca luministica?
Beh, trovare ultimamente mi risuona molto. In effetti, quando si cerca qualcosa e poi lo si trova si riesce a intuire, a comprendere: “una luce si accende” dentro di noi. È un percorso di conoscenza. che coinvolge il luciaio, il regista, il corpo degli attori o dei danzatori, lo spazio. Questo trovare si lega anche a un aspetto della scrittura, alla drammaturgia, alle scansioni, agli scarti dell’azione scenica. Tutte istanze che vanno appunto trovate. Amo ripetere: “È importante fare la cosa giusta al momento giusto”. Un cambio luci, per esempio, può essere banale, ma – se inserito al momento opportuno – può anche rivelarsi un fondamentale elemento drammaturgico della partitura.
Quali sono, a livello visivo e biografico, le suggestioni alle origini della tua carriera?
Sono cresciuto su una collina sopra Tropea. È la casa della mia infanzia, dove tuttora vive mia madre. Dalla finestra si vede il mare: ho in mente quell’immagine potente, che si estende a colpo d’occhio dallo stretto di Messina all’Etna, passando per le isole Eolie (Vulcano, Panarea, fino a Stromboli). Per vent’anni ho osservato e assorbito questo panorama: si è impresso in me. Credo quindi che nasca tutto da lì. Ovviamente questo fatto l’ho elaborato molto tempo dopo aver iniziato a interagire e a dialogare con la luce. Con gli anni, tale consapevolezza si è cristallizzata. La folgorazione definitiva l’ho poi avuta avvicinandomi a Marcello Sambati, poeta, autore e regista (nonché creatore di spazi e animatore di teatri), che fondò negli anni Settanta la compagnia Dark Camera, grande protagonista dell’avanguardia teatrale e delle cantine romane. L’incontro con lui è stato decisivo, sia da un punto di vista poetico che sotto il profilo professionale. L’aver iniziato con la sua arte, con la sua umanità, mi ha dato una forma, un imprinting.
Che cosa rappresenta, da un punto di vista emotivo e compositivo, la ricerca di una determinata luce, che investe – per esempio – il corpo dei danzatori in scena?
Non ho una risposta univoca. Varie possibilità emergono infatti a seconda dei casi. Credo innanzitutto che esista una differenza sostanziale tra organizzare, disporre, le luci e “fare la luce”, generarla. Alcuni lavori richiedono esplicitamente l’una o l’altra soluzione fin dall’inizio. Vi sono poi spettacoli che virano verso un’unidirezionalità luministica, spettacoli invece che richiedono una gamma, un’iride, uno spettro più ampio. Prima di decidere se optare per un controluce giallo o bianco, mi domando sempre: “Che cos’è la luce?”. È una domanda che mi sorge spontanea. Così come mi chiedo: “Che cos’è questo corpo, questo apparato, dinanzi a me?”. Anche la luce è nel qui e nell’ora, è legata a ciò che accade realmente. Bisogna ascoltare pertanto le parole del testo, il movimento degli artisti, lo spazio. È sempre un lavoro di scoperta: non procedo mai “di mestiere”, manieristicamente. Non mi anima cioè la trovata di sicura presa, il “qui funziona quello, qui quest’altro…”. Certo, ne deriva un percorso che è sempre un po’ in salita, perché anziché accontentarmi di uno schema riproducibile in maniera passiva, prediligo la sfida, il rischio della ricerca. Da un lato è un mio percorso personale, dall’altro – per poter illuminare un corpo e uno spazio – devo necessariamente entrare all’interno di un discorso autentico, sincero.
Proviamo a passare su un piano concreto: OMBELICHI TENUI, in scena alla Lavanderia a Vapore a inizio novembre. Che cromia emanava quello spettacolo? Come hai costruito in quel caso la drammaturgia della luce?
Premetto che io amo seguire le prove, proprio per capire che cosa risuoni tra le varie persone coinvolte in un certo processo artistico. All’inizio infatti c’è sempre un incontro umano, precondizione essenziale al buon esito del lavoro. Una necessità insomma di dialogo e di umanità. Con Filippo [Porro] e Simone [Zambelli] ci siamo trovati fin da subito molto bene. Il loro percorso in OMBELICHI TENUI è stato, per così dire, “trasformativo”. Era partito in una certa direzione; io sono poi subentrato nella versione più “teatrale” della ballata. Abbiamo pertanto lavorato insieme sulla definizione dello spazio. Non è tanto un problema di ambientazione, quanto più domandarsi: “Che tipo di spazio c’è?”. L’importanza dunque di individuarlo… La mia proposta è stata in effetti estremamente concreta: abbiamo debuttato a Castiglioncello, in condizioni neppure troppo propizie. Abbiamo creato un varco nello spazio, una specie di porta (e qui si sono innestate le luci per dare l’atmosfera, la temperatura giusta). La mia proposta – dicevo – è stata molto netta: creare una realtà fisica entro cui collocare la relazione fra questi due corpi. Quindi abbiamo lavorato sulla concretezza…
… nonostante – mi viene da dire – l’alta trascendenza di quell’aldilà che dà titolo alla ballata. La ricerca, insomma, da parte tua, vostra, di una materialità in un setting tradizionalmente deputato, invece, all’inconsistenza.
Sì. Anche se poi il rapporto con lo spettatore, in teatro (pur essendo quest’ultimo, come piace pensare a me, un luogo di utopia e di illusione), ti porta sempre a un forte grado di concretezza. È lì presente un pubblico, che guarda, che respira, che tossisce. Abbiamo lavorato così in direzione della definizione di uno spazio leggero, transitorio, tenendo però conto della tattilità della relazione con la platea.
Un altro progetto della Lavanderia a Vapore che ti vede protagonista, in veste di mentor, è τέχνη | téchne, giunto ormai alla sua terza edizione. Vuoi darci qualche feedback su questo fronte?
Come in tutti i progetti si compie inevitabilmente – nel tempo – una trasformazione. In effetti, già nel corso della sua ultima tornata (a fine ottobre, con A TALE FOR THE ROOTLESS), τέχνη | téchne è mutato. Nato grazie all’attenzione, alla sensibilità e alla cura di Valentina Tibaldi e dello staff di Lavanderia, questo percorso è nato fondamentalmente come “residenza di accompagnamento tecnico”. Ben presto ci siamo resi conto, però – e nella residenza di Teresa [Noronha Feio] questo dato è emerso in maniera evidente -, che non ci si potesse naturalmente fermare a una trasmissione nozionistica di saperi pratici. Certo la tecnica resta basamento, ma intesa come ars, come grammatica compositiva del corpo illuminante. Abbiamo per esempio abbandonato la giornata dedicata all’illuminotecnica, non abbiamo parlato di sagomatori o domino. Piuttosto, ci siamo concentrati sul lavoro di Teresa, che tornava in scena dopo alcuni mesi. Per me la luce è innanzitutto un pensiero, che – per trovare concretizzazione – si affida a maestranze e strumenti, tecnologie. Quest’anno abbiamo insistito molto sulla drammaturgia del lavoro, su alcuni nodi dischiusi un po’ a ventaglio. Man mano che si procedeva con la residenza, da parte mia introducevo riflessioni che potessero sollecitare la costruzione, in particolare sui temi dello spazio e della luce. Teresa aveva portato un’opera in fieri: ne possedeva dei segmenti, che nel “filaggio” era necessario rafforzare, lavorando sulle transizioni, sulle estremità (l’inizio, la fine), sulle durate, sui tempi di esposizione del corpo alla luce. Questioni che – di norma – vengono trascurate, su cui non si ragiona in maniera debita, ma che quando vengono adeguatamente esplorate diventano fondamentali in ottica creativa.
Dal 2023, τέχνη | téchne diventa una residenza collettiva, un percorso di formazione condivisa e collaborativa in cui i partecipanti, a partire da un proprio progetto artistico in divenire, avranno modo di scandagliare visioni e nozioni pratiche relative alle componenti della luce, del suono e dello spazio al fine di leggere e comprendere la tecnica non come elemento da configurare nella fase conclusiva del prodotto artistico, ma come dimensione da pensare in nuce, in quanto stratificazione della drammaturgia del progetto. Ecco, qual è il valore aggiunto che si cela all’interno di questa nuova modalità, di questo spazio-tempo innervato di scambi e relazioni?
Chiara Organtini ha avuto – il termine mi sembra più che mai calzante in questo contesto – un’illuminazione: ha avvertito il desiderio di allargare la platea dei partecipanti, trasformando appunto τέχνη | téchne in una residenza collettiva, in un ambiente di cura reciproca. Credo che questo switch possa rivelarsi determinante. Per come la intendo io, diventerà quasi una residenza creativa, un allestimento collettivo e in progress al cui interno io interverrò (in base alla direzione assunta dal lavoro) stimolando quesiti relativi allo spazio, al colore, al corpo, alla drammaturgia della luce. Non si tratterà insomma di domande predeterminate a priori, come in una lezione frontale, bensì dipendenti dalle necessità specifiche della creazione. Il focus è il lavoro che gli artisti selezionati portano, o meglio un suo segmento. A partire da qui andremo a innestare tutta una serie di interrogativi che possano nutrirlo, mettendo in atto magari piccole prove o variazioni. Un allestimento, d’altronde, è sempre un viluppo di pratica e teoria, riflessione e azione. Ciascuno guarderà il lavoro altrui, in una dinamica circolare di riflessione e rifrazione delle questioni. In ciò consiste, dal mio punto di vista, il maggior valore aggiunto di questa nuova postura.
Dopo essersi scatenata nei festeggiamenti per i 7 anni di gestione Piemonte dal Vivo (clicca qui per leggere il reportage), la Lavanderia a Vapore di Collegno, tra il 18 e il 19 novembre, ha ospitato l’edizione pilota di un trasognato e “stellare” Research Camping, dal titolo Wandering Bodies (clicca qui per approfondire), co-progettato dal Centro di Residenza insieme a Workspace Ricerca X. Un ambiente aperto all’immaginazione collettiva di artistə e curiosə, ospitatə sotto le Tende o nella vasca di una metaforica (e sinestetica) Piscina. Anche quest’esperienza, lavorando sullo scambio, sulla ricerca e sulla ridefinizione dei luoghi e delle liturgie dello stare comunitario (con un ritmo più lento e morbido rispetto ai dionisismi della festa) si è configurato come una forma virtuosa di “scrittura dello spazio”.
Nel corso delle ultime settimane, la Lavanderia a Vapore è stata “teatro” di due importanti avvenimenti: dapprima – il 12 novembre (tra astronauti, amache e dance floor) – si è scatenata nei festeggiamenti dei 7 anni di gestione Piemonte dal Vivo, che cura appunto dal 2015 – in qualità di capofila – le attività del Centro con un Raggruppamento Temporaneo di Organismi, costituito attualmente anche da Coorpi, Didee, Mosaico Danza e Zerogrammi. Qualche giorno più tardi, tra il 18 e il 19, l’antica ala del Manicomio di Collegno ha ospitato un eccentrico e trasognato Research Camping, co-progettato insieme a Workspace Ricerca X, aperto all’immaginazione collettiva di artistə e curiosə. Entrambe le esperienze, lavorando sulla ridefinizione dei luoghi e delle liturgie dello stare (con un ritmo più accelerato nel party, più lento invece nel “campeggio stellare”), si sono configurate come forme virtuose di “scrittura dello spazio”, pensate per invadere il palcoscenico e stimolare drammaturgie di comunità. Ma cominciamo dalle 7 candeline…
A partire dalle ore 15 e fino a notte inoltrata, la Lavanderia a Vapore e la circostante cornice del Parco della Certosa sono state letteralmente invase, solcate, o per meglio dire “scritte”, “coreografate” – tra formati immersivi e spazi diffusi -, da una ricca pletora di corpi danzanti. Per un quadro completo sul long-durational-event, clicca qui.
In generale, al centro di questa giornata di celebrazioni collettive, ça va sans dire, l’immancabile nozione di cura, bussola delle attività del Centro di Residenza per la stagione in corso. Dalla cura nella micro-politica del corpo si è pian piano passati alla cura nella macro-politica delle relazioni interumane, in una festa che ha preso progressivamente forma fino all’epilogale eccitazione dionisiaca. Se nel pomeriggio l’amaca di Paola Colonna ha reso possibile una sorta di lieve “ablazione” dell’io, la tenda di Elisabetta Consonni e Fatima Ferro ha stimolato invece al proprio interno un’indagine sui saperi del corpo provenienti dalla tradizione non-occidentale. Il tutto – grazie alla collaborazione con Cooperativa Atypica – negli spazi dell’ex Hammam di Villa 5, luogo tradizionalmente deputato alla cura di sé (e sede peraltro di una lecture-performance di Giorgia Ohanesian Nardin). Collateralmente, si è svolto – tra la Stireria e il Parco – un laboratorio sulla lentezza per gruppo ristretto di partecipanti, all’interno del quale Consonni e i suoi collaboratori sono riusciti a trasmettere una certa qualità di slow-motion, di rallentamento fisico e creativo da paradosso zenoniano, sfociato poi in un allunaggio itinerante per le strade della città. Antipasto degli eccessi serali è stato infine il DISCOBOX di Fabritia D’Intino e Federico Scettri, accolto nel tepidarium di Villa 5, un interessante esperimento immersivo a cavallo tra l’installazione interattiva e il dj-set in cuffia.
A nutrire l’intero progetto, un fondamentale interrogativo: in che modo, da una ri-centratura del proprio corpo, è possibile ri-concepire la relazione con l’altro? Altrimenti detto: dalla cura del sé, che diventa cura del corpo, come si approda alla cura dello spazio e di chi lo abita? È in effetti la cura a consentire l’edificazione di mondi possibili, l’emersione di riflessioni sul tema del piacere fisico, la generazione di pause di rallentamento del tempo. Di quel prezioso tempo “non produttivo” della festa avvinto a filo doppio all’idea – provocatoria e paradossale – di wildiana memoria di “inutilità dell’arte”.
Acme dei “trattenimenti”, INTO THE OPEN di Voetvolk, collettivo di danza e performance con base tra Anversa e le Fiandre. “Un folle concerto di danza – così lo ha definito Ewoud Ceulemans sulle colonne del «De Morge» – in cui tre musicisti punk e quattro performer dalle gambe snodate danno vita a una festa selvaggia”. I sette protagonisti in scena incarnano il groove e condividono con il pubblico in sala l’energia della musica. Spronandosi a vicenda con il krautrock ruffiano o con il tema ripetitivo dei Can incrociato all’alta tensione dei Chemical Brothers, la formazione è riuscita a invitare tutti i partecipanti a “un salto collettivo […] nel limbo”.
concept Lisbeth Gruwez e Maarten Van Cauwenberghe coreografia Lisbeth Gruwez e performer performance Francesca Chiodi Latini, Celine Werkhoven, Artemis Stavridi, Misha Demoustier, Maarten Van Cauwenberghe, Frederik Heuvinck ed Elko Blijweert musica Dendermonde drammaturgia Bart Meuleman repetitor Francesca Chiodi Latini light design Yann Windey costumi Jean-Paul Lespagnard in collaborazione con Muriel Kunkel e Marcelo Chaviro suono Bart Van Immerseel tecnico Kevin Deckers produzione Voetvolk vzw coproduzione KVS – Royal Flemish Theatre, AB – Ancienne Belgique, Theater Im Pumpenhaus, Dansens Hus Oslo & Vooruit Ghent
INTO THE OPEN – da un lato chiusura del compleanno di Lavanderia – ha funto tuttavia al tempo stesso anche da lancio della rassegna diffusa di danza contemporanea We Speak Dance, ideata da Piemonte dal Vivo sul territorio regionale. A tal proposito è nata – sulla scia di How do you spell dance? – una redazione “errante” di giovani penne (che seguirà alcune tappe del progetto) provenienti dal DAMS/Università di Torino e dalla Scuola Holden, cui viene affidato il compito di tradurre in parole e immagini la visione coreografica, sperimentando svariati formati e output. Ecco qui di seguito i loro contributi per questa prima data:
A mo’ di entrée, in 600 battute di Federica Siani
Quando i confini vengono meno ed il limitare di territori vari (e vasti) è trascurato. Quando la certezza di cosa sia (o non sia) la danza vacilla. Quando il suono di due chitarre e di una batteria prende ulteriore vita attraverso chi si esibisce solamente con il proprio corpo, ma che in realtà anche canta e anche suona. Una performance totalizzante, un concerto performante che si fa danza ed una danza che si fa concerto. Una prova che si colloca al confine tra una disciplina e l’altra, rendendo necessaria una sospensione dei generi, e che prevede l’amalgamarsi di diversi campi artistici. Anche questo è stato Into the Open, l’apertura della rassegna We Speak Dance del 12 novembre 2022 presso la Lavanderia a Vapore.
Corpi di nebbia di Martina Vianovi
La prima cosa è la nebbia.
Quella fuori (inizia a far freddo, brina sui prati qui attorno) e quella dentro, sinuoso regalo delle macchine del fumo. Le due brume ci lusingano con false aspettative: che ad attenderci sia uno spettacolo morbido e sospeso, in qualche modo velato.
Invece a questo show piace mettere le cose in chiaro. Lo fa subito, sputando fuori dal retropalco i performer uno ad uno, ciascuno a prendersi il proprio tempo sotto la luce geometrica dei neon colorati. Ci vengono incontro con un’aria divertita e un sorriso da flirt, ci guardano, si guardano, e questo palleggio suggerisce un gioco sottile — Non sapete cosa vi aspetta. Noi sì.
Non è solo danza, questa. È concerto e danza insieme, senza dubbio e senza confini, la batteria che si prende un terzo di palco e i chitarristi che si annodano ai danzatori in una ragnatela di movimenti elastici e dita su corde elettriche e bacchette indiavolate su tom e rullanti. Alla coreografia piace lasciare spazio al dubbio, invece: che non sia gabbia ma solo suggerimento, una raccomandazione da leggere negli accenti dei corpi — una spalla improvvisa, un ginocchio di lato, la mossa repentina di un fianco — ma sempre con un margine di libertà da riempire a piacimento. E che a piacimento viene riempito.
Hanno l’aria di non toccarsi mai, queste creature da palco, anche quando si toccano. Restano a distanza anche vicinissimi, quasi un campo magnetico li proteggesse dal respiro altrui, ballano un gioco interiore con se stessi più che con gli altri, come quando le feste iniziano e l’imbarazzo invischia i movimenti. Ma lo spettacolo dà un colpo di coda e il loro confinarsi si sovverte in un rallenty: alcuni si spogliano di qualche indumento, eppure non sono solo pezzi di stoffa a rimanere indietro, è un vero e proprio liberarsi. Un rivelarsi. Da lì, la dinamica è ribaltata: adesso sì che si toccano, anche da lontano. E lo sappiamo, è nel toccare che qualsiasi festa inizia davvero.
È difficile restarsene a chiappe incollate alla sedia con questa musica, questo rock che sbatte sulle pareti e vibra sulla nostra pelle e scende giù nelle orecchie, eppure a farci desiderare il movimento non è il palloncino gigante che hanno liberato in platea perché giocasse con le nostre braccia e non è neanche quel flirt di sguardi, è che questi hanno l’aria di divertirsi sul serio. Se il pubblico lasciasse la sala, se sciamasse via dagli spalti e fuori dalla Lavanderia a vapore, se togliesse la brina dal tergicristalli e volgesse verso casa, si spogliasse del cappotto, entrasse nel pigiama, rispondesse al miagolio del gatto o allo scodinzolio del cane con uno sbadiglio e si mettesse a dormire per prepararsi all’indomani, nel frattempo questi matti non farebbero una piega, sarebbero ancora qua a suonare, a ballare, a farsi attraversare il corpo di energia e a spararla fuori, ad agganciare le note alla colonna vertebrale per trasformare le terminazioni nervose in frastuono di movimenti.
Forse stava proprio lì, il cuore di tutta la faccenda — a un certo punto lo capiamo. A fine spettacolo, ai bis e ai tris invocati a gran voce si impasta un invito a raggiungere lo spazio scenico. Di più: a invaderlo. Ma è l’invasione di un luogo già nostro, anche se ancora non lo sapevamo. È la festa ultima e definitiva, perché dentro quella musica forsennata entriamo tutti ora, la settantenne della seconda fila e l’adolescente venuto giù dall’ultima, corrono fra i cavi e gli strumenti a mescolarsi coi performer, coi musicisti, con la benedizione del sudore e con il sentire di quei corpi vivi finalmente, inchiodati, o stanchi o vecchi o ridicolmente giovani, ipotetici, mancanti, dimenticati, ma liberi adesso, e senza censure e senza lacci a trattenerli.
Corriamo tutti in centro palco, e questo era il dove a cui approdare: Into the open. A cielo aperto, in bella vista, allo scoperto.
La prima cosa era la nebbia.
Ma dentro ci abbiamo visto benissimo: la festa esplosa dei corpi da abitare. I nostri corpi, tutti i corpi.
INTO THE OPEN. Vale a dire una danza folle e dirompente, dai ritmi Punk di Michele Pecorino
Tra la nebbia autunnale, che si poggia live e silenziosa sul ciottolato del parco della Certosa , si distinguono chiaramente gli elementi strutturali della Lavanderia a Vapore. Le sue ampie finestre lasciano filtrare all’esterno una luce cangiante, diversa da quella a cui si è usualmente abituati. Gli ultimi passi sono calamitati dal chiacchiericcio quasi trepidante, proveniente dal Foyer. Una volta dentro l’atmosfera che si respira è quella di festa. In questo sabato 12 novembre, il clima caldo e coinvolgente, creatosi sin dal primo giorno della fondazione della Lavanderia a Vapore, è più che necessario per festeggiare il suo genetliaco. Il pomeriggio, già ricco di eventi, non è potuto che tradursi in una serata fuori dalle righe, con lo Spettacolo Into The Open. L’opera è frutto della compagnia di danza e performance Voetvolk. Gruppo che nasce dall’idea di due danzatori quali Lisbeth Gruwez & Maarten Van Cauwenberghe.
L’avvenimento spettacolare, oltre ad inserirsi all’interno della cornice degli eventi per il settimo anniversario dell’istituzione, ha inaugurato la rassegna di danza contemporanea We Speak Dance. Questa rassegna diffusa sul territorio regionale è curata dalla fondazione Piemonte dal Vivo. Entrando in sala, lo spettatore, sin da subito, si è trovato davanti ad una scena alquanto insolita. Forse molto distante da quella che qualcuno si sarebbe immaginato pensando ad uno spettacolo di danza. Il classico biglietto, recante la fila e il numero assegnati, non avrebbero mai fatto supporre ad un interesse, da parte dei performer, per un coinvolgimento attivo. Su di una piattaforma mobile, grazie alle ruote di cui è dotata, è posizionata una batteria dalle dimensioni generose. Non appena tutti hanno già preso posto, a comparire dal fondo della scena è il batterista che, stappata una lattina di birra e messosi comodo, inizia ad incalzare con ritmi punk. Seguendo il groove, scandito dalla batteria, fanno il loro ingresso un bassista e un chitarrista. L’essere introdotti da questo groove, sempre più arricchito, sembra quasi rimandare alle dinamiche dei Leitmotiv wagneriani. Per ultimi fanno la loro comparsa, sempre dalle quinte, quattro danzatori dai movimenti fluidi. Sembrano incarnare, con i loro corpi snodabili, il ritmo folle della musica. La carica d’adrenalina nello spettatore viene fatta crescere sempre più. L’azione in scena si crea in relazione con quella che è la presenza dello spettatore. Il pubblico occupa, legittimamente, quella dimensione aggressiva che potrebbe fare pensare ad un concerto Rock o Punk. Gli stilemi, oramai classici che sono rientrati a tutto diritto nel linguaggio riconosciuto di questa musica, si interfacciano con nuovi orizzonti comunicativi, con nuovi codici espressivi. La danza frenetica segue un climax che si specchia nello spettatore attraverso la sua esperienza personale, ben radicata. Non si fa fatica a ricondurre quello che si sta ascoltando ad altre esperienze musicali che hanno segnato un epoca culturale. Il terreno fertile su cui si fa strada il groove di Into The Open, è lo stesso spazio sonoro prolifero ed entusiasmante generato dall’ascolto dei Ramones dei Nirvana, di Jimi Hendrix.
Il ritmo, nella sua crescita costante, è soprattutto reso attraverso l’attenta partitura ritmica delle luci. Si è così all’interno di un luogo dove la particolare compenetrazione tra panorama sonoro e quello visivo, crea uno spazio. Una relazione. Per la costituzione di questo spazio, naturalmente, un’importanza rilevante l’assumono i corpi. Corpi attraversati da un movimento pre-esistente e che è quasi visibile negli attimi precedenti all’inizio dell’evento. La presenza dei corpi rivendica la necessità di andare oltre. L’interagire di codici e linguaggi apparentemente diversi, permette di affrontare un discorso di senso che riguarda, da vicino, il tema della presenza.Un discorso cosciente dei costrutti del corpo e che ci lavora, per aprire una nuova riflessione.
I movimenti accattivanti e provocanti risuonano nel pubblico, come una carica dirompente. I performer alternano momenti diversi. La partitura del movimento si struttura attraverso relazioni differenti tra luce e danza. Un primario momento di rottura della barriera tra il pubblico e la scena, è quando la piattaforma sulla quale è posta la batteria, viene tirata in avanti. Altro momento, altamente coinvolgente, è il lancio sul pubblico di un enorme palloncino di gomma. Gli spettatori iniziano a farlo rimbalzare senza sosta. Il movimento lento e leggero del pallone, che a tratti ricorda la leggerezza della nebbia che nel frattempo scende più fitta fuori, entra in stretto contrasto con la musica dai tratti spigolosi e taglienti. Lo spettatore cessa di essere assoggettato alla sua pars costruens interiore e si getta a capofitto nella relazione con altri corpi. Questo avviene gradualmente: prima sospingendo il palloncino e dopo gettandosi direttamente sullo spazio scenico. La scrittura scenica si fa dunque cangiante e travolgente, in una performance che conosce la strada da cui proviene e che non ha timore delle vie inesplorate che le si aprono d’avanti.
Allo scoperto di Maria Rosaria Visone
Il palco come una mente appena sveglia: uno spazio quasi ordinato, sgombro ma non troppo, pronto per essere attraversato e vissuto, mentre una leggera foschia e uno strano silenzio lo invadono.
In questa calma, dal fondo della scena, sopraggiunge una figura. È come un segnale: il primo pensiero della giornata. Un pensiero leggero, disinvolto: tranquillamente, raggiunge la sua postazione, stappa una lattina di birra, sorseggia ed è subito pronto a partire. Si tratta di Frederik Heuvinck, batterista e percussionista della compagnia belga Voetvolk, colui che scandirà il tempo e il ritmo della performance e del gruppo. Ma Frederik non è solo: ad accompagnarlo e a creare con lui una vera e propria “macchina ritmica”, i due chitarristi Elko Blijweert e Maarten Van Cauwenberghe. Poi, come nella mente ad un pensiero se ne accumulano tanti altri, anche sul palco, accanto a queste prime tre figure, se ne avvicendano altre più “sfocate”: sono le tre danzatrici Artemis Stavridi, Celine Werkhoven e Francesca Chiodi Latini, insieme con il danzatore Misha Demoustier.
Into the open si apre così al pubblico della Lavanderia a Vapore di Collegno, con estrema naturalezza e spontaneità, nel giorno del suo settimo compleanno. Una pacatezza che poi si trasforma in un vortice inarrestabile, che non dà adito a pensieri negativi: può solo catturare e attraversare vigorosamente e in profondità gli spettatori e le spettatrici.
I/Le performer si palesano alternandosi in sfilate, invadendo progressivamente lo spazio, quasi sfidando la realtà che si apre di fronte a loro. Sfacciatə, sembrano inizialmente voler nascondere le loro personalità, le stesse che il pubblico, durante la performance, non potrà fare altro che riconoscere e adorare. Perché ogni performer rappresenta il mondo tutto, nelle sue peculiarità, nei suoi innumerevoli colori e nelle sue molteplici forme e sfaccettature. Sono come noi tuttə vorremmo essere: liberə dai preconcetti, dalla paura di essere giudicatə o di mostrarci per ciò che siamo realmente. E, come balzati fuori dalle tenebre dopo tanto tempo, basta loro un momento, un attimo, per rivelare tutta la loro essenza e potenza quasi sovrumana. Consapevoli di avere gli occhi del mondo addosso, finalmente si mettono a nudo, allo scoperto, senza filtri. Ostentano, mettono a soqquadro, lottano, producono sinergie ma anche illusioni.
Corpi, voci e musica compongono insieme sulla scena un ineluttabile compromesso legato alla vita: non può esistere forza senza momenti di debolezza e non può esserci fervore se prima non si attraversa la tranquillità. In questo alternarsi di emozioni, la musica rock incontra necessariamente la danza: una danza non codificabile o classificabile, una danza che esprime semplicemente un bisogno fisiologico. È il bisogno di muoversi, di dare respiro al proprio corpo in più direzioni, individualmente e/o con altre persone, in connessione con i/le performer.
Il palco diventa così anche il riflesso dei nostri impulsi più animali, quelli che quotidianamente mettiamo a tacere per restare saldi e stabili in superficie. E da luogo ordinato e sgombro, la nostra mente non può che popolarsi di nuovi input e stimoli: pubblico e performer si incontrano per partecipare insieme ad una grande festa, per creare un disordine “scomodo” alle vite ordinarie. È come un rito euripideo, dalle forme e dalle melodie tutte dionisiache. Una volta concluso, di esso restano dubbi, dilemmi e interrogativi, ma non hanno un sapore amaro: tutt’altro, sono accolti e avvolti da un’energia autentica, inaspettata, che permea e sopravvive irrimediabilmente nell’animo e nella mente di chi l’ha vissuta.
E tu, lo ricordi quand’è stata l’ultima volta? di Giorgia Borgioli
Quand’è stata l’ultima volta che hai mosso il tuo corpo senza pensare a niente?
Quand’è stata l’ultima volta che hai agitato la testa così forte da non renderti più conto di ciò che era intorno a te?
Quand’è stata l’ultima volta che le gambe hanno molleggiato sul pavimento senza controllo?
Loro, quei quattro ragazzi sul palco, lo sanno come fartelo ricordare.
Lo sanno così bene che compaiono sul palco sfacciati, disinvolti come se davanti a loro non ci fosse una platea di persone, ma solo un gran desiderio di perdersi nella musica senza pensare.
Arrivano, e uno dopo l’altro si aggiungono alla musica. Iniziano a muoversi tra i piatti della batteria, tra l’asta del microfono disposti sulla scena; i muscoli si lasciano intravedere tra shorts di jeans, canottiere di cotone e strass.
Fidatevi di noi, qui c’è solo da divertirsi, sembrano dire.
E allora tu, tra il pubblico, ti fidi davvero: la tua testa inizia a muoversi insieme alla batteria, insieme a quei quattro folli che saltano di qua e di là sul palco, scattano e poi si rilassano a ritmo di musica.
In un attimo la platea è inglobata nel ritmo, il teatro è trasformato in una discoteca anni ’90.
La libertà è un teatro popolato di luci al neon e musica a palla.
Un’enorme pallone rosa volteggia tra il palco e la platea.
Quando loro sentono che l’energia si sta esaurendo, ecco che la palla in lattice viene lanciata verso il pubblico che così si ricarica subito di energia e colore.
La musica dance aumenta di volume e forza fino a un limite che sembra essere fatto per essere superato.
E allora superiamolo questo limite, dicono loro.
Tutto è festa. Tutto è energia. Tutto, qui dentro, è materia viva che pulsa.
Si respira libertà. Qui la felicità è un fianco che sbatte contro l’altro e endorfine che si disperdono per tutto il teatro.